Cinzia BALDAZZI – Il mondo di Isabella, Licia e Patrizia (vita da gatte nel libro di Antonio Mazza)


Scaffale


IL MONDO DI ISABELLA, LICIA E PATRIZIA. VITA DA GATTE NEL LIBRO DI ANTONIO MAZZA



Nel libro del giornalista Antonio Mazza, il racconto dei lunghi anni con tre soriane in casa: il ritrovamento, l’accoglienza, il ménage, le vicende umoristiche e pericolose, l’epilogo


La copertina esibisce una fotografia dai contorni sfumati dal sole con un tavolo da terrazzo e tre stupende gattine, riprese in diverse inquadrature: sul tergo, una piccola immagine del giornalista Antonio Mazza abbracciato a una di loro. Sfogliando il libro del quale è autore, intravedo un lungo racconto d’esordio, alcune brevi “Storie di mezzo” e un epilogo – si direbbe – malinconico, non privo però di un filo di speranza escatologica. Dunque, nell’immediato sono rasserenata, essendo certa di affrontare con amore una lettura dedicata ai mici o, meglio, alla vita da micette, scandita dal progredire di episodi scherzosi, gag esilaranti, vacanze in camper; oppure da vicende di impronta drammatica, brutti “voli” da un piano alto (in stile “paracadutista”) o malanni con ricoveri in ospedali veterinari.

Un appassionante mosaico composto di tessere di psicologia animale e umana denso di intervalli sentimentali, principi morali non retorici ed energica fede nella natura. Ambientato, quindi, in un’area cordiale e affabile senza cancelli di preconcetti dannosi, a godersi trame-intreccio ludiche, gesti affettuosi, rischiose imprese, corteggiamenti vari e un po’ di riposo, magari (accade nella cover descritta) nella limpidezza solidale di un balcone con edere rampicanti e vasi di piante grasse. «Belli davvero i gatti», leggiamo, «con quel design così armonico, il musino rotondo e quel nasetto che sembra una miniatura. Le tengo [sono “femmine”] come gioiellini e le mostro agli amici con una punta di vanità. Io sono Cornelia e loro sono i miei Gracchi a quattro zampe»: Isabella, Licia e Patrizia, perché Licia II, una quarta sorellina, viene ben “piazzata”.

È giusto, le protagoniste del volume dal titolo Un mucchietto di peli (una scheggia di luce) appartengono, nella cosiddetta fauna, a una classe assai illustre vantando, dal II secolo a.C., potenti progenitori già millenari, poiché queste splendide e scattanti creature sono celebratissime in molteplici ritualità ed epopee nel passato storico e culturale dei nostri avi. Sin all’inizio, del resto, Mazza dichiara di aver spostato le riflessioni di fisiognomica, per decifrare l’indole di chi incontra, dagli uomini ai felini, osservandoli alla medesima stregua: «La semplice curiosità mi ha introdotto in una dimensione nuova, un magico mondo parallelo che ha lasciato una traccia profonda nella mia emozionalità più segreta».

Patrizia, Licia e Isabella

Un penetrante vincolo appunto esoterico, con sviluppati contenuti mitologico-religiosi e popolari folkloristici, ha caratterizzato lo scaturire dei rapporti tra l’umanità e numerosi mammiferi del genere Felis (la specie dei Felidi), in grado maggiore con gli esemplari addomesticati: in vero, erano giudicati ricchi di una malia misteriosa, talenti prodigiosi o qualità trascendenti: a parere dell’autore, «dev’essere quel modo ieratico di porsi (..), la sua flemma sorniona e il particolare magnetismo dello sguardo, ma soprattutto (…) esprime uno stato di quiete che si trasmette all’ambiente». Insomma, la pet therapy esplorata dallo scrittore e dalla moglie (Isabella anch’essa…) insieme a milioni di persone, ovunque, ha radici di applicazioni archetipiche. Risulta, infatti, siano stati gli Egiziani i primi a prenderli con sé, circa 6.500-6.000 anni orsono (chissà se fu la sorte del Felis silvestris lybica), mentre in una fase anteriore, risalente a dieci millenni fa, abbiamo conferma fossero adorati nella scala di autentiche divinità.

Se l’iter del nome rimane complesso, per gli appellativi delle singole “star” evocate dal giornalista, invece, ritengo non sia subentrato alcun dilemma: Patrizia «in ricordo di lontani e sfortunati amori di cui ancora conservo la nostalgia»; Isabella tendendo, nel pelo, «al rossiccio come i capelli della mia compagna»; «Licia I e II molto simili». L’etimologia compie i passi iniziali in Egitto: il Myeou, onomatopeico, è di sesso maschile; al contrario ignota è la genesi del femminile Techau, inciso alla base delle statuette situate presso le tombe muliebri. Ispirandosi a un tale neologismo, i Copti coniarono il “Chau”, adottato nell’Egitto e nell’Asia per l’animale selvatico con la variante di “Chaus”. Nel V secolo a.C., Erodoto sembra ne conoscesse un esemplare, Ailouros (“dalla coda mobile”), presto sostituito da “Gale”, nella lingua greca precedente, allusivo della donnola: in età tarda prevalse “Kàttos”. Nell’antica Roma la specie randagia era battezzata “Felis”, evoluta in “Felino”, “Felide”, ecc.

Dal 300 d.C., emerge il “Cattus”, di provenienza forse africana (cfr. il nubiano “Kadis”) o celto-germanica (riprodotta nell’irlandese “Cat”, e negli arcaici tedesco “Chazza” e scandinavo “Kötr”). Un’eventuale origine semitica del vocabolo potrebbe appartenere a un’opera armena del V secolo, fonte di “Catu”, con riscontro del siriano “Gatô”. “Cattus” sarà la premessa del sostantivo attuale nei maggiori idiomi europei (“Cat” inglese, “Katz” tedesco, “Kat” olandese, “Gato” spagnolo e portoghese, “Chat” francese, “Kochka” russo). Nell’Africa contemporanea vengono utilizzate unità lessicali di stampo prettamente fonetico, come in Somalia è “Muculel”.

La gatta madre-matriarca, inserita nella famiglia di Antonio Mazza, è chiamata “De Felinis”, «per quell’incedere elegante da gran dama decaduta», ed è una “calico”, ossia un “soriano” «che non partorisce maschietti». Nei confronti di Patrizia apprendiamo: «La dedizione di questa micina è toccante e quasi mi spaventa, proprio perché totale, di abbandono totale senza se e senza ma». E poi: «Ne avverto tutta la sublime fragilità, non sua (…) lei non ha riserve, bensì mia, di essere umano, pregno della perversa ambiguità che caratterizza la nostra razza. Saprò essere fedele ad un assoluto al quale non sono abituato, perché non esiste tra noi umani?».

Il Gatto Sacro combatte contro il pitone Apophis

Le prime testimonianze, all’epoca dell’Antico Regno, sono recuperate nel “Libro dei Morti”, dove l’affascinante animale (identificato, nonostante sia alquanto esile, con la forza di un leone) combatte con Apophis, pauroso pitone delle acque melmose, emblema delle spinte di flussi maligni, attaccando la Terra nell’indifesa oscurità notturna. Mazza precisa: «Benessere ricevo, sì, i gatti sono (…) positivi, sprigionano un calore che scalda il sistema nervoso (…), l’ho sperimentato più volte io che sono un tipo abbastanza apprensivo e criptonevrotico, facile a trasformare un problemino in una palude piena di mostri ululanti». Gli occhi di simili creature, assorbendo i luminosi raggi solari (da cui il colore rinfrangente e la facoltà di oltrepassare il buio), avrebbero sgomentato, con uno sguardo infuocato, i malvagi serpenti-antagonisti di Ra (Dio Sole del Mezzogiorno), salvando la collettività. La Dea della guerra Sekhmet, vicina a Ra, è una figura ritratta con la testa leonina: è annoverata in seguito Mafdet, nume garante del buon esito di pratiche arcane di guarigione e riparo. In merito, è stato riferito un portentoso sortilegio a scapito dei feroci rettili, dove era invocata proprio Mafdet con le parole: «O Cobra, io sono la fiamma che brilla sulle ciglia degli dei del Caos: allontanatevi da me, attenti, io sono Mafdet!».

Nondimeno, l’amato e leggiadro mammifero era associato principalmente alla divina Bast (o Bastet), sua protettrice (antenata pagana dell’odierno San Felinus, citato nella cronostoria felina di Mazza) e di quanti lo favorivano: era una deità elevata, simbolo della fertilità, del sentire al di là e della magia; tutelava i bambini, l’eros e l’ambiente parentale. Migliaia di anni dopo, nell’appartamento abitato da Patrizia, Isabella e Licia, vige «un rapporto intimo (…) un linguaggio segreto che si sovrappone ai ritmi stessi» della dimora, tornata ad essere «l’omphalòs, il centro del mondo, come è giusto che sia per ognuno di noi (…). Un interessante interscambio culturale», quindi, è la conclusione, «si stanno umanizzandoe io mi sto gattizzando».

Vetrata policroma di San Felino (Arona, Chiesa dei Santi Martiri)

Il culto ancestrale era imperniato nella città di Bubastis (“Per-Bast” o “Casa di Bast”), arricchita di un tempio, menzionato da Erodoto e lodato per la presunta bellezza, con annessa una necropoli con centinaia di mummie delle adorate creature. Bast era poi venerata in idoli con il volto di donne o gatti e l’epica supponeva guidasse un carro da essi trainato: era diramata inoltre, tra le Egizie, la certezza della matrice suprema e ideale, o meglio fatale, del loro appeal, tanto da truccarsi privilegiando la forma oculare per enfatizzarne l’incanto enigmatico. Nel nostro clan, Licia, se accorre a un richiamo, sfoggia un miao miao “interrogativo”, anticipando «brevi e rochi miagolii dai quali traspare una malia morbida e carnale tutta femminile». Già nello gnosticismo (movimento filosofico, religioso ed esoterico ellenistico greco-romano, con massima diffusione tra II e il IV secolo d.C.), le bestioline in questione erano legate alle sfumature diaboliche della femminilità: in tal senso, si accentuava fossero l’alter-ego dello spirito della notte e del mistero della pura e ribelle Lilith, vergine selvaggia sovrana delle ombre nemiche della vita.

Purtroppo, sull’argomento non sono mancati pregiudizi, superstizioni, iconografie negative: del genere «del terribile Gattosauro di un improbabile Mesozoico», suggerisce con ironia Antonio Mazza, mimandolo «con braccia alzate e ghigno minaccioso». Per fortuna, «negli ultimi tempi è aumentata la sensibilità verso gli animaletti, anche i randagi, segno che ci stiamo liberando di quel condizionamento del pensiero cartesiano che considerava l’animale “meccanismo”, cioè oggetto»: «E allora», prosegue Mazza, «credo sia giunto il momento dell’incontro, se riusciamo a comprendere che quello degli animaletti è un universo parallelo, affatto estraneo, e se non restiamo sulla soglia, ma entriamo, con rispetto, perché loro hanno una dignità».

Bastet                                                              Mafdet


Altresì, era in uso fare una sottile ferita ai bambini e mescolare il sangue dei piccoli al sangue di un felide prescelto, allo scopo di consacrarli a Bastet. «Ora è la mia famiglia», confessa il giornalista, «due umani e tre stelline insieme per sempre». Tra la civiltà delle piramidi era giustiziato chiunque, sebbene in modo fortuito, sopprimesse gatti e i proprietari, se ne moriva uno, per comunicare il lutto subìto, rasavano sopracciglia e capigliatura: veniva paragonato alla Sfinge («Licia fuori, adagiata sul mio stomaco, a mo’ di sfinge») per la natura celata ed elusiva e per la ricettività dei campi magnetici ed elettrici, percependo avvenente la sua pupilla in virtù delle fasi lunari rispecchiate. In più, è opportuno valutare l’importanza della consueta posizione a gomitolo, esibita con nonchalance («Licia acciambellata sulle mie ginocchia, mentre ascoltiamo musica, quella polifonica franco-fiamminga (…) eh sì, era una raffinata…» e della facoltà di dormire dall’alba al tramonto, capaci di renderlo, nella stima degli Ierofanti (sacerdoti degli Eleusi nell’antica Grecia), l’immagine del meditare, esempio da emulare per ogni iniziato a riti concomitanti.

Arrivando nei paesi arabi, la carismatica bestiolina riscosse un immediato successo, con una fama analoga al cavallo, quadrupede lì nobilitato e circondato di sacralità. È celebre una leggenda a proposito di Muezza, la creaturina prediletta da Maometto. Una volta, assopita sul braccio del profeta, quando costui ebbe la necessità di uscire, temendo di disturbarla preferì tagliare la manica della veste. Al ritorno, Muezza fece un inchino per gratitudine nei confronti del padrone, accogliendone tre carezze sul dorso: secondo alcune ipotesi, tale gesto consentirebbe – è ovvio, in chiave utopica – agli acrobatici mammiferi di atterrare sani e salvi cadendo dall’alto sulle zampe. Il numero tre, in effetti: il “tre per tre” è simbolo dell’assoluto, essendo propulsore eccelso delle invidiabili “nove vite”.

L’epilogo del libro di Antonio Mazza, tratto dalla sfera reale, in una struttura logico-intuitiva salda e commovente, introduce, con rammarico e amorosità, ad un atto di coscienza indiscusso e doloroso: «La loro vita rimane un mistero, come la nostra, e mi chiedo davvero se è solo un’apparizione, un flash tra due nulla, il “prima” e il “dopo”, o c’è qualcos’altro, come crede chi ha fede». Il declino della vecchiaia e la scomparsa giungono anche in questo habitat intensamente popolato da sentimenti e complicità solidali (frammiste a gelosie e antagonismi ad hoc): ecco quindi il commiato, indifferente alle molteplici rinascite dei miagolanti coinquilini, le femmine dei quali erano associate (lontane dal contraddirsi) alla Luna delle ore buie e ad Iside, Dea della fecondità, luce del vivere.

«Addio a una parte di me stesso», è scritto alla fine dell’emozionante racconto, quasi a sigillare un’elegia carica di affetto coinvolgente e tenerezza, «che rimane sedimentata nei ricordi: Licia, Patrizia, Isabella, il triangolo delle gatte ed io al centro, il capo branco e il suo harem a quattro zampe. Si è chiuso un periodo, per sempre, e la vita fluisce rapida in una casa che, morta l’ultima superstite della mia piccola famiglia felina, è ormai vuota». Trascorsi in un attimo gli anni condivisi, una fugacità imponderabile permette di avvertire in una misura al limite della brutalità l’ombra del precario incombente sulle cose: ovunque siano, comunque, nel frattempo, precipitano autoritari i giorni destinati a un tacere dilagante. «O, forse, dopo», riflette Mazza, «mi ritroverò a giocare tra le nuvole con Isabella, Licia e Patrizia. “Là-bas”, come dice Baudelaire». Insieme.

E già, il parnassiano Charles Baudelaire. Nei versi dall’eco ininterrotta della poesia I gatti, così procede: «I fervidi innamorati e gli austeri dotti amano ugualmente, / nella loro età matura, i gatti possenti e dolci, orgoglio / della casa, come loro freddolosi e sedentari. / Amici della scienza e della voluttà, ricercano il silenzio e / l’orrore delle tenebre; l’Erebo li avrebbe presi per funebri / corsieri se mai avesse potuto piegare al servaggio la loro fierezza. / Prendono, meditando, i nobili atteggiamenti delle grandi / sfingi allungate in fondo a solitudini, che sembrano / addormirsi in un sogno senza fine: / le loro reni feconde sono piene di magiche scintille e di / frammenti aurei; come sabbia fine scintillano vagamente / le loro pupille mistiche».


Antonio Mazza, classe 1942, giornalista, ha collaborato con “Il Tempo”, “La Gazzetta”, “L’Informazione”, “La Stampa”, occupandosi di cinema e libri, musica classica e rock, mostre d’arte e curiosità romane (ha curato un settore dell’Enciclopedia di Roma dell’editore Franco Maria Ricci). La sua attività culturale prosegue sul sito www.newsartecultura.it. Nel 1997 ha pubblicato Vivere semplice (Castelvecchi editore), giunto alla quarta edizione.


Antonio Mazza

Un mucchietto di peli (una scheggia di luce)

Cassino, Francesco Ciolfi Editore, 2016, pp. 102, € 10,00

 

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