Enzo NATTA- Saggistica breve. Del “comunicare” e dell’implicito “condividere”


 

Saggistica  breve

 



DEL ‘COMUNICARE’ E DELL’IMPLICITO ‘CONDIVIDERE’

Sintesi di una recente lezione tenuta dall’autore presso l’Università La Sapienza di Roma

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“L’Europa deve imparare a comunicare”. Così il titolo di un editoriale apparso su un “diffuso e autorevole” (secondo la definizione più ricorrente) quotidiano all’indomani del voto europeo. L’invito, la sollecitazione, ma anche la tirata d’orecchi, si riferiva alla larga astensione che aveva caratterizzato il voto popolare e, di conseguenza, all’incapacità da parte della politica di coinvolgere l’elettorato. Un’incapacità che non riguarda comunque soltanto il mondo della politica, ma gli apparati della comunicazione nel loro insieme, vale a dire l’ambiente familiare, in primo luogo, seguìto dalla scuola, dai media, dalla cultura nel suo vasto e composito complesso.

Alla voce “comunicazione”, sul Dizionario Palazzi si legge: “Condividere con altri ciò che è nostro.” Giustissimo, perché per comunicare non basta il creatore, l’autore, occore anche il destinatario, il referente, che è il punto d’arrivo della comunicazione. “Un film senza spettatori è un non-film,” diceva Jean-Luc Godard, aggiungendo subito dopo “ma soltanto pezzi di pellicola incollati l’uno all’altro”.

Un comunicatore deve usare, perciò, parole (o immagini) consone (ovvero che abbiano un suono comune) con chi legge o chi ascolta, comprensibili all’uditorio dei fruitori. In altri termini, un comunicatore deve avere un pubblico se non vuole che le sue parole si perdano inascoltante, portate via dal vento. Un po’ come accade a Gargantua e Pantagruel, gli indimenticabili personaggi di Rabelais, che mentre si trovano sulla tolda  di una nave odono suoni misteriosi: parole congelate e proferite in paesi freddi, dunque non udite perché le parole per poter essere recepite debbono essere scaldate.

Più ancora dei politici e degli insegnanti, sono gli intellettuali che devono saper scaldare la parole per poter comunicare. Gli intellettuali sono il sale della terra, il barometro della società, della quale esprimono il cuore pulsante e afferrano l’anima per poi consegnarla alla Storia giorno dopo giorno. La prova? C’è più Italia in Ritratti italiani (Adelphi) di Alberto Arbasino, un centinaio di incontri con personaggi protagonisti della vita nazionale, che in tutti gli Atti Parlamentari e in tutto l’insegnamento degli ultimi cinquant’anni. E allora, accantoniamo l’ambito politico e quello scolastico (compresi i rapporti scuola-famiglia) per soffermarci sul fronte dei media, dove, mentre il cinema sta vivendo momentaneamente una fase di tregua dopo i successi conseguiti all’Oscar con La grande bellezza di Paolo Sorrentino e al Festival di Cannes con il Gran Premio a Le meraviglie di  Alice Rohrwacher, l’ambiente letterario è stato invece travolto da una polemica che non accenna ad affievolirsi in seguito all’intervento di Franco Cordelli su ”La  Lettura”, il supplemento letterario del “Corriere della Sera”.

Che cosa si lascia alle spalle la produzione editoriale italiana degli ultini vent’anni, si è chiesto Franco Cordelli? La risposta ha avuto l’effetto dirompente di un detonatore, perché la sentenza si è condensata in un limaccioso “una palude”. Giudizio secco e lapidario, che, dopo il lancio del sasso, ha richiuso la sua melma stagnante su una motivazione  che non lascia alcuna possibilità di appello.

Forse il “fair-play” e la diplomazia non sono nelle corde di Cordelli, il quale attribuisce alle lettere di casa nostra un lungo sonno che dura ormai da vent’anni, ma bisogna riconoscere che le argomentazioni addotte sono tutt’altro che peregrine. Testi alla mano, Cordelli ha portato sul banco degli imputati  Giorgio Falco di La gemella H e L’ubicazione del bene (entrambi targati Einaudi) cogliendo un fior da fiore tipo “le sagome sudate” nel primo dei due romanzi e “l’aria accucciata” nel secondo. Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che il presidente del Premio Campiello ha respinto con sdegno e disapprovazione la cinquina dei finalisti (fra i quali figura anche Giorgio Falco), bisogna pur ammettere che qualcosa non va e che l’apparato funziona piuttosto male. Intanto si legge sempre meno (solo il fumetto sta andando a gonfie vele e questo dovrebbe far riflettere sulla ritrovata vitalità di un linguaggio che è ponte fra scrittura e immagine, fra letteratura e cinema), allarmante sintomo di un solco sempre più profondo fra scrittore e lettore, fra comunicatore e recettore, frutto di una casta autoreferenziale, vittimisticamente ripiegata su se stessa, isolata dal resto del mondo e della  comunità in cui vive, incapace di farsi interprete delle inquietudini e delle attese di chi vorrebbe pretestuosamente rappresentare (basta con la solita storia della coppia di trentenni in crisi, sfiduciati, depressi e puntualmente accompagnati da fastidiose metafore falso-poetiche), divisa in tribù e gruppi di appartenenza editoriale, accolite di individui frustrati, astiosi e rancorosi.

Fra le cause di questa ossessione degenerativa e parossistica Alessandro Piperno (il suo Con le peggiori intenzioni si è aggiudicato sia il Viareggio sia il Campiello 2005) ha individuato la frattura creatasi fra lo scrittore e il personaggio, che dello scrittore dovrebbe essere l’alter-ego. Per saldare questa frattura, per ritrovare pienamente il senso del personaggio lo scrittore dovrebbe farsi antropologo, psicologo, sociologo. Ma, forse, anche qualcosa di più, perchè – come diceva Balzac – il segreto per creare un buon personaggio sta nel credere ciecamente il lui. Che poi, tradotto, significa che lo scrittore deve credere ciecamente in se stesso  e nella sua opera. Da lui inscindibile, come la sua anima. E qui torna in ballo il problema della comunicazione.

Come sostiene il sociologo Franco Ferrarotti i media non mediano, ma contribuiscono soltanto a esaltare i momenti dell’emotività. La conseguenza è che il nostro Paese vive uno stato di comunicazione imperfetta, a senso unico e a tutti i livelli, sì che la totale incapacità di comunicare ha generato una confusione dei linguaggi e la costruzione di una nuova Torre di Babele. Ecco spiegato perché non solo la letteratura ma anche il cinema (che è letteratura dell’immagine e che nasce sempre da un testo scritto, se non espressamente letterario) hanno perso o, nel migliore dei casi, affievolito quel rapporto diretto con la vita che è alla base di ogni atto creativo. Age e Scarpelli, con l’ironia che li contraddistingueva, dicevano spesso di aver allentato il contatto con la realtà sociale da quando non prendevano più i mezzi pubblici e non andavano più al mercato. In altre parole avevano tagliato i ponti con la cronaca del quotidiano.

Un’altra, se non addirittura la principale, causa della crisi comunicativa di letteratura e cinema sta nell’aver rinunciato alla cronaca come modello narrativo, come strumento essenziale della morfologia e della tipologia del racconto. Cronaca viene dal greco cronicòs, narrazione dei fatti secondo l’ordine del tempo, e come tale si fa garanzia di autenticità dei fatti riferiti e di linearità nell’esposizione.

Niente più della cronaca è in grado di affrontare e di esprimere con assoluta naturalezza la contraddittorietà dell’esistenza. La cronaca, infatti, è dotata di sensori capaci di captare le pulsioni della vita e di registrarne le pulsazioni (basti pensare alla regola ferrea delle cinque w: who, chi; whom, che cosa; where, dove; when, quando; why, perché). Quando la narratologia rinuncia a questi principi fondativi illudendosi di poter farne benissimo a meno, tutto diventa più difficile. Tanto è vero che Carlo Bo amava definire la letteratura “cronaca assoluta” e Dino Buzzati, cronista nei turni di notte al “Corriere della Sera” aveva sublimato le lunghe, noiose e spesso infruttuose attese del cronista in quel capolavoro che è Il deserto dei tartari. A dimostrazione che tutto, anche la più umile e apparentemente inutile mansione, può trasformarsi in opera d’arte. E, sempre restando a Buzzati, in Poema a fumetti e in I miracoli di Val Morel ecco che la cronaca si fa “graphic-novel” per sperimentare nell’asciuttezza e nella stilizzazione del disegno un linguaggio spogliato di ogni superfluo connotato narrativo per essere ridotto esclusivamente a immagini accompagnate da poche ed essenziali parole.

Dicevamo prima del fumetto inteso come anello di collegamento fra letteratura e cinema. Anche Cesare Zavattini aveva largamente sperimetato il linguaggio dei fumetti (memorabile il suo Saturno contro la Terra, con cui nella seconda metà degli anni ’30 la Mondadori intese contrapporsi allo strapotere di Flash Gordon sull’ ”Avventuroso”) e, lo ricordava sempre, proprio il fumetto gli aveva suggerito quella tecnica del “pedinamento” che gli consentiva di marcare stretto il personaggio in modo di non perdere anche il più piccolo gesto e di trascurare il minimo dettaglio che avrebbero potuto manifestarsi rivelatori. Un omaggio e per giunta un riconoscimento poetico di questa tecnica è venuto da Marco Ferreri con Dillinger è morto, dove Michel Piccoli, tornato a casa a tarda notte, si perde in tanti piccoli passatempi e si trastulla in giochini apparentemente inutili e senza senso, che invece nascondono uno stato d’animo che sta maturando una decisione estremamente drammatica. Esempio straodinario di “cronaca assoluta”.

Ma perché tutto questo si realizzi nella simbiosi della comunicazione occorre che, come maestro e scolaro non sono elementi distinti ma i termini di un unico processo educativo, anche scrittore e lettore, autore e spettatore, facciano parte della stessa dinamica. Uno è il complemento dell’altro, uno non può fare a meno dell’altro perché danno luogo a un processo identitario che si realizza in una sorta di reciproca creatività. Proust diceva che nel momento in cui un nuovo lettore prendeva fra le mani la Recherche era come se lui avesse ricominciato a scrirverla. E’ il miracolo della comunicazione, quel miracolo che nella Storia infinita di Michael Ende consente al piccolo Bastian di entrare nella favola che sta leggendo e di farsene protagonista.

Quel miracolo che nella Rosa purpurea del Cairo di Woody Allen fa uscire un attore dal film che si sta proiettando fino al punto di farlo materializzare. Storia che sessant’anni prima aveva già raccontanto Buster Keaton in La palla n. 13, rovesciando però i termini del trasferimento, perché in questo caso è il proiezionista che entra nel film che si sta proiettando. Ma la sostanza non cambia. In effetti, tutte le volte in cui l’io che si nega come ego può ritrovare se stesso come socius. E questa è l’anima della comunicazione.