La solitudine di Molière nell’ultima opera del grande commediografo francese

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La solitudine di Molière nell’ultima opera del grande commediografo francese

@ Anna Di Mauro, 4 marzo 2023

Non c’è peggior malato di chi, pur sano, decide di esserlo. Prigioniero di una spirale senza fine, Argante, l’ultimo dei personaggi intramontabili di Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière, ha il volto accattivante e poliedrico di Emilio Solfrizzi, attore dotato di una mimica facciale che ben si presta a questa graffiante satira di costume dove ancora una volta e per l’ultima volta l’autore francese  affila la sottile arma dell’ ironia frugando con  “Il malato immaginario” nelle innumerevoli sfaccettature della vita assurda di un ipocondriaco, affidato alle cure mediche del dottor Purgone, re degli enteroclismi e dei farmaci purificatori dell’intestino, perpetrate col feroce accanimento dello svuotamento parossistico di un corpo malato nella fantasia, quella sì malata; operazione su cui ruota tutta l’azione dei due collusi, vittima e carnefice di destini intrecciati.

Il perseguimento della prosaica purificazione di apparente sapore plautino fa pensare piuttosto a una catarsi della società malata francese dell’Ancien Régime, che in questa edizione diviene una sorta di rito consumato dietro una tenda, da cui emerge episodicamente il “malato”, che insegue la salute a colpi di inesorabili clisteri, purghe e quant’altro la mente, questa sì malata, del dottore che lo ha in cura riesce sadicamente a mettere in atto. Fra pietose considerazioni e risatine assistiamo all’autodistruzione di un uomo nevrotico che si consuma letteralmente in atti defecatori che pur comici denunciano il suo disagio esistenziale. La sensazione che domina in questa celebre pièce è l’olezzo dei miasmi evacuatori, indizi tangibili di un fallimento che riflette autobiograficamente le vicende dell’autore, lui stesso interprete, che paradossalmente morì poche ore dopo la fine della rappresentazione. Correva l’anno 1673. Difficile immaginare una fine più teatrale…Un vero colpo di scena nella storia del grande attore e commediografo, rimasto solo, malato, senza alcuna fiducia nel potere della medicina (che pare aborrisse), proprio lui, l’infaticabile e geniale creatore di una miriade di personaggi immortali, dall’Avaro al Misantropo, solo per citarne alcuni. Perduti i favori della leggendaria Corte del Re Sole alla cui luce il suo ingegno aveva brillato, attrezzato della consueta, graffiante capacità di ridicolizzare i suoi personaggi, ambigue creature parossisticamente inquadrate nei loro deliri maniacali, Molière ha ancora una volta tratteggiato mirabilmente la figura di questo tradizionalmente vecchio Argante,  che nella lettura di Guglielmo Ferro, regista  di questa ultima pièce, diventa un florido cinquantenne tutt’altro che decrepito; il che ancora di più sottolinea malinconicamente la sua rinuncia alla vita, perno di questo testamento letterario a cui l’ingegno dello scrittore aveva dedicato le ultime forze. La sottile indagine psicologica del “malato” si veste di un umorismo impietoso dagli echi politici, sociali, umani, riverberando luci ed ombre dal tessuto artistico dell’opera, dando spessore e profondità a una satira che risuona più che mai attuale, grazie agli elementi scenici desunti dalla realtà, inquadrati nell’unità di luogo tempo e azione, tipici dello stile di Molière; una realtà in cui ci si può riconoscere, reduci da una lunga pandemia che ha scatenato ipocondrie da una  parte e false informazioni pseudoscientifiche dall’altra.

Al centro della vicenda narrata è Argante, ricco malato immaginario che ha deciso di dare in sposa la figlia al nipote del suo medico, a sua volta medico, per avvalersi costantemente della loro opera, incurante dell’amore di Angelica per Cleante. Egli, accecato da una visione irreale del suo mondo affettivo, vuole anche fare testamento designando erede universale la moglie, che in realtà mira solo al suo patrimonio. In balia della consorte e degli incompetenti cerusici, sarà salvato dall’affetto del fratello e dalla sagacia della serva Tonina che gli suggeriscono di mettere alla prova i sentimenti dei suoi familiari inscenando una finta morte. L’espediente restituisce ai veri affetti il falso malato, che concederà le nozze desiderate all’affezionata figlia, ripudierà la moglie e la sua “malattia”, ma si ritroverà solo, in cima alla turris eburnea, totem totalitario della sua nuova vita.

Concepita originariamente come Comédie-ballet, con intermezzi musicali e cantati, sfrondata da questi incisi, la garbata  modernità della messinscena  di Ferro si avvale di un testo intramontabile, di una scenografica torre lignea centrale, compatta e simbolica, zeppa di boccette, boccettine, medicine, intrugli, su cui Argante, sfrondato dalla solita maschera da un Solfrizzi misurato ed efficace,  re di un regno malato, si arrampica e da cui apparentemente domina il suo piccolo mondo, nel quale è in realtà dominato soprattutto dall’ipocondria, ma anche dall’energia indomita della serva Tonina dell’arguta Lisa Galantini, dalla passione acerba della ribelle figlia  Angelica, dalla falsità della moglie Bellonia, dai cerusici millantatori, in un carosello vivace e coeso, dove fioriscono i tradizionali conflitti sociali e generazionali e dove incessantemente si contrappongono servi e padroni, padri e figli, medicina  e malattia, vita e morte. Si ride alle battute salaci del “malato”, agli ammiccamenti e alle assurdità dei comportamenti di alcuni personaggi tratteggiati grottescamente come i due medici e il notaio, simboli di una falsa scienza, ma è un riso intriso di amarezza, laddove la speranza è un fantasma fluttuante e il lieto fine delle nozze della figlia e dell’allontanamento dei medici millantatori e dalla malattia-paravento consegna Argante-Molière alla sua solitudine e al suo malinconico congedo dalla vita.

IL MALATO IMMAGINARIO

di Molière

regia di Guglielmo Ferro

con Emilio Solfrizzi, Lisa Galantini, Antonella Piccolo, Sergio Basile, Cristiano Dessì, Pietro Casella, Mariachiara Di Mitri, Cecilia D’Amico

e con Rosario Coppolino

costumi Santuzza Calì

scenografie Fabiana Di Marco

musiche Massimiliano Pace

produzione Compagnia Molière, La Contrada – Teatro Stabile di Trieste

in collaborazione con Teatro Quirino – Vittorio Gassman

 

Al Teatro Verga di Catania fino al 5 Marzo

Author: Anna Di Mauro

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