Agata MOTTA- Un feroce dolore (“Se’ nùmmari” di S.Rizzo, Al Teatro Biondo, Palermo)



La sera della prima


 


UN FEROCE DOLORE

“Sè nummari”, egoismo e pietà trionfano al Biondo

 

“Se’ nùmmari” di S. Rizzo. Regia di V.Pirrotta –con F.Luna e V.Contadino. Teatro Biondo di Palermo

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I sei numeri sono già scanditi mentre il pubblico entra in sala, lenti e precisi, poi dietro cortine velate, metafora di uno stato di ottundimento della ragione e rimando alle bende di ospedali troppo frequentati, i due protagonisti annaspano e corrono blanditi dalla sirena del denaro: hanno vinto ma non sanno ancora di aver perso tutto. E’ uno spettacolo che fa male al cuore Se’ nùmmari di Salvatore Rizzo, almeno al cuore di chi possiede il sacro dono dell’empatia. Prodotto dal Teatro Stabile di Catania e in scena fino al 30 alla Sala Strehler del Biondo, il lavoro consiste in una zoomata di struggente bellezza che trafigge lo spettatore mettendogli innanzi il dolore di due genitori che, come bestie ferite a morte, si contorcono prima di stramazzare definitivamente al suolo, travolti dalla colpa.

Filippo Luna – in un’interpretazione di strepitosa maturità artistica – e Valeria Contadino – in una prova intensa e assai persuasiva – sono Orazio e Anna, un’umile coppia che come tante ha coltivato sogni e speranze sul proprio futuro: il calcio professionale per lui, una vita familiare radiosa di affetti per lei. Ma la vita, si sa, non concede facilmente le delizie accarezzate con la mente e la nascita di un figlio tetraplegico infligge il colpo di grazia, crocifiggendo la coppia ad un calvario inesprimibile di sofferenza e di abnegazione. La pioggia di milioni non può bastare ad imprimere una svolta o quanto meno a compensare da un ventennio di strazio.

Anzi proprio quell’inaspettata fortuna determinerà il momento del non ritorno. Vincenzo Pirrotta dirige il lavoro con incisioni prepotenti, utilizza luci di taglio come coltelli affilati che aprono carne martoriata e, seppure assente sulla scena, lo ritroviamo vivissimo e tangibile nella recitazione e nella gestualità degli attori, nella scansione ritmica propria del cuntista, nelle reiterazioni verbali che sono le reiterazioni delle ossessioni e di un dolore onnipresente. Durissima la prova per gli attori di superba bravura, possiamo respirarne la sofferenza, intravedere sui loro volti lacrime rapprese che appaiono sincere, avvertire nel dialetto viscerale le vibrazioni e gli accenti spesso intraducibili nella lingua italiana.

Senza attori di tale spessore e di tale intensità e senza questa regia – giustamente statica, perché la forza risiede tutta nei corpi e nelle parole, ma fortemente plastica, come nella bellissima immagine della capovolta Pietà michelangiolesca che vede cristo agonizzante accogliere sul grembo la madre addolorata – il vibrante testo di Rizzo avrebbe subìto un danno irreparabile. Nessun colpo di scena nel plot che non cerca di sorprendere ma di scavare uno spazio di possibile comprensione, tutto è già dato e mostrato, non servono impennate sull’imprevisto ma solo qualche oscillazione nel trattamento del tempo, si anticipa proprio perché non ci sia stupore.  Il sacrificio deve essere consumato come nelle tragedie greche: dalla hýbris alla caduta fino alla tentata catarsi.

Pochissimi i dialoghi tra i personaggi – e per lo più accusatori- ed è giusto così, perché non esistono più intesa e complicità in una coppia che è stata segnata dalla sciagura: due monadi distanti, due universi lontanissimi che possono solo produrre un mostruoso cortocircuito nel tentativo di ristabilire un contatto. Neanche il sesso è più praticabile, perché è stato maledizione e condanna, perché ha prodotto infelicità. Neanche Dio, antropomorfizzato in un ingenuo paganesimo che lo vede intento in atti di crudeltà gratuita, può trasformare il pesante fardello in dono concesso ai prediletti. Giacomo Cuticchio sottolinea i passaggi emotivi con musiche semplici che invadono i silenzi scenici e si smorzano in lievi note quando è la voce a prendere il sopravvento.

Sotto il profilo prettamente psicologico, Rizzo riesce a cogliere con sapiente finezza il diverso modo di vivere la stessa realtà dolente nella coppia: per lei il figlio è parte integrante di se stessa, protesi naturale, prolungamento corporeo del quale percepire e interpretare il gradimento verso il mondo esterno; per lui il figlio è altro da sè, un pezzo difettoso che non può essere sostituito ma magari superato attraverso il concepimento di un altro figlio, normale e pertanto risarcitorio. Esistono un maschile e un femminile anche nell’essere genitori, anche nell’attraversamento del dolore.

Alla donna basterebbe sentire la parola “mamma” pronunciata dalle labbra del figlio, invece di quei suoni inarticolati e animaleschi – forniti sulla scena da un registratore che dà voce agli arti e alla testa da bambolotto rotto appesi all’asta della flebo – per recedere dall’intento omicida, la stessa cosa, forse, non sarebbe sufficiente per il padre.Non si tratta di essere più o meno sensibili, Orazio e Anna sanguinano allo stesso modo, ma di sensibilità “diverse” sulle quali sospendere ogni giudizio. Uno sguardo gravido di pietà, un abbraccio di umana compassione, una preghiera accorata: tutto questo è Se’ nùmmari.

Lo spettacolo dal 3 all’8 maggio replicherà al Musco di Catania.

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