Luigi LOCATELLI- Cannes 2016. Passioni e dedizione a Lesbo (“Mademoiselle” di Park Chan Wook)

 

Cannes 2016




OREA ANNI 30, TRA PASSIONI E DEDIZIONE A LESBO

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Mademoiselle (Agassi – The Handmaiden), un film di Park Chan Wook. Con Kim Min-Hee, Kim Tae-Ri, Ha Jung-woo, Cho Jin-woong. Corea del Sud. Liberamente ispirato al libro Fingersmith di Sarah Waters. In concorso.

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Anni Tenta, nella Corea sotto occupazione giapponea. In un maniero assai sinistro si svolge una partita di seduzione, inganni, avidità. Un arrampicatore sociale vuole sposare un’ereditiera, e per convincerla le affianca una giovane governante di sua fiducia. Ma la partita avrà colpi di scena assai inattesi. Un film quasi perfetto, solo un po’ troppo pedante nella seconda parte. Di smagliate bellezza e confezione, e con dentro tutto il senso del sangue e della violenza di Parl Chan-wook. Scene lesbiche al livello di quelle mitologiche di La vie d’Adèle

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Dopo l’abbastanza infelice escursione hollywodiana di Stoker, Park Cham-wook, signore della vendetta con un’ormai storica trilogia, torna a casa sua, in Corea, e torna ai suoi massimi livelli con un film che è piaciuto a tutti – non ho sentito un mezzo commento negativo – e punta dritto a un qualche premio. Di squisitissima fattura com oggi solo gli orentali, che anche quando non appartengono al barthesiano impero dei segni giapponese ne condividono la cultura dl bello e della perfezione, fino a toccare vette di estenuazione  che a noi europei ricordano certe stagioni di fine ottocento, tra Huysmans e D’Annunzio. Park Chan-wook pensa e dirige un film elaboratissimo nella forma e nella struttura narrativa tenendolo saldamente in pugno, uno di quei noir con continui rovesciameni e twist che in oCcidente si facevano perlopiù in cinema e lettartura popolare tra anni Trenta e Cinquanta.

Con giochi di maschere e identità e responsabilità, con fondi e doppifondi, e inganni, complotti, tradimenti, e mai che si capisca – fino allo scioglimento finale – chi manovri chi, e chi sia la vittima e chi il carnefice. Anche, uno dei molti film che oggi ci arrivano dal Far East che vanno a rivangare la storia del Novecento di quelle parti, un tutti contro tutti con rese dei conti politiche, storiche, geopolitiche. Odi atavici per torti agiti o subiti tra Cina, Corea, Giappone che riaffiorano portando allo scperto quel che nell’immediato dopoguerra era stato prudentemente nascosto. Con quasi sempre il Giappone a fare da villain nell’area. Anche in questo Mademoiselle (il titolo coreano Agassi non c’entra niente con il tennista) il Giappone è paese dominante: siamno difatti bella Corea degli anni Treta sotto occupazione nipponica, un’occupazione dal pugno di ferro. In un bizzarro e tetro castello per metà stile britannico e per metà padiglione giapponese, perché così l’ha vooluto il proprietario grande ammiratore delle due culture, vive un vcchio assai ricco, collezionista di libri che si riveleranno di una speie particolare.

Con lui abita la giovane, algida e ancora vergine nipote sofferente di nervi come un’isterica freudiana. Sicché uno scalatore sociale senza scrupoli che vorrebbe sposarla per mettere le mani sulla sua ricca eredità le piazzza accanto una giovane governante coreana di sua fiducia perché convinca la padrona ad acconsentire al matrimonio. E le manovre messe in atto nella sinistra casa (diciamo che sembra quella di Rebecca la prima moglie) sembrano procedere rapidamente verso l’obiettivo perseguito dai due complici. Superano la prevedibile opposizione del vecchio zio, pure lui desiderosi di sposare la nipote, si arriva alle nozze tra l’ereditiera e lo scalatrore. Ma non è che il primo atto di un film che ne aggiunge altri due. Il secondo racconta la stesa storia, ma da un altro punto di vista, con un’altra verità e rovesciamenti clamorosi. Il terso porta a una conclusione forse un po’ telefonata, ma che a sua volta rovescia di nuovo il tavolo da gioco.

Su questa robusta traccia noir (dovuta a sarah Waters, al cui libro Fingersmith Mademoiselle è ispirato) Park Chan-Wook inserisce le sue atmosfere malate e perverse, il suo senso del sange e della violenza coma una delle belle arti. Intrecciando parcchio e assai orientalmente eros e thanatos, godimento e sofferenza, piacere e vergogna, in raffinatissime cerimonie che noi rubrichiamo alle voci vokgari S/M o fetish ma che lì sembrano intercettare un misterioso disegno cosmico di redenzione, di retribuzione, di condivisione della colpa, di risarcimento. Il regista non sbaglia niente, niontando imoeccabilmente la sua caerimonia segreta, e la parte milgiore, e pià personale, è forse anhe la più perversa, la lezione della signora del vizio ai suoi ammiratori e amanti.

C’è molto lsbismo, con un legame serva-padrona che per intesitòà e passione delle scene erotiche fa pensare allu lunghe sedute a letto delle protagoniste di La vie d’Adèle di Kéchiche. Ubn lesbiso grazie a Dio per niente ideologico e solo, puramente, desiderante. Un film suiqisti, perverso, ipnotico. Perfetto. Anzi, quasi, perfetto. Perché se c’è un limite è quello di una certa pedanteria. Non c’è la minima ellisse, ogni dettaglio, soprattutto nella parte seconda, ci viene spiegato e rispiegato, allungando parecchio i tempi. Se solo avesse tagliato un quarto d’ora Park Chan-wook avrebbe realizzato un capolavoro.

*Nuovocinemalocatelli.com    -che ringraziamo

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