Francesco TOZZA- Un Amleto in più…(“Mal’essere” scritto e diretto da D. Iodice. Al S. Ferdinando, Napoli)

 

Il mestiere del critico



UN AMLETO IN PIU’

Luigi Credendo in "Malessere”, regia Davide Iodice. Foto Pino Miraglia Foto di Pino Miraglia

Che non dispiace affatto- “ Mal’essere” (riscrittura in napoletano dell’ “Amleto” di Shakespeare)

ideazione, drammaturgia e regia di Davide Iodice  con Luigi Credendino (Amleto), Veronica D’Elia (Ofelia), Angela Garofalo (Regina),  Marco Palumbo (Re), Antonio Spiezia- e i rapper attori: Gianni O’Yank De Lisa, Vincenzo Oyoshe Musto, Paolo Sha One Romano, Romano Capatosta Rossi, Peppe Oh Sica.

Teatro San Ferdinando, Napoli

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Uscendo, qualche giorno fa, da una di quelle riprese cinematografiche di spettacoli scespiriani dati sui palcoscenici d’oltralpe, quindi offerti in ghiotto pasto (lingua originale con sottotitoli, ottimi attori, registi più o meno noti) agli appassionati del settore nelle nostre multisale, ci si chiedeva – in un gruppo di amici, certo non nuovi a simili esperienze – il perché della delusione, evidente sui volti di tutti, in vari modi espressa, ma infine unanime nelle conclusioni.

Nello specifico, trattandosi del Riccardo III (dall’Almeida Theatre di Londra con Ralph Fiennes e Vanessa Redgrave fra gli interpreti) la cosa poteva spiegarsi con la “retorica brutale” che, ad esser franchi, affligge i drammi storici del grande Bardo, questo in particolare, come giustamente osservava un suo illustre (e anticonformista) lettore, Auden, il quale – rincarando la dose – in verità parlava ancora di retorica, sebbene questa volta “lirica e romantica”, nei confronti di un conclamato capolavoro come Romeo e Giulietta.

Sarà che non si può più parlare di Shakespeare nostro contemporaneo, come voleva Jan Kott? Non esageriamo!!! Anche se, personalmente e da un bel po’ di tempo, sentiamo a noi più vicini i lavori di Čechov, dove apparentemente non avviene mai niente (non ci sono eroi, positivi o negativi), mancano del tutto i piccoli o i grandi eventi che affastellano spesso i testi scespiriani, ma c’è la tragedia dell’uomo senza qualità, che dopo tanto Novecento… rischia di essere, certo in guise diverse, ancora l’uomo d’oggi.

Forse – più semplicemente (è il caso di dire) – quel che manca a molte opere del grande Bardo (più poeta che drammaturgo, nonostante tutto?), o piuttosto difetta nelle loro traduzioni sceniche, anche (o soprattutto?!) in patria, è il teatro….! Dal momento che si finisce con l’offrirne, nonostante l’ammodernamento di scene e costumi (peraltro spesso inopportuno e in evidente contrasto con la lettera delle parole dette), una semplice lettura (vocalmente e filologicamente) corretta quanto si vuole, ma inefficace teatralmente, appunto. Meglio allora il tradimento, l’infedeltà al testo, che può produrre quella fascinazione cui il normale matrimonio con la pagina scritta, con tutti i crismi mantenuto, più difficilmente procura.

Una premessa, forse un po’ prolissa, la nostra, per dire quanto certe riletture – o, meglio ancora – riscritture diventino assai più funzionali anche a certi classici, i c. d. “intoccabili”, pena il loro abbandono al sonno eterno della pretesa immortalità! Certo il gioco deve valere la candela, o – per così dire, nel nostro caso – le luci della ribalta. Ci sono rivisitazioni e rivisitazioni, riscritture e riscritture, specialmente nel caso di Amleto, che forse ne conta fin troppe, ma questa volta un Amleto in più non è dispiaciuto affatto.

Il lavoro (Mal’essere, l’emblematico titolo) compiuto da Davide Iodice e dal gruppo storico della hip hop napoletana (non sappiamo quanto merito  spetti all’uno e quanto agli altri, ma non è questo il problema), già sul piano della traduzione in dialetto del testo, se non offre addirittura “una nuova ipotesi di lingua” – come dichiarato con eccessivo, anche se comprensibile, entusiasmo da uno dei componenti l’ensemble – è di ragguardevole raffinatezza, concretandosi in una partitura linguisticamente  musicale, prima e indipendentemente dall’intervento musicale in senso stretto, rappresentato da una sorta di basso continuo, semplice ma avvolgente: le discrete sonorità del piano solo, periodicamente accompagnate dall’eco delle percussioni e i riverberi della voce dei coristi, rap tutt’altro che invasivi, se si esclude l’esplosione catartica del finale, forse un po’ sopra tono.

La contaminazione, contrariamente a quanto avviene, ormai troppo spesso, in operazioni del genere, non ha prodotto abnormi quanto sterili slittamenti di senso; il malessere di cui già gronda, di suo, il testo scespiriano, attraverso le parole del suo protagonista, acquista quasi una più tormentata consistenza nel diverso linguaggio adottato: un napoletano feroce, spesso arrabbiato, altre volte appena sussurrato, quasi incomprensibile, con riverberi riecheggianti in sala, senza richiami a storicità gratuite, attualizzazioni oleografiche e inconsulte; uno Shakespeare, insomma, che sembrava nato più che reinventato a Napoli.

Merito, ancora una volta (per tornare alle riflessioni iniziali), oltre che della riscrittura drammaturgica (che meriterebbe d’essere pubblicata, magari con traduzione a fronte!), della scrittura scenica, basata su uno spazio fascinosamente gestito, grazie ad un accurato disegno luci (Angelo Grieco e lo stesso Davide Iodice), con suggestioni visive (degne del vecchio Carrozzone di Firenze, del Teatro delle Ombre – in alcune delle sue storiche realizzazioni, e – per l’uso di maschere e pupazzi, qui dovute a Tiziano Fario – del grande Peter Schumann), nonché una recitazione attenta – coerentemente, anche se forse involontariamente, con la logica dello spettacolo, per il tipo di linguaggio adottato – più ai valori fonici che a quelli semantici della parola.

Davvero, come  l’Amleto di Iodice dice ai suoi attori: ‘O tiatro  po’ tutto, ‘o tiatro è ‘a vocca ‘e Dio.

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