Sauro BORELLI- Francesco, nostro contemporaneo (“Primo Piano sull’Autore”)


In occasione della recente rassegna “Primo Piano sull’autore” di Assisi pubblichiamo il contributo al catalogo di Sauro Borelli

 

 

FRANCESCO, NOSTRO CONTEMPORANEO

Liliana Cavani

 

 

Nelle edizioni cinematografiche di Liliana Cavani

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Ripensare il cinema di Liliana Cavani induce di immediato riflesso evocare al contempo la sua fisionomia cordiale, la sua indole riservata, il suo porgersi quieto, misurato. In una non dimenticata intervista (Repubblica 9/12/2012), l’attento Antonio Gnoli, infatti, metteva sapientemente in rilievo: “tra tutti i registi italiani Liliana Cavani è la più appartata. Non presenzia, non rilascia, quasi mai, dichiarazioni e quando proprio è incalzata dagli eventi dice, con cortesia, di non avere nulla da commentare. C’è il cinema, quello che ho girato, che parla al suo posto”.

Il cinema fatto da lei, appunto, si mostra subito una cosa a sé stante. Ricorda, ad esempio, Italo Moscati, suo assiduo sceneggiatore e complice per molte realizzazioni preziose: “… tutta la mitica Roma cinematografica non è mai esistita… il cinema di Liliana non nasce, non ha radice in quel crogiuolo romano dove sono state prodotte o solo pensate cose molto geniali… è un cinema che viene da lontano, è un cinema che viene soprattutto da lei, dalle sue scelte, dalla sua sensibilità”.

Inoltre, il cinema della Cavani si dimostra un cinema che non offre certezze e non offre acquisizioni sicure ma propone piuttosto degli interrogativi. Liliana Cavani medesima ha detto bene: “il mio cinema è una ricerca di orientamento, una sorta di viatico che ognuno di noi si potrebbe portare appresso anche come condotta di vita, non solo per fare cinema, semplicemente per stare al mondo”.

L’apprendistato di questa autrice nata e cresciuta alla disciplina dell’immagine, con importanti reportage, inchieste sulle rete Rai, culmina significativamente con una “opera prima” che fin dal suo esordio destò grande e preciso interesse dall’icastico titolo Francesco (interprete uno spigoloso attore svedese già eroe negativo, Lou Castel, dei Pugni in tasca di Bellocchio).

Tale stesso film ebbe una importanza specifica proprio perché costituì un momento di svolta, un momento di apertura verso un tipo di cinema civile, filosofico, teso verso la ricerca, la riflessione morale.

In effetti, la figura di San Francesco (anzi la figura di Francesco senza “santo” poiché è necessaria questa immagine di Francesco in modo laico, in modo spoglio da attribuzioni religiose o misticheggianti) affiora qui nel contesto di una rivisitazione razionale come momento di rimeditazione sia della figura dello stesso Francesco, del suo tempo, sia delle stratificazioni che un tale personaggio in quell’epoca ebbero poi attraverso i secoli (fino alla coincidenza tutta attuale di un papa un po’ eterodosso di nome Francesco).

A dirla con più agio, questo primo Francesco ebbe l’indubbio merito di “liberare” tale figura carismatica da ogni incrostazione posticcia, di recuperare allo stato nativo la fisionomia, l’opera, i giorni di Francesco. Se negli anni Sessanta il primo Francesco risalta per queste componenti, la più aggiornata, omonima, prova registica della Cavani, appunto Francesco, con Micael Rourke, toccò un altro approdo: quello di non ripercorrere le stesse tracce narrative, ma di reinventare ex novo il personaggio raccordato alla dinamica esistenziale, culturale che noi stessi oggi viviamo. Francesco, dunque, tramutato insospettatamente in nostro tormentato contemporaneo con quella sua fisionomia angosciata non tanto dalla propria condizione, dalla propria sorte, dalle proprie paure, ma soprattutto dal rapporto di crisi, di rottura con il mondo circostante. Ecco la autentica “modernità” della seconda versione della Cavani, del suo Francesco.

Anche nel prosieguo della carriera della cineasta carpigiana si succedono tante altre prove cinematografiche pure esse connotate da stimmate ricorrenti quali l’ambiguità, la libertà disinibita, e, ancora e sempre, la ricerca di un orientamento: I cannibali, ovvero l’inquietudine, i drammi latenti degli anni Sessanta stilizzati con una scrittura tutta originale; Milarepa, dislocato in luoghi e momenti esotici per prospettare slanci ora mitologici  ora trascendenti; e, ancora, Al di là del bene e del male, incursione anche sfarzosa tra i fantasmi letterari di Lou Von Salomè, Friedrich Nietzsche e Paul Rèe in amore e in guerra tra desiderio e potere divaganti dagli abbandoni sentimentali a disincanti amarissimi. Sono tutti film, quelli ora menzionati, volti più a sconcertare che a suscitare consensi, quindi a rendere problematica la riflessione, la considerazione critica.

Resta da dire degli ulteriori cimenti della Cavani – film incentrati su personaggi sempre problematici (in primo luogo Galileo) o vagamente ispirati a casi estremi, altamente drammatici (Il portiere di notte, L’ospite, La pelle, da Curzio Malaparte, Interno berlinese, Oltre la porta, Il gioco di Ripley) – , ove la cineasta sceglie, in ogni momento creativo, tematiche realistiche, del tutto tempestive come motivo sociale e politico, ma che poi nella fase della scrittura si colorano di trasparenze simboliche, metafisiche.

Nell’intervista di Gnoli già menzionata, la Cavani dice di sé in un trasalimento di casto amor proprio: “non so definirmi, però mi sento ancora viva e lontana dai marmi dell’accademia”. Una asserzione, più che giusta, sacrosanta.

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