Teatro Il mestiere del critico
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Il film di Giuseppe Tornatore trasposto da Glauco Mauri, di scena al Parioli di Roma
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Sotto il profilo della progettualità drammaturgica, dunque del tradurre in coordinate teatrali “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore (kammerspiel e discussa scommessa filmica del 1994,prodotta da Franco Cristaldi), non v’è dubbio che l’operazione condotta a termine da Glauco Mauri (di scena al Parioli di Roma,dopo le repliche al Biondo di Palermo, di cui ha riferito Agata Motta) sia un esemplare ‘campione\modello’ di sintesi dialettica, stringente e stringata, sul filo di quella che Pasolini avrebbe definito la corrispondenza ‘loica’ tra linearità dialettica del confronto a due (sempre più sottile e implacabile,come nel “Pilade”) e visceralità delle sue implicazioni materiche, esistenziali, di ‘affronto’ realistico. E nella più rigorosa osservanza delle unità aristoteliche di luogo, di spazio e di tempo, spontaneamente ricalcate dalla sceneggiatura del film. Che ha inizio con la corsa, sotto la pioggia , all’estremità di un bosco, di un uomo (che scopriremo essere scrittore in disarmo) ‘riparatosi’ (casualità o atto inconscio?) all’interno di un remoto commissariato di polizia,dove un affabile ispettore si ostina a trattenerlo in stato di fermo. Supponendo,anzi sospettando che egli sia responsabile di un omicidio avvenuto-quella stessa notte-in una villa nei paraggi della caserma.
Va da sé che l’indagato, riaffiorando dalle nebbie di una totale amnesia, non può che negare, aspramente, corporalmente (sino alla colluttazione fisica con alcuni agenti del demandamento) ogni addebito e responsabilità,’implorando’ per quel vuoto di memoria che sembra momentaneamente ridurlo ad un cencio stazzonato di tremore e perdita di dignità. Non sarà così. Poichè, incalzato a dovere dall’anziano commissario, un barlume di ricordo e di ‘brivido colpevole’ (quel suo saper distinguere ‘tra crimine e reato’ che è una delle chiavi esplicative dell’enigma) inizierà ad agire come sonda esplorativa ed esplicativa ai fini di una ‘rivelazione’ (o ‘agnizione’) che non potrà che porre altri interrogativi, altri particolari secondo i quali ‘non tutto è concluso’.
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Come qualcuno ricorderà, il film di Tornatore mirava in alto e non taceva di una certa ambizione mescolante espressionismo ed ipotesi metafisiche (grazie al magnifico gioco di luci, alla claustralità del luogo, alla ferrea performance di Gerard Depardiueu, Roman Polanski e dell’indimenticato Cimarosa nel ruolo del tozzo carceriere), contro cui insorsero critici del calibro di Goffredo Fofi che giudicò il tutto “un giallo senza movente,un dramma senza patos, un thriller senza suspence”, auto aggrovigliatosi nella convulsione delle sue molte piste narrative (con cinefilie griffate Melville, Clouzot, William Neil) , sovrapposte o in concorrenza sino a perdere il ‘filo del discorso ed in suo stesso ubi consistam’. Nulla di condivisibile, almeno da parte nostra, poiché il film non dava e non prometteva (proprio per la sua ambizione) nulla di più e nulla di meno di quanto mantenuto.
Avendo dalla sua parte fonti d’ispirazione (accennate, mai esibite) del calibro di Woolrich, Durrenmatt, Du Maurier e soprattutto Franz Kafka, emulsionati in una vicenda paradigmatica sino alla essenzialità dell’apologo e di un assunto (‘l’uomo che incontrò se stesso’) cui i risvolti misteriosi, indagativi, di mera detection non sono che di corredo ad una ‘rivelazione’ analitica (il ‘tradimento’ della persona cui era grato, il ‘raggiro’ che lo rese autore affermato), che molto ricordano la riflessione del filosofo Adorno, secondo cui la ‘vera sede del potere’ (che per l’uomo è tutto ciò che ha rimosso, che non può o non vuole ammettere, ricdestare) sta nei tempi e negli anfratti dove meglio può appartarsi, passare inosservato. Cosa di meglio, quindi, che un simbolico, scalcinato, poco probabile ufficio di polizia ai confini della vita e della morte?
Nella sua trasposizione scenica, Glauco Mauri, che assume sulle anziane spalle quasi tutto il peso dello spettacolo( quasi un Atlante che regge il suo mondo di quinte e cartapesta) rende “Una pura formalità” qualcosa di opposto, di ben più ‘sostanziale’, contiguo al teatro di tradizione, di esplicito artigianato (a costo contenuto) e del più nobile concetto di ‘capocomicato’. Riscattando e rafforzando (senza fronzoli diversi dalla parola diretta e inchiodante) la stesura di Tornatore nella sua ‘smarrita’ essenza di apologo morale e perdizione dell’ego. Cui non servono giudizi divini o assoluzioni della ‘mondana’ giustizia.
Essendo ciascuno di noi, così come lo smemorato scrittore (che Roberto Sturno, ma perché?, recita ‘sopra le righe’), non ammesso ad alcuna spiegazione, assoluzione o espiazione a divinis; piuttosto, al pari dello stoico, perseverante Sisifo (giusto per restare fra archetipi mitologici) costretto a disfare e ricomporre il suo bandolo di matassa, la sua ammuffita tela di Penelope sino all’insorgere di altri smarrimenti dell’ego, dell’identità, della memoria bombardata dal soprassalto di nuovi e vecchi oltraggi. Dimentico di sé e di altre ‘pure formalità’ (pur sempre cruente, traumatiche), preposte a restituirlo all’assurdo ‘giogo’ dell’esistere per testimoniare.
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“Una pura formalità” di Glauco Mauri, versione teatrale dell’omonimo film di Giuseppe Tornatore. Oltre a dirigerlo, Mauri interpreta lo spettacolo insieme a Roberto Sturno, Giuseppe Nitti, Amedeo D’Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore. Le scene sono di Giuliano Spinelli, i costumi di Irene Monti e le musiche di Germano Mazzocchetti. Teatro Parioli di Roma