Francesco TOZZA- Ma la Storia di Pietro…(“Operetta burlesca” di E. Dante al Bellini, Napoli)

 

 

Il mestiere del critico

 

 

MA LA STORIA DI PIETRO NON E’ UNO SPOGLIARELLO DELL’ANIMA

burlesca

“Operetta Burlesca” di Emma Dante

Con Viola Carinci, Roberto Galbo, Francesco Guida, Carmine Maringola    Testo, regia, scene e costumi di Emma Dante

Di scena al Teatro Bellini di Napoli

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Forse la cosa migliore, o comunque la più emblematica, di questa Operetta Burlesca, l’ultimo lavoro teatrale di Emma Dante (e l’aggettivo è quanto mai opportuno, per gli attraversamenti fra i vari linguaggi dell’operare artistico che caratterizzano da qualche tempo l’autrice), é rappresentato dalle note di regia, nelle quali efficacemente si espone la storia che andremo a vedere: storia di Pietro, ragazzo della provincia napoletana, che avendo scoperto di vivere in un “corpo sbagliato”, non ci prova neanche a scappare dal paese e dai genitori che non lo comprendono, e sostanzialmente vive nella “morsa” della sua cameretta, con indosso i vestiti da donna e le scarpe dal tacco altissimo comprati in via Duomo, a Napoli, sublimando nel ballo quella diversità che avrebbe bisogno di ben altri spazi, non solo fisici, per esprimersi pienamente. Pietro, dunque, “cresce ballando da solo”. “Ho scritto questa storia – aggiunge la Dante – perché ho conosciuto tanti Pietro, (…) perché spero che sulle unioni omosessuali l’Italia colmi il ritardo con l’Europa (…), perché detesto la repressione del vero desiderio, del talento, e non vorrei tutto questo disincanto”.

Riflessioni – ovviamente – del tutto condivisibili e ormai, in verità, abbastanza condivise, in quel di Napoli poi…: città aperta per eccellenza, dove il problema è da tempo esplicitamente vissuto, magari nel segno della trasgressione, comunque nei suoi risvolti esistenziali (forse più inquietanti di quelli puramente sociologici e normativi), anche, anzi direi soprattutto, all’interno dei ceti più modesti, riempiendo peraltro pagine e pagine di una letteratura, drammatica e non (da Patroni Griffi a Ruccello e Moscato), forse senza le ossessive mitizzazioni pasoliniane e con una vena poetica più accattivante, che tuttavia ormai, negli epigoni o comunque nelle ennesime riproposte, fa registrare uno stanco manierismo. Ma tornando ad Emma Dante e alle sue note di regia, se è sottoscrivibile il loro contenuto politico ed emozionale (sebbene la realtà cui si fa riferimento sia assai più complessa e difficilmente inquadrabile in fattispecie così generiche e ormai consumate), bisogna vedere fino a che punto quelle riflessioni si sono tradotte in efficace e coinvolgente linguaggio teatrale, perché – com’è noto – alle dichiarazioni d’intenti non si deve mai credere completamente, e in ogni caso non sono quelle che interessano sul palcoscenico.

Cos’è, insomma, l’operetta burlesca di Emma? “E’ un varietà – ci vien detto – ma anche uno spogliarello dell’anima”. Intrigante e colorita, senza dubbio, quest’ultima espressione, qui usata per indicare quella che, tuttavia, c’è parsa solo una noiosa confessione del protagonista (bravo al solito Maringola, ma banale e troppo lungo il testo), interrotta da lacerti di dialogo con la figura genitoriale, materna e paterna al tempo stesso (interpretata, giustamente a questo punto, da un unico attore, Francesco Guida); il tutto, fra giochi di luce (le luci del varietà…., qui non particolarmente esaltanti), manichini sul fondo scena, con piume e paillettes via via indossate dal protagonista o dai due danzatori (Viola Carinci e Roberto Galbo), prevedibile specchio proiettivo, entrambi, nei loro goffi movimenti coreografici, rispettivamente della desiderata identità femminile e del fantasmatico eros maschile, forse solo a tratti goduto.

E il burlesque, cui un po’ presuntuosamente si allude nel titolo!? Più che un genere – si sa – esso è uno stile, un principio di estetica di composizione, che consiste nel capovolgere i segni dell’universo rappresentato, nel trattare nobilmente il triviale e trivialmente il nobile, secondo la nota proposta barocca del mondo alla rovescia; è un’arte raffinata, che presuppone un modo ricercato e prezioso di esprimersi, un esercizio di stile tutt’altro che popolare e ingenuamente spontaneo, un equilibrato senso della contaminazione (oggi spesso frainteso o perduto), un’attitudine a deformare, in un gioco di scrittura scenica sregolato e arbitrario. Nulla di tutto questo ci è sembrato scorgere nei 55 minuti dello spettacolo in questione, mentre invece era ampiamente presente – pur non così definito – in precedenti lavori dell’autrice, soprattutto (ma non solo) in quella Trilogia della famiglia che l’ha resa giustamente famosa, strappandola ad un’insularità che non poteva certo esprimere, e tanto meno imprigionare, tutto il suo talento, anche se in buona parte lo alimentava, all’origine almeno, e in certe sue premesse del fare teatro (non condividiamo, tuttavia, il suo inserimento in quella specie di “foto di gruppo di artisti siciliani”, qualche anno fa ambiguamente scattata in un celebre libro sulla sua “lingua teatrale”).

Qualcosa non funziona più tanto nelle ultime cose di Emma: spiace dirlo (ma lo si dice con non mutato affetto) da parte di chi ha seguito con estremo interesse, a volte con la felicità della scoperta, tutti (o quasi tutti) i suoi spettacoli, se non dai più lontani esordi, certamente dalla stupenda, appena citata Trilogia, fino (ed oltre) alla prova narrativa (Via Castellana Bandiera), divenuta subito dopo occasione cinematografica (magari non del tutto convincente, o comunque meglio riuscita in certi suoi momenti sostanzialmente teatrali), poi anche nelle regie liriche (splendida la Carmen scaligera, non altrettanto, forse, la recente Cenerentola all’Opera di Roma, nonostante la felice intuizione dei tratti marionettistici consegnati ai personaggi rossiniani).

Indubbiamente Emma lavora molto, gli incarichi sono molteplici, forse troppi: il successo logora chi ce l’ha? Il rischio è la caduta nella sconcertante banalità dell’ultimo lavoro, un modesto varietà senza peraltro il poetico squallore dell’avanspettacolo; che comunque non sembra proprio appartenere alle corde della sua teatralità. Alla quale, invece, appartiene (o apparteneva?) la straordinaria parodia del sacro, il realismo estremizzato che si fa espressionismo, la dialettica fra i lunghi silenzi e le rare parole, sussurrate o gridate in una efficace polifonia fra dialetto e lingua italiana, un senso di impotenza feroce che è eredità della sua terra ma anche autoritratto in nero di una società che si scopre senza futuro, fra dissociazione, malattia, ma anche gioco dionisiaco con la morte, memoria luttosa di un aldilà, più metafisico che storico. Il lutto si addice a questa novella Elettra, che ha seppellito drammaticamente i suoi avi: una dura e problematica lente antropologica è (era?) la strada scomoda del suo teatro.

E’ bene chiarire che non si sta qui impetrando la comoda quanto sterile ripetizione di consolidate esperienze, cioé l’eterno ritorno dell’identico! Non vorremmo, tuttavia, che un talento, indubbiamente vulcanico, approdando alle falde del Vesuvio, dove certe tematiche e le loro forme espressive sono da tempo di casa, subisse la sorte del vulcano spento, dimenticando del tutto le ben più consistenti origini etnee. Sebbene anche l’Etna, in continua attività, si concede pause di eruzione

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