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Enzo Natta- Identità invertite (“Il figlio dell’altra”, “I figli della mezzanotte”)



Cinema   Il mestiere del critico


IDENTITA’ INVERTITE

Locandina I figli della mezzanotte

 

“Il figlio dell’altra” e “Figli della mezzanotte”: medesimo dramma di due culle sbagliate

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Sliding Doors di Peter Howitt, Smoking/No Smoking di Alain Resnais, film dove il libero arbitrio si sdoppia e procede in un parallelismo alternativo. Ma, ancora più vicini per similitudine, si potrebbero citare Il 7 e l’8 con Ficarra e Picone e la sequenza di C’era una volta in America di Sergio Leone in cui Robert De Niro, James Woods e soci si divertono a scambiare i neonati nelle culle con la beffarda intenzione di sfidare la sorte. Perché quando il Fato rimescola e ridistribuisce le carte non è detto che pareggi i conti e che la seconda mano sia simile alla prima. Potrebbe essere esattamente l’opposto passando dalla buona alla cattiva sorte. O viceversa, visto che sulla roulette del destino una volta può uscire il nero e una volta il rosso.

Piuttosto singolare che il motivo conduttore dello scambio di culle arrivi sui nostri schermi in contemporanea con due film di taglio e impostazione diversi, eppure accomunati dal tòpos della sostituzione di persona e dell’alterazione forzata di un’identità: Il figlio dell’altra di Lorraine Lévy e I figli della mezzanotte di Deepa Metha.

Francese, origini ebraiche, regista di teatro e con alle spalle una solida esperienza televisiva, Lorraine Lévy affronta il tema partendo dalla pura casualità. Ad Haifa, nel 1999, durante la guerra del Golfo, l’eccitazione provocata da un bombardamento fa sì che si verifichi un erroneo scambio di culle, tanto banale quanto comprensibile data l’eccezionalità del momento. E così, un bambino palestinese i cui genitori abitano nel territorio occupato della Cisgiordania finisce per essere allevato da una famiglia israeliana che lo crede suo, mentre l’esatto contrario avviene per l’altro neonato. Passano vent’anni e un giorno, durante la visita militare, il ragazzo cresciuto nella famiglia israeliana scopre di    appartenere a un diverso gruppo sanguigno. La madre è un medico, il padre un ufficiale dell’aeronautica, e non tardano a scoprire la verità. Acuita da divisioni d’ogni tipo: di razza, di religione, di cultura. Per non parlare di quelle politiche. Per i due giovani e per le rispettive famiglie comincia un tormentato confronto di identità, che coinvolgono gli interessati in modo diverso. Più duri i padri, più sensibili le madri, mentre i due ragazzi si interrogano chiedendosi vicendevolmente: “Sarei diventato come te?”.

Il muro divisorio dell’anima è la principale linea di confine lungo la quale si ripete la storia dei due figli di Abramo. L’identità non è soltanto un problema di nascita, infatti, è anche di appartenenza, ma nel contempo inquietanti interrogativi mettono in dubbio l’autenticità del proprio essere. Al punto che il ragazzo cresciuto nella famiglia israeliana confessa: “Non mi sento più ebreo, e non mi sento arabo”.

Il finale aperto, e non avrebbe potuto essere diversamente, è piuttosto schematico e consolatorio, moraleggiante: all’inizio siamo tutti fratelli, è dopo che ci si divide. Di conseguenza, per capire le ragioni dell’altro bisogna mettersi nei suoi panni. Ma la ragione vince e, con lei, le buone intenzioni. “Hai la mia vita, usala bene” è la raccomandazione finale di uno dei due all’altro, costretto dagli eventi a recitare un ruolo non suo.

I figli della mezzanotte dell’indiana Deepa Metha (la regista di Camilla, Fire, Water) è tratto dall’omonimo romanzo di Salman Rushdie, anche sceneggiatore.

Se nel Figlio dell’altra lo scambio delle culle era del tutto accidentale, qui è invece programmato. Allo scoccare della mezzanotte del 15 agosto 1947, mentre l’India dichiara l’indipendenza, un’infermiera sostituisce deliberatamente due neonati in una clinica di Bombay. Soggiogata da un uomo che crede di abolire in questo modo i privilegi  di casta scompaginando l’ordine delle classi sociali, l’infermiera fa sì che il figlio illegittimo di una donna povera e quello di una coppia benestante siano destinati a vivere reciprocamente l’esistenza dell’altro. Ma, misteriosamente, le vie del Fato tornano a incrociarsi e le vite dei due ragazzi finiranno per intrecciarsi fino a stringersi in un’unica storia…

I figli della mezzanotte è una storia dell’India raccontata attraverso l’esperienza di due ragazzi immersi in situazioni diverse, che conoscono agiatezza e povertà, gioia e dolore, affetto e solitudine fusi in un unico grumo di sangue e di spirito, di realtà e di sogno. Al loro fianco tanti personaggi, le cui vite seguono il percorso comune delle vicende indiane  nella seconda metà del secolo scorso rappresentato attraverso una famiglia divisa – proprio come l’India, dalla quale si staccheranno dapprima il Pakistan musulmano e poi, da questo, il Bangladesh. Il tutto in un film rapsodico, fatto di atmosfere magiche, dark, corrusco e magniloquente, attraversato da deliri surreali e visionari, anticipati in una delle scene iniziali da una donna che si immette nei sogni della figlia, premessa a un potere onirico che si manifesterà in seguito nel protagonista.

Un film che, con Il figlio dell’altra, condivide il comune denominatore  dell’impossibilità di prevedere o dominare le dinamiche dell’esistenza. Se non nella generale condanna all’incompiutezza e a qualcosa che manca. Che è stato rubato alla vita e sottratto alla speranza.