Francesco TOZZA- Mittelfest 2015. Archeologia di un mondo perduto (Cividale del Friuli)

 

 

Mittelfest 2015

ARCHEOLOGIA DI UN MONDO PERDUTO

Per un’etica dell’estetico  – A Cividale del Friuli

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Mittelfest è bello: con tutte le sue incertezze, le contraddizioni, gli avvicendamenti non sempre chiari fra i timonieri che nel corso degli anni ne hanno guidato le sorti, talvolta a conduzione unica, altre volte a responsabilità limitata (nella molteplicità dei linguaggi che ne caratterizzavano l’offerta), il festival – che da più di vent’anni si svolge a Cividale del Friuli (e immediati dintorni) –  è ancora bello; forse per il contesto territoriale che lo ospita, in un felice matrimonio fra natura e storia, quest’ultima ampiamente testimoniata dalla unicità dei suoi reperti artistici; ma più probabilmente per l’idea-base, o comunque l’interessante progetto, che è alle sue origini: creare, in una indubbia zona di confine, un punto d’incontro fra esperienze, più o meno recenti, di quella cultura, nelle sue variegate e seducenti forme artistiche, a nazionalià multiple e per molti versi storicamente contigue, nota come cultura mitteleuropea. Certo, molte cose sono cambiate da quel lontano 1991, data di nascita del festival: allora, caduto da poco il muro di Berlino, era tangibile, pur se non privo di ingenuità, il fervore per una nascente Nuova Europa; lungimirante, quindi, ma seriamente auspicabile – e  auspicata – la scommessa di far nascere in un luogo come Cividale, non privo di tenaci ma ormai obsoleti campanilismi, la possibilità permanente di un dialogo più intenso e creativo fra le voci dei diversi ambiti artistici del vecchio Continente, sull’onda di vecchie e nuove avanguardie, ma anche di una meglio approfondita tradizione, che ne cementasse l’unità, pur nell’inevitabile ma sempre fruttuosa differenza.

Poi, come le acque del fiume Natisone, che scorrono veloci sotto il celebre Ponte del Diavolo, all’ingresso della città, molte premesse e promesse, preziosi frammenti di un discorso amoroso fra culture affini e, all’apparenza almeno, felicemente intercomunicanti, sono corse via: fallite le Prove d’Europa, scoperto anzi il Paradosso Europa, fra Percorsi, Transizioni, Risvegli, un continuo Partire e Tornare, alla ricerca di una sempre agognata e mai trovata Identità, prendendo atto ormai che, Sparsi per il mondo, popoli e destini, forse non era più possibile restare soltanto Un festival per l’Europa (volutamente abbiamo citato alcuni emblematici titoli delle sue varie edizioni), il Mittelfest ha finito col ripiegare soltanto su Microcosmi, melanconicamente, ma con estremo fascino ed immutata eleganza. Stanco di rileggere la sempre più martirizzata carta d’Europa, allargando di conseguenza lo sguardo su altre geografie (in omaggio, del resto, all’imperante globalizzazione, quindi ad una più ampia  territorialità, fisica e autenticamente culturale), ha registrato, a suo modo, il tramonto dell’occidente, per cui ha finito col votarsi alla sempre necessaria archeologia del tempo perduto (anche nell’ambito dello spettacolo, più propriamente inteso, ci sono civiltà sepolte, da rivisitare, però, sotto i riflettori di un accorto presente), offrendone accattivanti lacerti; non rinunciando, tuttavia, a quella che ci piace definire un’etica dell’estetico, ma anche ad una sana, corretta, soprattutto consapevole, estetizzazione dell’etico e del politico tout court.

In quest’ottica – e venendo all’edizione di quest’anno – è stato bello, per esempio, immergersi nelle Acque e selve di Boemia, anche se seduti fra le torride pareti della chiesa di San Francesco (una delle non poche, qui in città, divenute, nel tempo, palcoscenico suggestivo per gli spettacoli del festival), grazie alle musiche di Janάček, Dvořάk e Smetana, suonate su pianoforte a quattro mani, mentre Quirino Principe (l’illustre critico, mai come ora magico evocatore della Mitteleuropa che fu), dicendo versi suoi, o raccontando momenti di quell’impagabile cultura, ci faceva sentire a Marienbad o a Karlovy Vary. La trascrizione per pianoforte della smetaniana Moldava, con le sue suggestive sonorità, meno percepibili nella più nota versione orchestrale, sembrava portare, in sala, il refrigerio delle acque di quel famoso fiume; e, per una volta, il piacere dell’anima si è convertito anche in piacere del corpo! Di musica, comunque, se n’è ascoltata molta a Cividale, quasi sempre fuori dal chiuso delle sale, investendo l’intero tessuto urbano: lo aveva già fatto, letteralmente, nella prima mattinata del festival, col suo Viaggio nel teatro vagante, Giuliano Scabia, festeggiando così  i suoi 80 anni, coerentemente del resto al suo credo teatrale; lui che, negli ormai lontani anni settanta, per primo – o fra i primi padri fondatori di una nuova scena – aveva liberato la più antica pratica della comunicazione umana dalle sue forme chiuse e limitate, spesso davvero asfittiche, non solo dal punto di vista fisico/architettonico, alla ricerca di più ampi orizzonti culturali (in ambito antropologico, pedagogico, psichiatrico), ahimè assai poco realizzati; ma l’orizzonte – si sa – non si tocca né si raggiunge, mai; basta averlo, e in permanenza, nello sguardo.

Si diceva della molta musica presente ancora una volta a Cividale: sotto forma di aperitvo jazz (in genere nella bellissima piazza Paolo Diacono) o con ulteriori lacerti di musica da camera, offerti nei luoghi più impensati, fra le c. d. strette o i piccoli slarghi, per la gioia di pochissimi fruitori, ma anche di sporadici e inavvertiti passanti, ridotti stranamente ad assoluto silenzio dal fascino discreto di quelle note, o dal potere reverenziale che la musica c.d. colta riesce ancora ad avere nei confronti di chi pur non la segue di consueto: bravi, per esempio, nel loro giovanile entusiasmo, i componenti dell’ensemble, provenienti dal Conservatorio Tomadini di Udine (Claudia Mauro, flauto; Lucia Zazzaro, viola; Alessandro Turchet, contrabbasso; Dario Carpanese, pianoforte), alle prese – nei dintorni del pozzo di Callisto – con musiche intriganti, peraltro di raro ascolto.

Ovviamente, in una kermesse che, fino allo scorso anno almeno, si definiva festival di teatro, musica, danza e altro (e scusate se è poco!), il primo continua a farla da padrone, ma la danza gli tiene testa: anche se il ritorno agli specifici, così rigidamente scanditi, è il segno – non solo qui a Cividale – della ormai quasi definitiva sepoltura di tanta sperimentazione, che dell’incontro/incrocio dei vari linguaggi aveva fatto suo motivo di vanto; ma probabilmente gli eccessi, in questi ultimi anni, della tanto sbandierata (e solo a volte intrigante) contaminazione, ha portato a più miti consigli. Carolyn Carlson, con le tre coreografie delle sue Short Stories, di una delle quali (Immersion) anche felice interprete, ha confermato, sul palcoscenico del Nuovo Teatro Giovanni da Udine (non proprio affollato, come forse si sperava), la sua importante presenza nella storia della danza contemporanea in questi ultimi decenni; nel suo caso, peraltro, la intitolazione del festival di quest’anno all’elemento liquido (il colore dell’acqua) – concessione, sia detto per inciso, a certo ambientalismo di maniera, meritevole di ben altri supporti, ma nel caso specifico improbabile raccoglitore (anche se accattivante cornice) di troppo disparate, e comunque difficilmente convergenti, esperienze artistiche – era, per una volta, davvero pertinente ad una poetica della danza in perenne contatto con la natura.

Quelle braccia fluttuanti nell’aria, quasi onde in movimento, alla ricerca continua di un’armonia con l’universo, non prive, nella dinamica dell’intero corpo, di agganci esistenziali, sono difficilmente dimenticabili. Certamente sono state di stimolo per generazioni di danzatori, raffinandone il talento espressivo, come si é avuto modo di vedere nello stesso spettacolo di Udine (precisamente negli altri due segmenti di danza, offerti dall’ottima Sara Orselli e dal duo Celine Maufroid e Juha Marsalo), ma ancora anche qui, a Cividale, dove altri interessanti seguaci della musa Tersicore (gli Arearea, per esempio) hanno esplicitamente ammesso di aver fatto propria la lezione della Carlson.

Forse più autonomo, comunque con un diverso impatto espressivo, magari per la forte carica erotica impressa alla propria fisicità, appariva il gruppo dell’ungherese Csaba Molnάr, in Skin me: due danzatrici, in ironico, conturbante colloquio fisico con il loro coreografo, complici gli strumenti a percussione suonati dal vivo sullo stesso palcoscenico. Non sono mancati, anche, momenti di Danza in vetrina, offerti ai passanti per i negozi del corso principale, tutti piuttosto incuriositi (i bambini in particolare, divenuti involontari attori, con gli occhi sbarrati, di quelle accattivanti, brevissime performances); per i più adulti (e vaccinati a simili, non più urticanti, ma ormai vecchie provocazioni), si è trattato soltanto di un ingenuo, melanconico déjà vu, pallido ricordo dei ben più dirompenti passaggi, anche in Italia, dello Squatt Theatre: primi tentativi, verso la seconda metà degli anni settanta, di un’ardita compenetrazione fra momento rappresentativo e realtà quotidiana.

Tornando, per un attimo, alla Carlson, spiace soltanto aver perso – per non mancare all’appuntamento udinese con la celebre danzatrice – lo spettacolo (Colonie) alla stessa ora offerto in Santa Maria dei Battuti, a Cividale, da un piccolo gruppo di artisti, teso a rievocare – ciascuno nel proprio specifico interpretativo – una rappresaglia avvenuta nel lontano 1 maggio 1945, nella vicina Clauiano: ce ne siamo resi conto l’indomani, in uno degli interessanti incontri programmati, di mattina, al caffè San Marco, che ospitava questa volta – a cura di Roberto Canziani (peraltro autore del bellissimo volume sul Mittelfest, palcoscenico d’Europa, pubblicato appena l’anno scorso, prezioso catalogo delle sue varie edizioni) – una delle interpreti dello spettacolo, Saba Anglana, di origine  etiope, almeno da parte materna, lucida ed efferatissima narratrice di dolorose vicende coloniali, ma anche, come avremmo subito dopo appurato, voce sublime nei canti della lontana sua prima patria. A lei abbiamo chiesto, nel corso di un nostro intervento, che ovviamente stigmatizzava la malaugurata coincidenza (vero rompicapo di molti festival, a volte purtroppo anche di questo) e ironicamente lamentava l’infausta assenza dell’ubiquità…, di poter ascoltare almeno uno dei brani eseguiti la sera precedente; siamo stati cortesemente accontentati e, in mancanza di supporti tecnici, in perfetta versione live!

Resta da dire qualcosa su quanto di meglio ha offerto questa edizione del Mittelfest sul teatro tout court (anche se continua a procurar fastidio l’uso di un termine così vasto, onnicomprensivo e selettivo al tempo stesso, a chi da tempo ha negato la possibilità di un’ontologia teatrale: tentar l’essenza – anche nel nostro campo – è davvero impresa difficile, se non impossibile!). E parlando del meglio non intendiamo riferirci (purtroppo!) allo spettacolo sui migranti, portato qui dal Teatro delle Albe. Un lungo, noioso monologo (ormai a teatro si monologa soltanto, o perlopiù, e le ragioni non possono essere solo economiche…!) da parte del pur bravo Alessandro Renda, nei panni di una specie di Gheddafi, fra l’acido, l’ironico (!?) e il nevrotico, ci convinceva sempre più che sulla tragedia dei migranti non si può comporre nessuna commedia. A salvare lo spettacolo, ideato da Marco Martinelli ed Eva Montanari, da noi peraltro quasi sempre apprezzati, c’erano soltanto gli interventi, musicali e canori, dei Fratelli Mancuso, peraltro pressoché sconosciuti da queste parti (meritevoli, quindi, di un concerto specificamente a loro dedicato): nel canto ineffabile delle loro voci e degli stessi loro strumenti, il dolore si faceva carne, evidenziando la sterilità di ogni parola.

Momenti di vero teatro (come si dice in questi casi) offriva invece, nella serata d’apertura del festival, il gruppo underground bielorusso, il Belarus Free Theatre, con il suo Trash Cuisine: una terribile, quasi ossessiva,  metafora gastronomica… del potere (uccide anche in nome del diritto e si alimenta delle sue stesse vittime!): il tutto nel segno del miglior Artaud (forse con qualche ripetizione o venatura espressionista di troppo, giustificate comunque dall’urgenza dell’assunto) e qualche traccia di teatro-danza: teatro politico, dunque, ma non solo, fortunatamente. Qualche sera più tardi, ancora nel refrigeratissimo teatro che Cividale ha dedicato ad Adelaide Ristori (la grande attrice dell’Ottocento che qui ebbe i suoi natali), Antonio Latella è riapprodato, per l’ennesima volta, a Pasolini, ma con un monologo (anche lui!), che poco o nulla, però, conserva del suo teatro, nemmeno delle sue precedenti letture, assai più teatralizzate, della scarna drammaturgia pasoliniana.

Affidato alla scrittura di Linda Dalisi, a volte piuttosto affastellata ma, di sicuro, incisiva e davvero intensa, grazie soprattutto all’interpretazione di un’ottima Candida Nieri, il lavoro si ispira alla figura della madre dello scrittore (Ma – il titolo – è la prima sillaba della parola mamma), e diventa progressivamente un inno ad una presenza/assenza, un elogio alla Mater dolorosa, in fondo incompresa, negletta anche se intensamente amata. “Perché mi hai fatto madre di un Cristo comunista….; io non lo volevo un figlio così; avrei dovuto stringerti in un primo piano e non lasciarti fuggire più; avrei dovuto impedirti di leggere e scrivere; maledetta me che ti ho insegnato a farlo!”: sono parole forti, di uno strazio infinito, che non si dimenticano più, e finiscono con l’avere anche un loro spessore  teatrale.

Nessun dubbio, invece, sull’efficacia teatrale – a prescindere dalla bellezza e dall’estrema attualità del testo – nei confronti di uno spettacolo portato qui, a Cividale, da un collettivo artistico, formatosi da poco (nel 2011) nella vicina Trieste, a scopo creativo: espressioni, queste in corsivo, oggi piuttosto inusuali, che un gruppo di sei giovani attori ha creduto opportuno rispolverare, offrendo così, anche ufficialmente, nella brochure di accompagnamento, un’armonica, quasi goliardica, carta d’identità. Si diceva del testo (Selvaggina), scritto dallo sloveno Nejc Gazvoda: bello e attuale, una vera sorpresa per chi stenta a trovare pietre preziose in tanta drammaturgia dei nostri giorni; un piccolo Čechov vorremmo aggiungere, peraltro messo in scena con estremo garbo dal regista Romeo Grebenšek, che ha rivelato ottimo polso nel dare adeguato ritmo alla recitazione, non disdegnando periodiche istantanee di tipo cinematografico sui personaggi, quasi a voler fissare sulla retina dello spettatore alcune immagini della narrazione (tecnica in cui eccelleva, nel suo teatro, il grande Ingmar Bergman, volutamento così tradendo, ma anche rivendicando, la più nota  linea portante della sua attività artistica, esplicitamente ed opportunamente avvalendosene). La trama del lavoro (che tuttavia è soprattutto trama di sentimenti che si svelano, di fenomenologie che si consolidano) è presto detta: pochi mesi dopo la sua morte, alcuni amici di un certo Blaž si riuniscono, in una baita di montagna, per rispolverare vecchi ricordi che legano un po’ tutti, sin dall’infanzia; si tratta, chiaramente, di un’elaborazione del lutto, che presto si traduce in viaggio di conoscenza nelle proprie debolezze, vanità, contraddizioni; che sono poi l’amara realtà di una generazione in drammatica crescita: l’attuale certamente, ma forse non solo quella, a giudicare almeno dalle riflessioni (condivise anche alla nostra età!), cui si abbandonano un po’ tutti i protagonisti, uno in particolare: “Di questi tempi, in cui nessuno riesce a decidersi, in cui ognuno vorrebbe solo fuggire, in cui tutto appare senza speranza – sono tempi crudeli – ci sbraneremo fra noi se non chiuderemo un occhio su certe cose…. Non c’è più verità…. Quando sparisce la luce, è partito il fusibile; quando vedi il capriolo, è solo selvaggina.

E quando hai ingoiato tanta merda, ti aggrappi ad alcune cose…. Non sarai infelice, per il solo fatto di essere cresciuto nell’infelicità. E così diventi felice: perché vivi nella menzogna che ti sei ritagliato a misura, secondo le tue regole… Nessuna pastoia fra i piedi riuscirà a fermarti, perché il tuo punto di partenza è la fine. In tutto questo caos, tra tutta questa distruzione, può andarti soltanto meglio. Di questi tempi la felicità è soltanto un contratto…, un contratto con se stessi” (cors. ns.). Parole forti, indelebili, per chi minimamente sappia e voglia cogliere lo spirito del tempo. Sembra di sentirlo, di toccarlo quasi, il disagio dei giovani d’oggi (solo d’oggi?), la loro mancanza – ma nello stesso tempo il bisogno – di una qualsiasi verità, cui non supplisce più nessuna forma di pensiero debole. Nichilismo, disincanto, ma anche disperata apertura alla speranza; l’autenticità della menzogna (la menzogna vitale di cui parlava già Ibsen, più di un secolo fa); l’imprescindibilità di una nuova partenza, dalla fine ovviamente; la felicità ormai raggiunta solo per contratto, per autodecisione!

Sul piano più propriamente teatrale, era difficile calibrare i dialoghi, renderli veri, autentici (sublime paradosso della finzione attorica!), quasi si svolgessero al momento, senza infingimenti: loro – i sei attori – ci sono riusciti perfettamente. Meritano, anche per questo, di essere citati, tutti: Massimiliano Borghesi, Elena Ferrari, Patrizia Jurinčic, Paola Saitta, Ivan Senin, Lorenzo Zuffi. E’ stato un piacere, oltre che un’esigenza quasi catartica dello spirito… (non bisogna aver paura delle  parole, quando c’è l’entusiasmo!), applaudirli ripetutamente a fine spettacolo, poi reincontrarli (complice l’operatrice che segue la circuitazione dello spettacolo, Rossana Paliaga), quindi andare insieme a cena, conversare (con la promessa, mantenuta, di avere una copia dell’ancora inedito testo), comunicare, consigliare (non montarsi la testa per l’innegabile successo!), sentirsi giovane fra giovani…, sposare i loro problemi, capire che forse sono stati anche i nostri. Anche questa è archeologia del tempo perduto, per un’etica dell’estetico; un festival dovrebbe servire anche a questo: Cividale lo ha fatto, almeno nel nostro caso. Per questo Mittelfest è bello, ancora….

– Foto in alto: un angolo della città con frequentatori del Festival

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