La memoria*
ANTONIONI: TESTIMONE STOICO E LACONICO
A cento anni (e sei mesi) dalla nascita (e un anno di quasi oblio collettivo)- Uomo e autore introverso, discreto, defilato, ma che rischia il domemticatoio
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Sarà stato un caso, sarà stato qualcos’altro: non fa differenza. Ricordo solo che Michelangelo Antonioni (che nacque a Ferrara a fine del 1922) prese congedo dal ‘fascino e dai minuetti’ di questo mondo ’difficile da sopportare a lungo’ negli stessi giorni in cui (nella primavera del 2006) anche Ingmar Bergman e Michel Serrault (altre due presenze enigmatiche, saturnine,meravigliosamente ambigue nella storia del cinema e teatro) intrapresero il loro ultimo volo “al di là delle nuvole”: espressione di cui Antonioni era innamorato sin dalla giovinezza, tanto da farne il titolo del suo penultimo film (del 1995), realizzato con il (sostanziale) contributo di Wim Wenders.
Viaggio che non immaginammo né mistico né animistico, ma ancora denso di curiosità ‘materica’, docile e lucidamente avvezzo alle inutilità, ai malumori, alle melasse di ogni umana ‘incomprensione’ e pigrizia alla conoscenza: radici mai esaurite di quella che in Antonioni divenne la poetica vulgata della ‘incomunicabilità’ borghese. La quale, è bene sottolinearlo, non nasce con l’assuefazione anni sessanta ad un ‘benessere’ perturbante e imprevisto dei ceti ascendenti . Bensì dall’istante in cui la ‘parola umana’ (come intuito e tramandato dal celebre principe di Talleyrand) pretese di sostituirsi alla preziosità (alla unicità) del pensiero nelle sue forme ancestrali di telepatia, empatia, onde amorevoli di umana con-passione. Dall’istante (non catturabile, non isolabile dagli antropologi) in cui la primordiale, belligerante coesistenza fra individui famelici e poco sensibili alla (futura) benevolenza di Rousseau, pretese di rimpicciolirsi in un ingorgo di afasie e babeliche favelle, di ambizioni smodate, di magagne amorose che presto divennero dolorose, truffaldine, talvolta criminogene.
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Diversamente da quella di Bergman (cui lo accomunava il ‘culto del silenzio’ e dello sguardo metodico, mai frenetico, tradotto in immagini che ‘infastidivano’ volentieri per la loro staticità), la cultura di Antonioni non si nutriva di dubbi metafisici, non si logorava dinanzi al mistero, non esigeva una collocazione dell’umana specie al centro dell’universo. E dunque, non impetrava alcuna ‘rivelazione’ (dal Dio ignoto di Bergman) che desse e dia senso al donde , al dove (quindi al perché) della nostra, non richiesta, tribolatissima ‘traversata’ terrena.
Del cui enigma resterebbe comodo adagiarsi sui discernimenti di scuola luterana o giansenista che accolgono ‘grazia e prosperità’ per pochi e ‘indicibili tormenti’ per i non eletti. Antonioni , invece, non giocò mai a scacchi con gli spettri (tangibilissimi) della morte, della disperazione, dell’umano errare (anche in senso motorio, leopardiano), senza cognizione di causa ed effetto. Come dire? Una volta che sei stato ‘caduto in terra’ tocca a te soffrire o gioire, vivere o languire, prendere o lasciare. Del resto l’intera opera di Antonioni sembra porsi di fronte ai fini, ed alla fine , di ciascuna esistenza in modo direi stoico, disinteressato, quasi apatico: considerando il tutto come evento plausibile, indifferibile, talvolta liberatorio. Sino a simularne l’accadimento come in “Professione reporter” quale unica via di scampo alla vertigine, alle evanescenze (apparire\scomparire come per sadico capriccio) dell’umano tragitto.
Mai coltivate, da Antonioni, le nenie consolatorie dell’amore indelebile, perpetuo, attendibile (oltre il ragionevole, benemerito dubbio) che potesse lenire l’assurdo-irresolubile che ha il suo paradigma in “Il grido” (1957) non a caso muta, minima odissea di un proletario, con figlioletta al seguito, smarriti ‘dentro’ nella bassa padana (dopo un litigio di coppia che cova fuoco sotto molta cenere), ove passione silenzio, desiderio detonano nella impossibilità di ricondurre in un ambito di ‘tragedia collettiva’ (neorealista?) l’incipiente perdita d’ogni dignità (e identità) soggettiva. Sembrerebbe di riascoltare Quasimodo…’ciascuno è solo nel cuor della terra….’. Lo si vuol chiamare scetticismo, disincanto, morte della speranza? Le etichette fanno male se non fosse che, spesso, aiutano a (con)vivere, ad credere di orientarsi, sia pure nel ristretto ambito della ‘parola’- così come è detta: dal fonema alla dissertazione oziosa. Ma del cui ingombro Antonioni aveva fatto a meno, a causa della malattia (forse e in parte psicosomatica) che lo aveva colpito negli ultimi anni di vita dando luogo a due film enigmatici, sibillini, ma di grande fascino interiore quali “Eros” (un episodio) e il già citato “Al di là delle nuvole”. E il cui primo episodio giovanile, ambientato alla perfezione nell’invernale caligine della spazialità ferrarese, fu “Cronaca d’un amore” (1950),quasi una scommessa, una “ossessione” all’inverso (rispetto a quella viscontiana), in cui la ‘liberazione’ della donna dal marito rivela deludente , impraticabile l’idealizzato appagamento d’un a relazione non più clandestina. Fu, per quegli anni, come un colpo di maglio rispetto ai crismi e ai riti del neorealismo ortodosso, una scossa di realismo della ‘vita interiore’ assestata agli imperativi (purtroppo ideologici) di un realismo ‘oggettivo e solidale’ in questa Italia irreparabile di appartenenze tribali e ancillari.
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Formatosi alla scuola del documentario, della pittura, della scrittura dello ‘sguardo’ (Robbe Grillet era fra i suoi scrittori preferiti; “Quel bowling sul Tevere” la sua unica raccolta di racconti che sono fenomenologie non giudicate del comportamento umano, nell’era della alienazione post industriale), Michelangelo Antonioni aveva tradotto in immagini, e con debito anticipo, ciò che in poesia Roberto Roversi e soprattutto Francesco De Gregori (si , il cantautore, ma è il limite di un’ etichetta) avevano ‘pregato’ per non insistere, di non assillare, per quel’nulla da capire’, che non è la condanna dell’umana permanenza, ma il consiglio a rintracciarne ‘a posteriori’ i nessi impercettibili, sorprendenti. Anche quando la scoperta rasenta l’annichilimento da opulenza (“Deserto rosso”) o la scomparsa di una donna ‘marginale’ , per cui esternano amicizia e amore (“L’avventura”) sarà l’inizio di ben altre assenze, inanità, indolenze. Surrogate dall’affanno che si spezza in gola e da una “Eclissi” che temporeggia a ridestarsi – alla luce di un sole artificiale. A buon diritto.
Va da sé che il cinema,la ritrattistica, le circostanze immote ed inamovibili del cinema di Antonioni non si ‘arrendono’ alla (sola) interiorità del malessere (che è ben più ldevastante se nasce del ‘bisogno’ materiale o della noia per ‘abbondanza’- Moravia e Brusati insegnano), traducendosi comunque in un linguaggio eleusino, in paesaggi\passaggi da luce-ombra-tenebra che rappresentano i ‘tormentoni’, le seduzioni estetiche\estatiche dei tempi morti in attesa di altri enigmi esistenziali, di gesti furtivi e inspiegabili, di piani sequenza (il più celebre in “Professione reporter”) che nulla ‘potranno’ rivelare in senso deduttivo ed aspettativa logica.
Mistero fu e mistero rimane il destino, l’apparizione astrale di “Identificazione di una donna”, che è impalpabile perché reticente, sottrattivo, vagamente allucinato e severo -come occhio di Sfinge. Vacua e illusoria resterà la ricerca della ‘verità’ (beffardamente soggettiva e defluente, prima e dopo Pirandello) nella finta detection di “Blow up”, laddove si pretende -e Antonioni, buon sornione, si divertiva a schernirci-che l’obbiettivo fotografico (oggi telematico) possa carpire pulviscoli di accadimenti e di (in)giustizia terrestre, invisibili a occhio nudo. E che tale rimane
Deludente sarà anche il velleitarismo (giovanlista) di rivelazione e rivoluzione con cui,in “Zabrinskie Point”, il regista si sforzerà di dar credito alla stagione dei ‘fiori’ dei menestrelli della west-coast. Dimoranti in quell’abisso d’America dalle sterminate frontiere e dagli incantevoli canyon, cui solo l’esplosione conclusiva d’un caseggiato di lusso (accadrà, decenni dopo, con le Torri Gemelle) darà uno scossone di emozione ed horror vacui.
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Antonioni (che non era un sedizioso ma nemmeno un impoltronito ‘flaneur’) credo sia stato fra i pochi autori del Novecento che abbia avuto la buona creanza di non rimirarsi l’ombelico (cosa ben diversa dai cordoni ombelicali che legano o slegano alla vita), di ‘chiedere’ a cose e persone di trasformarsi in altro (a piacimento dell’altro…), ai sentimenti di pianificarsi e rendersi ‘rintracciabili’, alla funzione dell’artista quella di contribuire al ’miglioramento ’ dell’universo che ci fa da prigione e indifferente osservatore. Dando così ‘corpus’ al cinema meno didascalico, progettuale o edificante in cui talvolta si ha la sfortuna di imbattersi. Un altro mondo è possibile? Antonioni ne era incredulo, indulgente, forse possibilista. Ma lo irritavano i trastulli, le scommesse sui massimi sistemi, soporiferi e paludati, come l’entroterra di paludi e malaria della sua infanzia. Era inevitabile che dinanzi a un simile ‘viaggiatore’ (senza valigia, senza custodia), la scarna drammaturgia delle sue opere, la sua innata laconicità dovessero diventare sempre più rarefatte, insondabili, dilatate fra tempo , spazio e scabra attendibilità del ricordo. Elementi un po’ eleusini di si divertivano ad accusarlo i suoi denigratori, parodisti, intellettuali del trasversale ‘milieu’ romanesco. Pullulante di pensieri deboli e pensieri snob, verso cui Michelangelo (che nome impegnativo!) conosceva l’arte del defilarsi con garbo e signorilità. Preferendo, come Bergman, abitare luoghi lontani, fuori mano, su rotte geografiche fuori dall’atlante. Di cui era estraneo, ma non lo dava a pesare.
*Rielaborazione di un breve saggio scritto da Angelo Pizzuto per la rivista “Cinemasessanta” nel 2007