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Danilo AMIONE- Un artista e il senso compiuto della classicità (Polanski e”Venere in pelliccia”)




Saggistica breve

UN  ARTISTA E IL SENSO COMPIUTO DELLA CLASSICITA’

Roman Polanski compie ottant’anni: cinque scene cult per celebrarne la carriera

Ripensando a  “Venere in pelliccia” di Roman Polanski. Interpretato da  Emanuelle Seigner e Mathieu Almaric

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Si potrebbero dire o scrivere tante cose, positive e negative insieme, dell’ultimo film di Polanski tratto da una pièce dell’americano Ives. L’ennesima ossessione clustrofobica del regista polacco diventa però, oggi, l’occasione per dire qualcosa di più e forse in modo definitivo sul suo cinema e non solo. Girare un film con due soli attori, tutto in interni (o meglio un solo interno:il palcoscenico di un teatro), all’80% in piano sequenza, significa non soltanto raccontare qualcosa, mostrare immagini ed empatizzare, o cercare di farlo, con un pubblico più o meno colto.

Significa innanzitutto assistere alla prova di un artista giunto al limite possibile del narrare, a cui anche l’attenersi ad un trama seppure ben strutturata (le prove di uno spettacolo, il loro degenerare in una lotta dei sessi infinita e spietata all’interno di un rapporto realtà finzione destinato ad intrecciarsi fino al groviglio finale) riesce oramai impossibile perché è la sua forma che prevale, la sua messa in scena, quella di Polanski, che diventa essa stessa trama, racconto, intreccio narrativo che la macchina da presa attraverso i suoi movimenti e colori imprime dapprima sui volti dei protagonisti e poi nell’occhio dello spettatore. Al di là del raccontare, il viso e il corpo della prodigiosa  Seigner occupa lo schermo come una cartina geografica l’atlante di uno scolaro: prima del contenuto l’occhio è accecato dalla composizione cromatica, dalla alterazione delle linee, dalla visione impercettibile tanto più piacevole quanto più è sconosciuta alla sua logica che di lì a poco prenderà forma.

La ragione dell’immagine sta tutta nella prima percezione di essa, così come spiegava Gilles Deleuze ai suoi studenti a Vincennes a proposito dei primissimi piani di Von Sternberg sulla Dietrich.Qui Polanski va anche,se possibile,al di là,e giunto all’assoluto naturale del cinema lascia che il suo occhio colga solo le alterazioni progressive del viso della sua protagonista, impegnata in un soliloquio orgasmatico con la sua cinepresa. Polanski è oramai approdato alle pennellate deliranti  di Van Gogh, alle prospettive ragionate di Velasquez, al cromatismo esasperato e vitalistico di Kandinskij, all’ansia creativa e disperata di Caravaggio.

Ogni inquadratura racconta altro da ciò che si vede, riemergono in ogni suo film la sua tragica infanzia nel ghetto di Varsavia braccato dai nazisti, la moglie incinta  trucidata da Manson e compagni nella sua villa di Bel Air, il carcere per l’infinita accusa di stupro decretata dagli USA a  suo carico. La vita come arte, l’arte come la vita, condizioni indispensabili per giungere alla classicità, quella assoluta.