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Agata MOTTA- La notte di una Repubblica (“Le conquistatrici” al Teatro Libero, Palermo)



Teatro     Il mestiere del critico


LA NOTTE DI UNA REPUBBLICA

Una scena dello spettacolo

Beno Mazzone, al Libero di Palermo, con “Le conquistatrici” di G. Bagardie

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E’ un allestimento francescano quello voluto da Beno Mazzone per la prima nazionale de Le conquistatrici di Gérard Bagardie, il teatro con i suoi elementi costituenti: testo e attori. Le note di Morire per delle idee di Fabrizio De Andrè, giunte a chiusura come unico, e pertanto maggiormente significativo, inserimento musicale, suggellano un testo che davvero in quella canzone sembra trovare un proprio manifesto ideale. Il regista rinuncia a tutto ciò che può distogliere l’attenzione dal testo e pone, al centro del palcoscenico, solo tre grandi cornici dorate, collocate prospetticamente, forse ipotetico richiamo alle diverse ‘angolazioni’  esistenziali delle protagoniste e al moltiplicarsi dei loro punti di vista.

Sara Alzetta e Roberta Colacino sono il Presidente della Repubblica di un qualsiasi paese democratico di un qualsiasi tempo – futuro per l’autore, contemporaneo per il regista – e il Presidente di un movimento giovanile che reclama senza mezzi termini il passaggio del testimone per salvare il paese dalla paralisi in cui si trova, primo sintomo di una futura e ormai imminente guerra civile. Le due leader che si fronteggiano, l’anziana e la giovane, hanno sembianze femminili, ma le loro parole, le loro argomentazioni non hanno sesso, sono quelle della filosofia politica che in realtà è la vera protagonista della pièce.

Da un approccio qualunquista potrebbe emergere tutto il marciume della politica, sia quella esercitata cinicamente come una professione sia quella imbevuta di ideali inespugnabili eppur vacillanti, ma bisogna oltrepassare la patina superficiale – ed è necessario farlo, pena l’assoluta incomprensione del lavoro – e osservare come nel testo si stratifichino delle riflessioni terribilmente vere e dolorose sulla responsabilità individuale che ricade sulla collettività, sui meccanismi inconsci del potere, sull’eterno conflitto generazionale tra istanze di rinnovamento ed esigenze conservatrici, sulla necessità dei compromessi, sulla solidità di un governo legittimato da libere elezioni e mantenuto facendo leva sulla volontà del popolo sovrano, sulla debolezza di certe ideologie oltranziste che vorrebbero fare piazza pulita di avversari imbattibili sul piano della dialettica e della strategia.

Il Presidente chiede alla giovane leader di trascorrere una notte con lei per trovare una soluzione – la meno traumatica – per il superamento della crisi. Le ore scorrono, scandite dagli stacchi di buio, lentissime all’inizio e impantanate in prese di posizione assolute, attraverso l’uso di piccoli ricatti e di aggressioni verbali e fisiche, poi la rapida svolta in quella convincente pistola che persuade più della prospettiva di un dorato esilio per la giovane intransigente (la morte fa paura anche all’idealista più puro!), poi la spannung emotiva in quel reciproco scannarsi a colpi di “morti”, la figlia adolescente suicida che la Presidente ha consegnato alle pagine di un giovanile libello di poesie, e il fratello della giovane, scheggia impazzita del sistema, che lei stessa ordinerà di eliminare, atroce prezzo da pagare per la salvezza del popolo.

E’ un match verbale e psicologico, alla fine del quale, complici il vino – che appiana, livella, ammorbidisce – e il caso – che determina spesso il risultato delle partite più intricate – trionferà l’esperienza di governo, il lucido cinismo di chi non ha più nulla da perdere, il sistema ben oleato di un potere che si autoperpetua, nonostante il cancro bussi alle porte per saldare il conto con l’Aldilà. Ma quale trionfo dietro le vittime innocenti? Quale vittoria dietro la repressione? Quale orgoglio nell’uso delle armi sulla folla? Bagardie non offre una soluzione alla tragedia che si agita dietro qualsiasi potere, non si schiera con l’una o con l’altra donna, perché in entrambe lo spettatore coglie caratteristiche negative che alterano la possibilità di una vera identificazione, piuttosto riflette e stimola alla riflessione.

Non si può non cogliere la profondità del suo sguardo e il timore per un futuro che, come giustamente rileva il regista, è già presente. Alle attrici spetta il compito arduo di reggere un testo “engagè” dalla tessitura complessa, nella traduzione senza semplificazioni dello stesso Mazzone, di assecondare il climax drammaturgico con lievi mutamenti di umori e variazione timbriche: la Alzetta è altera, sarcastica, tutta tesa alla demolizione psicologica della temuta avversaria, poi si incupisce, si sgretola, si impenna e si ricompone; la Colacino è irruente, rabbiosa, aggressiva, poi si indebolisce, prende coscienza di sé e della propria volontà, che non coincide esattamente con quella degli altri, si piega all’inevitabile, si immola involontariamente.

“Dov’è la Verità? A quest’ora dorme”. Ma per un attimo le anime si incontrano in un lapsus verbale – per il quale l’una diviene “Cinzia”, la figlia suicida, e l’altra “mamma”, la donna mai conosciuta – per un attimo due donne sole che hanno amato e che non sanno più farlo si comprendono. Niente happy ending per questo apologo politico, anche Mazzone sa che non può esserci, che da sempre da una parte stanno le idee e dall’altra la realtà