CINZIA BALDAZZI- Rosso e nero: l’Eros e Thanatos di Lina Sastri (Note su “La Lupa” di scena al Teatro Quirino)

 

Il mestiere del critico

 

 

ROSSO E NERO

l’Eros e Thanatos di Lina Sastri.  Note su  “La Lupa”, da G. Verga,  diretta da Guglielmo Ferro, di scena al Teatro Quirino di Roma

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Sull’ampia scena del Teatro Quirino, a Roma, lo spazio d’azione dei personaggi de La lupa di Giovanni Verga, nell’adattamento di Micaela Miano, è ridotto a pochi metri di profondità, composto da un pavimento scuro, perfettamente levigato, su cui sono adagiati alcuni parallelepipedi, con un gradino a scendere verso il proscenio grigio, lucido e regolare. Perché l’ampio spazio del palcoscenico è stato così intenzionalmente ridotto? Perché è occupato, da destra a sinistra, da una fitta coltre di messi gialle e secche. Sopra di esse, all’orizzonte, si ricongiunge un cielo convesso dove un cerchio luminoso è alternativamente sole e luna. Dinanzi ai nostri occhi siede zia Filomena (Clelia Piscitello), pronta a pagare i braccianti che stanno per rientrare. Dalle stoppie alte emergeranno, per tutta la durata del primo atto, chi di qua chi di là, tutti i personaggi, quasi venendo fuori dal profondo della terra, portando ceste sulle spalle con il lavoro della giornata.

L’evocazione è forte e riporta alla drammatica sequenza del cimitero delle bigonce nel film Sciopero di Sergej Ejzenstejn del 1921, dove, in una scena ridotta, utopicamente associabile a quella del Quirino, dal terreno spuntano, quasi disseppelliti, coloro che si uniranno alle forze della reazione: espressioni di unità epifaniche di morte prodotte dalla terra stessa sotto la quale si sono rifugiati. Anche nel testo verghiano, messo in scena dal regista Guglielmo Ferro e costruito con la scenografia di Françoise Raybaud, tutti i partecipanti alla vicenda usciranno dal fondo del terreno, dove pare si fossero prima nascosti, chissà, per procurarsi il mangiare, i mezzi di vita e di sussistenza per sé e per i familiari: tuttavia saranno spettatori o complici, in realtà, della fine della protagonista – ad opera, in diretta, del suo assassinio – vale a dire della tormentata Lupa, suocera incestuosa, vestita di nero con grembiule, scialle o collana e orecchini rossi; così come, nell’intera rappresentazione, in chiave speculare si presenterà il genero-amante con un nastro vermiglio annodato alla camicia bianca indossata su pantaloni anch’essi neri. È il rosso, segnale senz’altro del colore della passione, ma anche del sangue, della morte, identificata con la luce scura, con il nero delle tenebre.

Lina Sastri, da quando appare la prima volta dinanzi a noi, si mostra posseduta, in modo penoso, dal fuoco della passione nutrito per il futuro genero Nanni Lasca (Giuseppe Zeno). Avanza in scena già gravemente segnata, ferita dalle tracce imminenti di una morte a venire annunciata dal rosso accoppiato al nero: come nei complementari Eros e Thanatos studiati da Sigmund Freud nel saggio Al di là del principio del piacere (1920), dove il padre della psicoanalisi, illustrando le pulsioni di vita e di morte, si richiamava ad Empedocle di Agrigento. Vissuto nel V secolo a.C. nell’allora Akragas, il filosofo, da parte sua, concepiva una sorta di dissidio cosmico tra i princìpi, tra le forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia): attraverso uno spazio di millenni, la novella originaria di Verga, pubblicata nel 1880 nella raccolta Vita nei campi, ne trasmette, in qualche misura ne evoca, le suggestioni.

In un tale contesto di scuola verista, la gnà Pina, Nanni Lasca e la figlia Mara (Eleonora Tiberia) si lasciano trasportare da una simile forza della terra, con le sue origini di amore e amicizia, odio e sopraffazione, come parti stesse del ciclo dialettico della vita umana e della natura. Il racconto breve riscosse molto successo al punto che l’autore, pressato dagli impresari, ne ricavò l’omonima versione teatrale in un atto, rappresentato la prima volta al Teatro Gerbino di Torino il 26 gennaio 1896. Il dramma, peraltro, ispirò in seguito due film: di Alberto Lattuada nel 1953 con Kerima, nel 1996 di Gabriele Lavia con Monica Guerritore.



Nel passaggio dalle pagine al palcoscenico, il triangolo amoroso al centro della storia – anche nell’adattamento della Miano – sembra allontanarsi dalla concezione “dialettica” totalitaria di Empedocle avvicinandosi a quella tipicamente freudiana: in essa si sostiene la presenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, relativo a una necessità intrinseca di morire, attiva – sia pure, ovviamente, in diversa misura e importanza – in ogni essere vivente. Gli esseri umani, in qualità di organismi, accettando tale ipotesi seguirebbero l’impulso, lo slancio, a rientrare a far parte di uno stato pre-organico, inanimato. Ma – e in tale topos scattano la trama e l’intreccio del dramma de La Lupa – vogliono farlo in un modo del tutto “personale” e auto-causato. Nel testo del ’20 Freud sostiene che “nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere, la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere”. Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte “demoniaca”.

Ed ecco Lina Sastri, nello stesso tempo scatenata e abbattuta, distrutta e infaticabile, ai piedi delle afose campagne dell’Etna, aggirarsi senza sosta, dapprima tentando di sedurre l’amato, poi offrendogli la figlia in moglie, ottenendone in cambio – almeno questo è il suo desiderio – la disponibilità sessuale. La coppia abiterà, comunque, nell’abitazione di Pina, per facilitare la tresca da lei programmata. Poco dopo l’inizio dello spettacolo vediamo, sull’aja, tutti i personaggi della vicenda festosamente impegnati in balli campestri, mentre le lunghe gonne nere delle ragazze vanno su e giù seguendo i tempi di una danza ben ritmata all’interno di coreografia, musica e canto – in primis con la voce modulata della Sastri – capaci di entrare solidamente nel cuore del racconto in atto: e, a consolidare l’utilità di una sua interpretazione in chiave psicoanalitica di “Eros e Thanatos” intrecciati nella psiche umana, pare che la vicenda si ispirasse a un episodio di cronaca di quei tempi.

Non più giovane, rimasta vedova, con il nero del lutto ma anche il rosso, Pina – a differenza del racconto – appare inserita nella comunità, al cui interno è una lavorante, sicuramente la più anziana ma, in ogni caso, in grado di ragionare e discutere animatamente con gli altri. Quando decidere di coinvolgere la figlia Mara, agli inizi la giovane si ribella alla proposta ma, forse in quanto fortemente condizionata, l’accetterà. E’ sera. Nanni si offre di far da guardiano notturno al raccolto, alla “roba”, e si accovaccia sulla nuda terra per riposare: la Lupa riesce a sedurlo, mentre lo stridìo della civetta fa da lugubre segno premonitore.

Alla riapertura del sipario per il secondo atto, sono trascorsi ormai alcuni anni. Nanni sta terminando di arredare l’esterno della casa con alcune povere lanterne multicolori, in occasione della festa tradizionale del paese dalla cui piazza principale è in procinto di incamminarsi la processione rituale. La coppia ha avuto un bambino: in tale quadro di ordine sociale e affettivo, privo di elementi perturbanti, almeno evidenti, riappare la Lupa, la quale, lasciando alla figlia e al marito la propria casa, si era ritirata in campagna. La tendenza autodistruttiva che la domina, la coazione a ripetere (anche nel caso di azioni dolorose e causa di sicura sofferenza), è il meccanismo psichico al quale la donna non riesce a rispondere ignorandola, avvicinandosi – di conseguenza -attraverso l’amore, sempre più alla sciagura totale, alla fine inevitabile. Lo scontro da lei “preparato” si verifica grave e drammatico: tra madre e figlia, tra Pina e Nanni, e anche tra loro e i compaesani, i quali cominciano a gridare allo scandalo, tanto da far giungere le urla persino in piazza.

Nanni assume un comportamento violento, colpisce Mara, si rivolta anche verso le donne e gli uomini presenti, ha gesti e parole convulsi, istintivi e ribelli. La donna sente avvicinarsi la realizzazione della sua libido, alleata a un indice di scopo altamente distruttivo, anche autodistruttivo, e cioè quell’essenziale spinta o pulsione di morte, gestita “con”, “contro” o “attraverso” la passione amorosa, riferendosi al bisogno intrinseco di morire custodito nel profondo di ogni essere vivente. Gli organismi, secondo quest’idea, tendono a tornare a uno stato pre-vivente, statico: ma vogliono farlo in un modo personale, personalissimo.

Rimasta di nuovo sola con Nanni, gnà Pina gli si offre, ostentando il suo corpo con un estremo gesto di lussuria. Ed ecco: quel manico di legno, da tempo poggiato alla panca, di cui non abbiamo finora intravisto l’estremità, ora viene scoperto. Nanni lo impugna e la lama della scure, chiara, quasi luminosa, si abbatte su di lei. Alla fine, la Lupa riesce in modo personale, irriproducibile, dopo un lungo cammino e una sequela di tentativi a ripetizione, a tornare allo stato pre-organico, inanimato, al quale mirava, dopo essere rimasta sola, vittima di una amore non condivisibile, nelle pianure assolate intorno dell’Etna, dove lei e la sua gente hanno sempre vissuto.

La luce si spegne, il telo si chiude, senza un moto di giustificazione per la vittima né per l’assassino. È la vita, non solo quella dei campi, della poetica verista di Giovanni Verga.

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La Lupa di Giovanni Verga  con Lina Sastri, Giuseppe Zeno, Clelia Piscitello, Eleonora Tiberia

Adattamento di Micaela Miano-   scene e costumi Françoise Raybaud –   musiche Massimiliano Pace –  arrangiamenti musicali di Franco Battiato  – coreografia  curata da Giovanna Velardi

Regia Guglielmo Ferro

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