Francesco TOZZA- Confronti crudeli, ma necessari (Teatro a Napoli- spettacoli di F. Branciaroli e F. Saponaro)


Il mestiere del critico

 

 

CONFRONTI INGIUSTI, FORSE CRUDELI

Ma a volte necessari- Enrico IV di L. Pirandello   Regia e interpretazione di Franco Branciaroli  Teatro Bellini, Napoli

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In memoria di una signora amica di G. Patroni Griffi   Regia di Francesco Saponaro. Con Mascia Musy, Fulvia Carotenuto,  Edoardo Sorgente, Eduardo Scarpetta, Tonino Taiuti. Teatro Mercadante, Napoli (foto di scena, in alto, di Marco Ghidelli)

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Abbiamo atteso la fine delle repliche, sulle scene napoletane, di due spettacoli che hanno offerto  due significative testimonianze della drammaturgia italiana del secolo scorso (a nostro avviso in realizzazioni assai modeste, anche se a livelli diversi), perché non ci piace infierire, in corso d’opera…, contro chi in ogni caso lavora nel suo specifico e merita, per questo, rispetto, comunque considerazione, non però silenzio sui risultati raggiunti, e positivamente accettati solo per piatto conformismo critico.

Il primo spettacolo cui alludiamo è l’Enrico IV di Pirandello, portato nei giorni scorsi sul palcoscenico del Bellini (ma lo spettacolo è in tournée già da due anni) da una compagnia che sembrava formata da filodrammatici (senza offesa… per quest’ultima categoria, che ormai – come dimostrano talune rassegne nazionali di teatro amatoriale – sanno offrire anche più che decorose rappresentazioni), guidati da un attore, certo di sicuro talento, qui al suo primo incontro con il grande Siciliano, e per giunta anche nel ruolo di regista, cioè Franco Branciaroli. Del quale abbiamo seguito, e in alcuni casi vivamente apprezzato, molti degli spettacoli in cui ha recitato, magari con mattatori come lui (lo storico Faust di Marlowe, di cui – a torto o ragione – molti ricordano soltanto il celebre e provocatorio bacio ricevuto in scena dal grande Carmelo), o con registi della statura di Chérau, Trionfo, Ronconi, per non dire della ragguardevole stagione dei grandi drammi di Giovanni Testori.

Ma con Pirandello no; non ci siamo proprio (a Napoli si direbbe: non è cosa sua!). Con l’Enrico IV poi…., testo fra i più complessi e intriganti del suo Autore, qui affrontato con inspiegabile leggerezza, si direbbe quasi con sciatteria, più o meno voluta, senza una consistente idea registica di partenza, forse – come vedremo – anche intuita, ma nella evidente incapacità di realizzarla, peraltro credendo poco o per niente alla tormentata e attualissima drammaticità del testo (allora perché sceglierlo, per un  debutto pirandelliano che non si doveva sottovalutare, dati anche i più che illustri precedenti interpretativi, sui quali, con sterile quando inopportuno spirito dissacratorio, ci si permette in qualche caso anche una ottusa ironia!).

I paragoni – lo abbiamo detto più volte e ripetuto anche di recente – sono ingenerosi, a volte crudeli e  ingiusti, comunque nocivi, almeno per chi è costretto a subirli, magari perché provengono da un passato che pretende imporsi come modello perfetto, mentre – piuttosto – è solo la memoria, con il suo melange di ingannevoli ricostruzioni e facili mitografie, che lo rende così irraggiungibile. E tuttavia, non è nemmeno giusto dare sempre ragione al presente, alla c. d. attualità (e quindi alla conseguente attualizzazione….); prendersela con chi il passato vuole solo e alla men peggio rievocarlo, per utili, propositivi confronti, senza operare gerarchizzazioni di sorta, ma nemmeno supinamente accettare arroganti e presuntuose prese di distanza da ciò, e da chi, forse nemmeno si conosce.

Abbiamo visto, in un passato più o meno remoto (quindi per motivi se non altro anagrafici….. ma, ovviamente, anche per interesse specifico alla materia!), un po’ tutti gli interpreti, più o meno grandi, dell’Enrico IV, che non è il caso qui di citare, alcuni dei quali, tuttavia, andrebbero assolutamente ricordati (almeno Randone, Carraro, Valli); ci manca solo, per i soliti motivi anagrafici (non siamo ancora dei dinosauri….!) il grande Ruggero Ruggeri, al quale Pirandello affidò, nel 1921, il debutto del suo dramma. Del grande attore, si sa benissimo fra i maggiori del ‘900, abbiamo tuttavia ascoltato, tempo fa, preziose testimonianze registrate, idonee comunque a farci riscontrare i grandi pregi, soprattutto la grande musicalità, di quella recitazione, per fortuna non completamente andata perduta, dal momento che l’ha come recuperata, facendola propria (lo abbiamo detto in altre circostanze), Carmelo Bene, ovviamente in ben altro contesto.

Ci ha dato quindi fastidio, nello spettacolo di Branciaroli (chiediamo venia per la suscettibilità critica!), l’imitazione ironica del grande Ruggeri (cme appena detto, in versione riveduta dal non meno grande Carmelo), nell’affrontare il registro folle della doppia recitazione offerta nel caratterizzare il personaggio: cioè quel registro che lo mostra ancora pazzo dopo la fatale caduta da cavallo, nonché alla presenza degli illustri visitatori che vengono per riportarlo – e lo riportano, suo malgrado – a quella realtà vera alla quale comunque lui segretamente aveva già fatto ritorno – e avrebbe poi continuato a farlo – per definitivizzare una grottesca, ma ormai drammaticamente lucida, messa in scena.

E’ noto – tanto per rammentare al lettore il tema dominante del bellissimo ma non facile testo – che il suo protagonista, un nobiluomo senza nome, già confinato, quando era ancora sano di mente, in una specie d’esilio, da una società di ottusi e infingardi aristocratici, s’era poi fissato, per il colpo subito alla nuca, nell’immagine medievale dell’imperatore di Germania, portando quindi all’estremo il sottile confine fra finzione e realtà, nato per gioco in un giorno di carnevale. Quando gli altri pretendono che lui ritorni, ormai evidentemente guarito, alla c. d. normalità, alla loro vita insomma (ma quale? non essendo essa che un girotondo di maschere), egli li prende ferocemente sul serio, esigendo che i vent’anni intanto trascorsi nella più greve solitudine dell’anima, vengano cassati d’un sol tratto. Non poté avere, allora, la donna amata, strappatagli con un quasi mortale inganno; vuol prendersi ora la figlia, che gli ripete l’immagine di lei. Onde la tragedia, il colpo di spada finale a colui che si oppone al folle, provocatorio progetto, quindi il riprecipitare nell’inferno della solitudine che si rinchiude su di lui, ormai per sempre.

L’idea di sciogliere l’identità del personaggio in due diversi (si diceva) registri di recitazione, con tonalità doppiamente grottesche, alla Ruggeri appunto (sul versante della finzione, non solo del caso specifico, ma di tanta tradizione attorica mattatoriale), e invece toni più semplici, quasi asettici, deretoricizzati, nei momenti di maggiore presa sulla realtà (quale poi, in Pirandello?), poteva comunque essere condivisibile, anche se non proprio originale. E tuttavia l’inquietante ambiguità del testo (forse non sufficientemente approfondito!), quindi la difficile separazione dei momenti lucidi da quelli folli, nella vivace dialettica del personaggio, sono piuttosto sottili, non determinabili una volta per tutte, al punto da rendere inefficace, e in parte gratuita, la scelta operata dal regista-attore.

A parte questa, si registrano, nel corso dei due tempi dello spettacolo, altre incongruenze o banali interventi di regia: l’arrivo dei visitatori su di un buffo carrello, di memoria ronconiana (omaggio a certo macchinismo del maestro?); alcune inutili capriole verso invisibili botole, effettuate dagli aiutanti di Enrico, accompagnate da ancora più inutili effetti sonori; la caratterizzazione caricata di un po’ tutti i personaggi, con attualizzazioni dei relativi costumi inutilmente esasperate, fra cavalli a dondolo in formato gigante o su stendardi dipinti; lo psichiatra, venuto con gli altri ospiti per curare o smascherare la sospetta pazzia, che si mette a cucire i vestiti di scena perché, pirandellianamente, il costume è l’involucro delle identità che lui manipola nell’esercizio della sua professione! Tutti interventi – questi e altri – di una regia debole, per non dire banale, carica di ingombranti simboli, su un palcoscenico inutilmente affollato e rumoroso (spiace per Margherita Palli, altre volte autrice di pregevoli scenografie), con effetto distraente da una recitazione peraltro assai di rado coinvolgente, nemmeno nelle celebri battute a più alto timbro tragico del protagonista, sul cui capo l’improbabile psichiatra pone, alla fine, la corona d’imperatore: ennesimo, e forse involontario, sberleffo alla tragedia della follia simulata, ma anche alla finzione permanente cui l’attore – e non solo lui – sembra fatalmente condannato.  Abbiamo apprezzato, alla fine dello spettacolo, qualche fischio proveniente dal loggione, dove albergano ancora i più coraggiosi o i meno timidi spettatori, in un’epoca in cui si applaude tutto e sempre, e non si fischia mai! Segno, almeno questo, di una residua vitalità del teatro!

Nessun fischio, invece, ma applausi, per la verità non molto convinti, alla fine di un altro spettacolo, sempre a Napoli, questa volta al Mercadante, dove si è proposta la vecchia ma sempre bella commedia di Patroni Griffi, In memoria di una signora amica. Inevitabile, anche qui, il paragone, sempre per gli spettatori della nostra generazione, con la messa in scena, nella ormai lontana stagione 1963 – ’64, firmata da Francesco Rosi, interprete la grande Lilla Brignone (che superbamente interpretò le inquietudini della protagonista), avendo accanto una strepitosa Pupella Maggio (nel ruolo di Gennara, una delle signore amiche) e nel ruolo di Alfredo, l’amabile confidente, un giovane di sicuro avvenire, l’allora quasi esordiente Giancarlo Giannini. Al di là del forse impossibile paragone, la versione offerta dallo Stabile napoletano riusciva a reggere la sfida del palcoscenico, dove tuttavia – nonostante il leggero adattamento operato dal regista, Francesco Saponaro – il lavoro è apparso piuttosto vecchio, comunque datato. Mascia Musy ha fatto del suo meglio; lo stesso può dirsi degli altri interpreti, non dei più giovani però, ancora piuttosto acerbi. E tuttavia è stato impossibile cancellare il ricordo, per cui lo spettacolo si è risolto in un omaggio indiretto, non voluto, in memoria di una signora amata!

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