‘La donna dello scrittore’ e ‘In guerra’ saranno le prossime uscite Academy Two

‘La donna dello scrittore’ e ‘In guerra’ saranno le prossime uscite Academy Two

ROMA – I prossimi film in uscita con Academy Two saranno:

IN GUERRA il film di Stéphane Brizé con Vincent Lindon, presentato in Concorso all’ultimo Festival di Cannes uscirà il 15 novembre.

Dopo La legge del mercato Stéphane Brizé e Vincent Lindon ritornano insieme per un potente spaccato sul mondo del lavoro.

LA DONNA DELLO SCRITTORE di Christian Petzold con Paula Beer e Franz Rogowski, presentato in Concorso all’ultima Berlinale (con il titolo Transit).

Segreti, passioni e identità nascoste sullo sfondo della grande Storia.

Il nuovo film del regista de La scelta di Barbara Il segreto del suo volto sarà in sala dal 25 ottobre.

L’autobiografia di George K.Glaser contiene una frase meravigliosa: “Improvvisamente, nel momento in cui il mio volo si concluse, mi ritrovai sommerso da qualcosa che potrei definire una sensazione di sospensione della propria vita”. Georg K. Glaser era uno scrittore tedesco sostenitore del partito comunista, vissuto negli stessi anni nei quali era stato ambientato “Transito” di Anna Seghers. Fuggì in Francia e si rifugiò nella parte della Francia libera, non occupata, di cui a quei tempi faceva parte Marsiglia.

Questa sensazione di sospensione di cui parla è simile all’assenza di vento o all’immobilità dell’aria: la brezza che cessa di spingere la barca a vela, che rimane sospesa nell’immenso nulla del mare. Coloro che sono a bordo rimangono così tagliati fuori dalla storia e dalla vita. Sono bloccati nel tempo e nello spazio. Le persone ne La donna dello scrittore sono bloccate a Marsiglia, in attesa di una nave, di un visto per potersi spostare altrove. Sono in fuga – non possono tornare indietro ma non possono andare oltre. Nessuno si occupa di loro, si muovono ignorati da tutti, seguiti solo dalla polizia dai collaborazionisti e dalle telecamere di sorveglianza. Sono fantasmi sospesi in uno spazio tra la vita e la morte, tra passato e futuro. Il presente passa davanti a loro senza riconoscerli. Il cinema ama i fantasmi. Forse perché anche il cinema è uno spazio di transito, una realtà momentanea, nella quale noi, gli spettatori siamo contemporaneamente assenti e presenti.

LA DONNA DELLO SCRITTORE è tratto dal romanzo “Transito” di Anna Seghers, scritto a Marsiglia nel 1942. Utilizzando uno strabiliante parallelismo tra i fatti storici del passato e la Marsiglia dei giorni nostri, Petzold racconta la storia di un grande amore impossibile fra la fuga, l’esilio e il desiderio di raggiungere un luogo che possiamo chiamare casa. Franz Rogowsky e Paula Beer interpretano i due protagonisti.

SINOSSI

Le truppe tedesche sono alle porte di Parigi. Georg, un rifugiato tedesco fugge a Marsiglia appena in tempo. Il suo bagaglio contiene i documenti di uno scrittore di nome Weidel, che si è tolto la vita per paura delle persecuzioni. Questi documenti comprendeno un manoscritto, alcune lettere e l’assicurazione dell’ambasciata messicana per un visto. A Marsiglia possono rimanere solo coloro che possono dimostrare che ripartiranno. Per dimostrarlo hanno bisogno di essere in possesso del permesso di ingresso da un potenziale paese ospitante. George ha assunto l’identità di Weidel, memorizzato tutte le informazioni contenute nei documenti e spera così di ottenere uno dei pochi passaggi disponibili in nave. Sprofonda nella mezza esistenza di chi è in fuga: chiacchiera con i rifugiati nei corridoi di un piccolo hotel, nei consolati, nei caffè e nei bar lungo il porto. Il suo unico amico è Driss, figlio del compianto Heinz, morto mentre cercava di fuggire. Ma cosa lo spinge a partire? È possibile iniziare una nuova vita in un altro luogo? Tutto è destinato a cambiare quando George incontra Marie, una donna misteriosa di cui si innamora. È l’amore o l’interesse a spingere Marie fra le braccia di un medico, Richard, prima di partire alla ricerca del marito? Si dice che quest’ultimo si arrivato a Marsigliacon in mano un visto per il Messico per sé e la moglie.

INTERVISTA A CHRISTIAN PETZOLD

Qual è stato il suo rapporto con il romanzo di Anna Seghers “Transito”?

Il libro è stato sottoposto alla mia attenzione molto tempo fa da Harun Farocki, che lo considerava un libro fondamentale. Harun era nato nel 1944 nel Sudetenland da genitori che avevano dovuto lasciare la propria terra, e ho pensato che avesse sempre cercato di scoprire particolari connessioni tra il XX secolo e scrittori come Franz Jung, George Glaser e Anna Seghers. Quello che esisteva prima del fascismo era una innocenza perduta e “Transito” è un libro che è stato essenzialmente scritto in quel momento di transizione. Durante gli anni, lo abbiamo letto e riletto perché è un libro a cui entrambi potevamo relazionarci: vivere in uno stato di transizione e avere un personaggio la cui storia si sviluppa in uno spazio specifico ma senza avere una casa. In “Transito” non esistono case in cui poter tornare. Essere a casa coincide di fatto con la condizione di non averne una.

Come nasce l’idea di collocare la storia de La donna dello scrittore che si svolge nel 1940, a Marsiglia ai giorni nostri?

 Avevo già girato Il segreto del suo volto, un altro film storico insieme ad Harun, ambientato negli stessi anni e che ricostruiva quella situazione, quello stato d’animo. Harun ed io avevamo già scritto un primo trattamento da cui partire per realizzare La donna dello scrittore e lo avevamo concepito come un film storico ambientato a Marsiglia nel 1940. Dopo la morte di Harun, ho ripreso in mano il progetto ma non ero più sicuro di voler realizzare un film storico. Non volevo ricostruire il passato. Ci sono rifugiati in ogni parte del mondo e viviamo in una Europa in cui riemergono i nazionalismi, non volevo ritrovarmi nella comfort zone della ricostruzione storica. Intanto avevo realizzato due film per la televisione ambientati ai giorni nostri, un’epoca che mi è più familiare. I motivi per cui sono ritornato a La donna dello scrittore sono essenzialmente due: tempo fa stavo parlando con un architetto che mi spiegava che l’aspetto affascinante dell’architettura della DDR è che gli edifici, risalenti a quel periodo, non sono stati demoliti ma li possiamo osservare ancora integri, accanto alle nuove costruzioni. La storia della DDR non è nascosta sotto altri strati ma è rimasta visibile integralmente. C’è un dibattito a Monaco sulle “Stolpersteine”, le pietre d’inciampo, ciottoli di ottone placcato incastonati sui marciapiedi che ci ricordano gli ebrei stati deportati nei campi di sterminio. Considero le pietre d’inciampo una delle più grandi forme di arte moderna, ci rendono testimoni del passato mentre attraversiamo il presente. Hanno qualcosa di spettrale è questo mi ha fatto pensare a Transiti. Una zona di transito è per definizione un luogo di passaggio. Come il check-in di un aeroporto, consegni il tuo bagaglio ma non sei ancora andato da nessuna parte. Anna Seghers descrive questa zona di transito come un luogo tra l’Europa e il Messico, ma potrebbe anche essere – così come lo sono le pietre di inciampo o l’architettura – una zona di passaggio tra il passato e il presente.

Quale è stata la difficoltà nel rendere compatibile il mondo del 1940 alla Marsiglia di oggi?

Prima che iniziassi a scrivere la sceneggiatura, ho provato ad immaginare che effetto potesse fare ambientare l’esodo dei rifugiati di allora nella Marsiglia di oggi. E non ho trovato nessuna incompatibilità. Riuscivo anche a visualizzare qualcuno in giacca a cravatta con un borsone che camminava verso il porto di Marsiglia, prenotava un camera in un hotel pronunciando queste parole: “I fascisti saranno qui entro tre giorni, devo andare via”. Mi è sembrato plausibile dopotutto e forse per questo ancora più preoccupante. Ho compreso immediatamente lo stato d’animo dichi è rifugiato, le paure i traumi e la storia delle persone che in passato sono stati così numerosi a Marsiglia. Mi ha sorpreso non aver sentito prima la necessità di raccontare le loro storie.

Quali sono state le sue considerazioni riguardo le attrezzature da utilizzare, i costumi e le scenografie?

Le zone di transito richiedono sempre una ricerca di equilibrio. Volevamo rappresentare qualcosa che puoi vedere oggi, ma non volevamo modernizzare troppo i personaggi. Non volevamo che sembrassero degli spettri dal passato che aleggiavano su Marsiglia; volevamo che fossero spettri di oggi. La nostra costumista Katharina Ost ha detto: “Non voglio che siano retrò, ma nepuri che siano moderni; rimaniamo vicini ad una linea classica, camicie classiche e abiti classici”. È da come un vestito viene indossato che si segnala la provenienza sociale. Simile è stato il ragionamento per le scenografie. Negli hotel che abbiamo visitato a Marsiglia, per esempio, sono stati sufficienti solo dei piccoli aggiustamenti, il colore di una parete per esempio. L’appartamento di Driss lo abbiamo lasciato così come lo abbiamo trovato. Siamo entrati e abbiamo pensato: “Eccolo giriamo qui”.

Altre cose invece non sono state così semplici. Il Monte Ventoux per esempio a Marsiglia c’è ancora ma adesso è stato aperto un McDonalds. Ma accanto al Mac ci sono dei ristoranti che hanno lo stesso aspetto di sempre con le stesse tovaglie a scacchi, la pizza e il vino rosè, niente sembrava fuori posto.

Anna Seghers scrisse la storia con un personaggio che la racconta in prima persona ad un altro. Perché sei stato contrario all’utilizzo del racconto in prima persona nel film?

Ho un problema con il racconto in prima persona al cinema. Non lo trovo credibile. In un romanzo il narratore si rivolge dalla sua solitudine ad un lettore, che a sua volta è solo. Ma in un film il narratore non si rivolge ad una sola persona; ma ad una sala cinematografica, ad un pubblico. Quando qualcuno dice “io” al cinema non è obbligatoriamente il protagonista ma semplicemente colui che parla in quel momento. Il mio modello è stato Barry Lyndon di Kubrick: c’è un narratore che osserva il suo personaggio Barry Lyndon e lo ama per i suoi difetti. Se proviamo anche noi ad osservare il protagonista in questo modo siamo portati ad avere un certo atteggiamento nei suoi confronti. Mi sono chiesto chi potesse essere il narratore. George non ha amici ed è sempre in movimento, deve essere qualcuno che conosce la sua storia e che a sua volta ce la racconta. È importante che il barista, che solo più tardi identifichiamo come il narratore, riceva il manoscritto dello scrittore alla fine.

Ha considerato la possibilità di non utilizzare una voce narrante durante tutto il film?

Volevo realizzare un film la cui storia funzionasse anche senza la voce narrante. Quello che mi interessava erano i passaggi. C’è un famoso testo di Béla Balázs che descrive una scena in cui Lilian Gish apprende che suo figlio è morto. Poi lei si volta ed esce e la camera si gira insieme a lei, Balzas chiama questo un passaggio: lo spazio che completiamo noi. Si crea un collegamento tra noi e il personaggio. Ho utilizzato la voce narrante allo stesso modo come fosse un passaggio.

Lei utilizza spesso il termine “Geschichtsstille”, momento di sospensione, quando parla di passaggi.

Durante la preparazione del film ho letto “Secret and Violence” di Georg K.Glaser, un altro dei libri preferiti da me e Harun , fondamentale per la scrittura del film. Glaser è fuggito dalla Germania nazista scappando da un campo di concentramento vicino Görlitz. Era un comunista come Anna Seghers ma non un intellettuale. Quando scrisse “Secret and Violence” aveva già perso la sua seconda casa, il partito comunista. Ed è stato in quel momento che è nato il termine da cui sono rimasto affascinato “Geschichtsstille”, uno stato di sospensione. Quando questo stato di sospensione è finito Glaser ha potuto ricominciare, è diventato cittadino francese e ha potuto costruirsi una nuova vita. Anna Seghers invece è rimasta una solitaria; quando leggi i suoi libri messicani ti accorgi che prova a scrivere di se stessa nei suoi libri, ma hai la sensazione che non ne faccia parte veramente. Nel romanzo “Transiti”, il manoscritto che lo scrittore Weidel abbandona è essenzialmente il testo del libro che Anna Seghers scrisse che avrebbe potuto essere trovato in una stanza d’albergo. La scrittura di questo testo, che al tempo stesso è il testo del narratore, è un tentativo di superare la disperazione e ripartire da capo dopo che la “Geschichtsstille”, la fase di sospensione, è terminata. Questo accade quando Georg legge il manoscritto e dice: “Quello è stato il momento in cui ho compreso l’intera storia, ho capito me stesso, ho capito il senso di impotenza di tutta questa gente.

Georg ha interiorizzato il suo essere di passaggio e la lotta per la sopravvivenza a tal punto da non riuscire più ad avere un obiettivo finale?

L’aspetto più affascinante di un racconto di formazione come “Transiti” è farti comprendere il percorso che ci porta a diventare una persona con un obiettivo, ricordi, desideri e necessità. Georg all’inizio è vuoto, una pedina, una vittima della storia; va in giro, siede nei bistrò, non ha passato né futuro, semplicemente vive nel presente. Continua a lottare nella vita perché pensa di non aver niente da perdere e di non aver ancora perso nulla. E’ scaltro, quasi come un criminale; decifra i segnali intorno a lui e possiede un talento naturale nel fingere. Solo quando legge il manoscritto, durante la fuga, mentre il suo amico muore accanto a lui, ecco allora diventa improvvisamente una sorta di eroe tragico. Subisce una trasformazione. Si innamora. Assumere l’identità di qualcun altro gli dà uno scopo nella vita, sebbene costruito su una bugia. E durante tutta la storia, assumere l’identità di qualcuno che ha sentimenti e bisogni, lo porterà, alla fine, a sacrificarsi.

Il rapporto di Georg con Driss, il ragazzino, gli offre un’opportunità per restare.

Ho pensato che gli attori avessero interpretato la scena dove Georg canta una canzone a Driss con forte intensità. La presenza del bambino fornisce a Georg un passato, un ricordo. In quel momento, lui stesso diventa bambino. La madre di Driss all’inizio era diffidente nei confronti di Georg perché lo considerava un irresponsabile vagabondo. Ma tutto cambia quando lui inizia a cantare. Da quel momento lo accetta. Gli offre l’opportunità di unirsi alla famiglia e di dare un senso alla propria vita. E lui lo fa. Ma essere stato un fuggitivo per tanti anni ha rinforzato il suo egocentrismo a discapito del suo senso di solidarietà. Questo lo fa sentire colpevole ed il senso di colpa è qualcosa di nuovo per lui.

Il manoscritto dell’autore è incompleto. La fine del romanzo suggerisce che il narratore si ritira sulle montagne…

Sì, è possibile che lo faccia. Ma è anche seduto sul Monte Ventoux all’inizio del racconto di Anna Seghers, anche se avrebbe dovuto essersene andato da tempo. E’ un’immagine bellissima quando dice che Marie viene dalla terra delle ombre. E ogni volta che la porta si apre ed appare un’ombra sul muro, egli alza lo sguardo. Osserva le ombre che entrano nel caffè, pensando che la prossima potrebbe essere Marie. Quella probabilmente è la parte migliore, per qualcuno che è già in un mondo immaginario per dire: “se la nostra mancanza di radici può diventare una storia bellissima ed appassionata, allora posso aspettare qui in questo ristorante, fino a quando Marie ritornerà dal regno dei morti”.

Definirebbe La donna dello scrittore un film d’amore?

Sì, sì penso che la storia di qualcuno che fugge possa essere raccontata solo come una storia d’amore. L’amore richiede tempo ma crea qualcosa che l’allontanamento non può distruggere. Gli innamorati possono creare qualcosa che trascende il tempo e lo spazio. Possono prendere distanza dalla storia. Penso sia meraviglioso.

Il personaggio di Marie sembra avere una doppia natura, divisa a metà tra l’interesse personale e la devozione.

Durante il lavoro di preparazione, Paula Beer sosteneva che nel libro – nonostante l’autore fosse una donna – il suo personaggio fosse una proiezione maschile. Le sue caratteristiche fisiche sono appena accennate, non hai idea di come sia fatta fisicamente. Quello che ho amato molto del personaggio è la sua doppiezza, Mariee non è solo pura e devota. A differenza di George lei ha un profondo senso di colpa. Ha perso i contatti con il marito e non vuole imbarcarsi finché i suoi sensi di colpa non si saranno placati. Lei dice: “Ho bisogno di trovare mio marito. Ci sono, ti amo ma non potrò iniziare una vita nuova con te finché non avrò saldato i debiti con il mio passato. Non può vivere con quel tradimento.

Perché ha scelto il formato cinemascope?

Era importante per me che gli spazi in cui stavamo lavorando ci permettessero una coreografia in cui i personaggi non comunicassero tra di loro solo attraverso il dialogo ma in cui le posizioni, i movimenti e le distanze raccontassero molto di più di loro delle parole. Il cinemascope ti concede di avere dello spazio in cui muoverti e girare lunghe scene seguendo il movimento degli attori. Nella sequenza finale in cui Marie e raggiunge George in camera, cammina verso lui, lo supera e va verso la finestra, poi lui cammina verso di lei. Abbiamo girato questa scena varie volte per trovare la giusta coreografia.

Come ha scelto i due protagonisti Franz Rogowski e Paula Beer?

Per il personaggio di Georg cercavo un attore con una forte presenza scenica. Mentre scrivevo il film avevo in mente Belmondo nel film Fino all’ultimo respiro. Simone Bär che ha sempre fatto i casting insieme a me e Bettina Böehler mi suggerirono entrambe Franz Rogowski. Lo avevo già visto in Love Steaks. La prima cosa che Franz mi disse, quando ci siamo incontrati, è che non gli piaceva il flipper nella scena del Cafè Parisien. Mi ha fatto notare che i flipper non esistono più e che sembrava una reminiscenza degli anni ‘60. Aveva ragione per cui mi sono sbarazzato immediatamente del flipper. Invece devo a François Ozon la mia scelta di Paula Beer. La conoscevo solo come la giovane ragazza del film POLL ma non sapevo nulla del resto della sua carriera sino a quel momento. François mi fece visionare i giornalieri di Frantz ancora prima dell’uscita del film, ed io rimasi folgorato. Paula ha 23 anni ed non riesco ad immaginare come possa aver già raggiunto una tale maturità. Paula trasmette saggezza e lo spirito della giovinezza in egual misura, in un modo che non avevo mai visto prima.

Il fatto che il tema dei rifugiati sia così attuale ha influenzato il suo lavoro sul film?

Bisogna essere cauti. Il campo profughi di Calais – The Jungle – era appena stato smantellato quando abbiamo iniziato le riprese del film. Le persone ci chiedevano di andar a riprendere tutto, i migranti africani, i barconi, i corpi nel mare di Lampedusa. Ma non puoi farlo. Non puoi filmare i migranti africani, non ho il diritto di farlo. Abbiamo invece girato nel Maghreb di Marsiglia che è una parte della città e appartiene alla storia coloniale della Francia. Potevamo utilizzare quello spazio all’interno della nostra storia e rappresentarlo così com’è.

La guerra e le cause dell’esodo sono date per assodate ma non sono rappresentate.

Io penso che questa condizione sia insita nella fuga, quando stai scappando dimentichi. Odi tutto quello che ti sei lasciato alle spalle, non hai un linguaggio che ti faccia sentire a casa e che ti permetta di accedere al mondo. Frantz Rogowski riesce a renderlo perfettamente. Quando Georg è seduto difronte al console americano e dichiara “Non scriverò più saggi”, cita testualmente la frase presente nel libro della Seghers. Il modo in cui pronuncia la frase fa capire immediatamente cosa ha provato e cosa ha dovuto sopportare. E quando alla fine menziona “la guerra” fa venire i brividi lungo la schiena. Abbiamo avuto delle difficoltà durante le riprese a causa dei recenti attacchi terroristici di Nizza e Parigi. Quando camminavamo per le strade scortati da task force speciali la gente era spaventata. Ho capito durante le riprese, mentre mettevo in connessione il passato ed il presente, come fosse facile immedesimarsi nei panni di un rifugiato. La nostra identità profonda è quella di un rifugiato.