Agata Motta -Ulisse-Collovà

Teatro   Il mestiere del critico

 

SE LEOPOLD BLOOM  INCONTRA  AMLETO

Claudio Collova, al  Biondo di Palermo, completa la sua indagine sull’”Ulisse” di Joyce

Di Agata Motta

 

 

Il percorso sull’Ulisse di Joyce effettuato da Claudio Collovà attraverso la trilogia prodotta dallo stabile palermitano si conclude con “Telemachia- Ulyssage #3”, un recupero di tutta l’ampia prima parte del romanzo – gli episodi relativi a Telemaco, Nestore e Proteo) – con l’inserimento di alcuni episodi centrali – tratti da Calipso, Lotofagi, Scilla e Cariddi e Ciclopi – e la chiusura nel capitolo Itaca, che segna il ritorno a casa dell’eroe Ulisse/Bloom con il figlio, preso in prestito per qualche ora, Telemaco/Dedalus. In questa struttura abbastanza ortodossa rispetto al romanzo, Collovà inserisce la figura di Amleto, in un gioco di continui rimandi, peraltro presenti anche in Joyce sebbene con diverse valenze narrative. Entrambi, il tormentato principe di Elsinore e il giovane artista corroso dall’impotenza creativa, condividono il vizio di un pensiero inquieto e dissacrante e di un rapporto ambiguo con la figura materna. Al centro della scena, una donna, distesa come una salma appena acconciata, polarizza l’attenzione del pubblico che può sbirciarne la stupefacente immobilità anche attraverso uno specchio appeso in alto che ne riflette il volto. Al centro dei pensieri e delle parole, la geografia labirintica di Dublino si offre seducente come città della paralisi e delle ossessioni. Al centro di questa liturgia eroicomica, due personalità opposte – Dedalus e Bloom – percorrono strade diverse, per poi incontrarsi e attrarsi reciprocamente, come due metà a lungo separate che possono ricomporsi, come un padre con il figlio perduto, come un figlio con il padre ritrovato. Nella scena d’apertura, un valido Domenico Bravo è l’interprete al trucco prima dell’ingresso in scena, ma nel frattempo è già Amleto, fragile e combattuto, ed è anche Dedalus, angosciato dal senso di colpa vicino al cadavere della madre, che a sua volta è anche Ophelia, ma è anche Molly Bloom, per scoprire, infine, che si tratta di un inquietante fantoccio dalle perfette sembianze umane.

Allo stesso modo Sergio Basile, magnifico interprete di una pluralità tutta interiore, è Leopold Bloom, marito premuroso che prepara la colazione alla moglie addormentata, compiaciuto protagonista dei propri bassi bisogni – dalla defecazione alla masturbazione – curioso interprete degli altrui pensieri e desideri che scruta con un cannocchiale in un avido bisogno di appagamento voyeuristico, padre dolente e desideroso di ritrovare il Figlio perduto, uomo tradito e tentato a sua volta dall’infedeltà, ebreo consapevole dell’appartenenza alla stessa “razza” del Cristo dei cristiani. Anche l’efficace Luigi Mezzanotte è uno e trino nell’appropriazione e nella resa di alcune voci importanti – l’indigesto compagno di stanza Mulligan, l’arido e calcolatore preside Mr Deasy (nella rappresentazione cieco e paralitico curvo sui danari che maneggia con la stessa rapacità attribuita ai mal sopportati ebrei: ulteriore coesistenza di un doppio oppositivo), il Cittadino, che il regista ha voluto racchiudere in un solo conturbante personaggio che condensa lo spirito antisemita culminante nell’accusa di deicidio e ne anticipa l’auspicato sterminio. Si comprende quindi che è proprio attraverso il moltiplicarsi dei piani della narrazione e dell’interpretazione che lo spettacolo va inquadrato, quasi un corrispettivo sul piano semantico e drammaturgico della moltiplicazione dei linguaggi usati da Joyce e dello smarrimento cognitivo generato dal “flusso di coscienza”. Inutile sottolineare che l’operazione è come le precedenti ambiziosa (Collovà si concede anche un’autocitazione da “I nostri tempi” nella scena del lavacro del corpo che qui appartiene a Dedalus e lì a Perriera) e colta insieme e che non può essere apprezzata appieno da un pubblico “impreparato”, per quanto l’inesauribile vena creativa del regista riesca sempre ad offrire quadri di grande impatto visivo, recitativo e musicale, grazie alla collaborazione tecnicamente perfetta di Giuseppe Rizzo per le musiche, di Pietro Sperduti per le luci, di Enzo Venezia per le scene e di un ottimo cast già ampiamente collaudato e rodato dal regista in precedenti lavori. La sala Strehler del Biondo crea giuste proporzioni allo spazio scenico, chiuso sul fondale da una parete, a grate che scivolano su binari, nella quale si incastonano volumi aperti, tastati con ansia conoscitiva dal giovane Dedalus che ne vorrebbe quasi fagocitare il contenuto.

Ma i confini tra il dentro e il fuori – dello spazio esteriore e di quello interiore – si assottigliano fino a tracimare nelle acque della spiaggia di Sandycove, dentro cui il giovane, sempre più estraneo alla vita, alla società e alla Storia, si immerge in un bisogno di purificazione e forse di riscatto. Il ricorso insistito alle voci fuori scena trasforma i personaggi in sagome vaganti alla ricerca della propria identità e dei propri caotici pensieri o in immobili  mucchi di carne ripiegati nella narcisistica e dolorosa auscultazione dei propri moti interiori. E’ un viaggio estenuante nel caos epico di un testo mai completamente capito e decifrato, come presagito dall’autore con un certo compiacimento, ma è un viaggio che può arricchire e confondere, un viaggio che, comunque, vale la pena di affrontare se è vero che “fatti non fummo a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, giusto per restare alle parole di un altro arcinoto Ulisse e di un altro sommo poeta. Repliche fino al 7 aprile.