Da Articolo21. Marchionne, la solitudine ‘remuneratissima’ del grande manager, sinchè e purchè…

  

Da Articolo21

Manager ‘dell’ingranaggio’ -24 ore su 24

but the show of  businnes must go on

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Nella vicenda umana e professionale di Sergio Marchionne, quello che colpisce è la disumanizzazione che il mercato riserva ai suoi uomini. Un manager gravemente malato viene considerato un pezzo fallato da sostituire con la velocità di un cambio gomme da formula 1. Non si aspetta nemmeno la sua fine e già è fuori, rimpiazzato da un ricambio funzionante, in modo che l’azienda non abbia un danno d’immagine nell’essere associata – anche per un attimo – alla morte.

Conosco persone che hanno così assimilato la cultura della società in cui hanno fatto carriera, da essersi trasformati in perfetti applicativi aziendali. Sono persone sole: piene di “contatti” internazionali, ma senza più gli amici di prima, vestono bene e dormono male, parlano tre lingue ma non capiscono i figli. Se provi a sollevare un tema no-business, come il dolore dei disoccupati per le delocalizzazioni speculative, ti sorridono in silenzio con la cortese compassione che si riserva ai dementi. Gli alti manager – tranne rare eccezioni – vivono soli e muoiono soli. Non riesco a giudicare Marchionne per le sue scelte. Mi fa troppo pena.

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Postilla  di Alessandro Robecchi (dal blog dell’autore)

L’UOMO CHE (FATTI SUOI) AMAVA IL CAPITALISMO

Se si scava con pazienza, con tenacia, se si spostano come piccoli massi che ostruiscono lo scavo le cretinate feroci dei troll della rete, se si solleva con un paranco la massa inerte dell’agiografia obbligatoria; insomma se si va al nocciolo della faccenda, si vedrà che le diverse valutazioni su Sergio Marchionne contengono un dibattito tutt’altro che banale. Il dibattito sul capitalismo – italiano e non – che si vorrebbe far passare per una querelle datata e novecentesca e che invece sta lì, a bruciare sotto la cenere fredda.

Sono cose complicate e antiche, per esempio il conflitto tra capitale e lavoro, una cosuccia che non si è risolta negli ultimi duecento anni, da Karl Marx in poi, e che non si risolverà certo ora a colpi di tweet. Le fazioni, però, sono ben delineate:

-Chi ringrazia Marchionne per aver applicato certi standard del capitalismo moderno – molta finanza, molte delocalizzazioni, molto globalismo, compreso portare la sede legale qui, la sede fiscale là, ma mai più in Italia.

-E chi, dall’altra parte, vede l’ammazzasette delle relazioni sindacali, i licenziamenti e lo sfoltimento della forza lavoro, la riduzione delle pause alla catena di montaggio per la mensa o per pisciare, la pretesa di fare un sindacato giallo e tagliare fuori dagli accordi chi combatte sul serio.

Per qualche anno, la questione è passata come un conflitto tra “moderno” e “antico”. Stupidaggini, perché il problema è ancora quello di capire se questa “modernità” ci piace e ci conviene o se piace e conviene a pochissimi. Per dire, nella gestione Marchionne oltre ventimila posti di lavoro in Fca sono evaporati: ventimila famiglie lasciate senza un reddito a fronte di una famiglia che ha salvato la baracca (gli Agnelli e successive modificazioni) e di alcune che hanno moltiplicato risparmi e investimenti (gli azionisti). Insomma, la vecchia, cara lotta di classe, che oppone chi ha molto e chi ha poco.

Al centro di questo dibattito di lungo respiro c’è un’emergenza costante e visibile a tutti, che è l’aumento delle diseguaglianze. Per dirne una e giocare con il paradosso, si ricorda che Valletta, storico amministratore delegato Fiat, negli anni Cinquanta, guadagnava come quaranta operai e Marchionne invece come più di duemila (vale anche per calciatori, divi di vario genere, eccetera eccetera). Cioè la forbice tra rendita e lavoro, tra profitti e salari si è allargata in modo indecente e inaccettabile, eppure accettata di buon grado anche a sinistra. Caliamo un velo pietoso sulle scempiaggini renziane a proposito di Marchionne e del marchionnismo, ma è certo che una corrente filosofica filopadronale è egemone da anni. L’idea un po’ balzana è che aiutando i ricchi (sgravi, favori, decontribuzioni, forse addirittura flat tax…) si aiutino, diciamo così, a cascata, anche i poveri. Che se la tavola dei ricchi è ben imbandita, qualche briciola cadrà sotto il tavolo, una manna per chi non ha niente, o poco.

Quando si fa notare che questo paradosso non ha funzionato, che i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri (vedere l’indice Gini sulla diversità, siamo in testa alle classifiche, per una volta), la risposta è standard: si allargano le braccia e si dice “è il mercato che governa il mondo”, intendendo una forza potente, libera e incontrollabile che decide le cose (è il terremoto, è lo tsunami, cosa vuoi farci) e che non può essere regolata. Ecco. Il nucleo, sotto la tempesta di reazioni alla fine dell’era Marchionne, è questo: il mercato è immutabile e incontrollabile come conviene a pochi, oppure si può governarlo come converrebbe a molti? Bella domanda, alla faccia della solita solfa sulla morte delle ideologie. Il resto – dalle agiografie agli insulti – è rumore di fondo.

Author: Massimo Marnetto

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