Caterina BARONE- Nel remoto presente (Siracusa, 51o Ciclo Spettacoli Classici Inda)

 

Il mestiere del critico


NEL REMOTO PRESENTE

Teatro Greco  ph.Franca Centaro

A Siracusa, il 51o Ciclo di Spettacoli Classici, prodotti dall’Inda- Di scena, “Le Supplici”, “Ifigenia in Aulide”, “Medea”

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Parlare del presente con le parole del passato in un teatro che racchiude memorie antiche: è nel DNA dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA) di Siracusa farlo per tradizione e storia, e il tema scelto per il 51o Ciclo di Spettacoli Classici (in scena al Teatro Greco fino al 28 giugno), il mare, con le implicazioni socio-politiche che stanno sotto gli occhi di tutti, è particolarmente significativo in questa prospettiva. Le Supplici di Eschilo, l’Ifigenia in Aulide di Euripide e la Medea di Seneca, le tre tragedie messe in scena quest’anno, sono appunto legate tra loro da un orizzonte comune: quello del mare che amplia i confini fisici e culturali dell’uomo, portando al tempo stesso destabilizzazione e conflitti.

Il ciclo proposto dal CdA di recente nomina, di cui è consigliere delegato Walter Pagliaro, e dal sovraintendente Gioachino Lanza Tomasi ha impresso un nuovo corso l’INDA e ha portato a scelte inedite, come quella di presentare un testo, nello specifico le Supplici, tradotto in siciliano. È infatti questa la strada intrapresa da Moni Ovadia, a cui è stata affidata la regia della tragedia eschilea, e che ha creato uno spettacolo fortemente connotato in senso ideologico-politico, riservandosi anche la parte del re Pelasgo, provvido ospite delle Danaidi in fuga da un matrimonio indesiderato con i cugini egizi.

Moni Ovadia_carnera

Tre i punti cardine su cui insiste la sua lettura: la violenza di genere; il tema dell’accoglienza dello straniero, dell’immigrato che chiede ospitalità e difesa; e il tema dell’impianto democratico dello stato di diritto. Per sostenere quei concetti che gli stanno particolarmente a cuore Ovadia non ha esitato a mettere da parte l’accurata e sensibile traduzione di Guido Paduano per cimentarsi in una radicale riscrittura, intervenendo non solo con l’uso del dialetto e anche del greco moderno, ma tagliando o aggiungendo parti del testo per meglio evidenziare ciò che nell’originale appare funzionale alla sua visione del presente. Anche se l’operazione appare atipica rispetto alla tradizione dell’INDA e può suscitare le critiche di chi è convinto della intangibilità dei testi classici, lo spettacolo che ne è scaturito ha una sua compattezza e regge alla prova di un contesto particolare qual è il teatro greco di Siracusa. Va detto, tuttavia, che la tragedia eschilea ha in se stessa una ricchezza e una profondità tali da far apparire ridondante l’enfasi ideologica messa in campo dal regista.

Si comincia con un prologo espositivo, detto da un cantastorie con le cadenze ritmiche del “cuntu”, per fornire le coordinate mitiche dell’antefatto. A interpretarlo, Mario Incudine, che insieme con Pippo Kaballà, ha affiancato Ovadia nell’adattamento scenico del dramma. A lui si devono anche le musiche, eseguite dal vivo da quattro musicisti, pervasive e trascinanti, che fanno dello spettacolo una cantata epica e danno slancio ai movimenti del Coro, capitanato con vigore da Donatella Finocchiaro. Il melting pot di razze e culture peculiaredelle Supplici, con la giustapposizione del mondo greco con quello africano, trova efficace espressione in un tessuto sonoro variegato e contaminato da melodie di  diversa matrice.

Analoga strada è stata percorsanella creazione dei costumi: coloratissimi ed etnici quelli delle donne e del padre Danao (Angelo Tosto); foschi e minacciosi quelli degli Egizi; di ispirazione classica quelli di Pelasgo, giocato sui toni dell’azzurro con disegni che richiamano elementi architettonici. Fa eccezione il gruppo di uomini di scorta al re, infagottati in tute bianche che fanno pensare a indumenti anticontaminazione, per evidenziare, forse, la diffidenza e l’iniziale atteggiamento di difesa del popolo di Argo di fronte alle straniere.

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Filologicamente fedele al testo euripideo tradotto con linguaggio agile e attento alle sfumature semantiche da Giulio Guidorizzi, Federico Tiezzi per l’Ifigenia in Aulide ha aderito a una gamma di suggestioni che prendono le mosse dal mito classico e lo traghettano nei meandri del dramma borghese. Non è una tragedia di semplice approccio registico Ifigenia, per l’alternanza di toni diversi e contrastanti: si va dall’elemento tragico del sacrificio della vergine, all’ondivago comportamento dei comandanti e dei guerrieri che rasenta il comico, passando attraverso la complessa figura di Clitemestra e la fedeltà commovente del vecchio servo; senza dimenticare la difficoltà di dare una fisionomia credibile a un Coro partecipe dell’azione solo in maniera superficiale. Né è facile la resa della stessa protagonista col suo repentino cambiamento, che da fragile fanciulla spaventata dalla prospettiva della morte la trasforma in eroina votata al sacrificio.

Lucia Lavia (Ifigenia) Lo Monaco (Agamennone)

Tiezzi ha lavorato per settori, connotando in maniera eterogenea le diverse componenti e fasi del dramma. Ispirata al mondo classico nella scelta dei costumi e nell’impianto registico la lunga parte iniziale della tragedia: i soldati dell’esercito greco indossano armature e impugnano lancia e scudo secondo l’iconografia tradizionale che varrà anche per il personaggio di Achille; Agamennone e Menelao sono gravati, metaforicamente, da mantelli neri, impreziositi di fregi argentati. Spiazzante in questo contesto l’ingresso delle donne Coro, con abiti coloratissimi sul genere di quelli delle contadine balcaniche, come sembrano sottolineare successivamente anche i rastrelli con cui tracciano linee ondulate sulla sabbia, mentre nella parte conclusivale stesse donne indossano sari indiani di un arancione acceso, per comparire infine dopo il sacrificiocon copricapi a forma di cervo.

Clitemestra e Ifigenia vestono l’alta moda di Alexander Mc-Queen, così che si crea una dissonanza anche visiva nella scena dell’aspro confronto tra la regina e Agamennone, che si fronteggiano all’interno di un recinto fiammeggiante, arena di conflitti familiari, prodromici alle lacerazioni ibseniane o strindberghiane.

Buona la prova di tutti gli attori che non concedono nulla ai risvolti patetici del testo e restituiscono in maniera credibile i meandri comportamentali dei personaggi: dalla sofferta incertezza di Agamennone (un misurato Sebastiano Lo Monaco) alla protervia di Menelao (Francesco Colella) fino ad arrivare alla comico macismo di Achille (Raffaele Esposito), mentre il vecchio servo (Gianni Salvo) ha accenti di sincera affettività; sul fronte femminile, la Clitemestra di Elena Ghiaurov è efficace nel rendere manifesto l’abisso di odio che si apre nel suo animo ed esemplare è l’Ifigenia di Lucia Lavia, capace di rendere ingenuo entusiasmo, sgomento e infine determinazione eroica.

Nel finale una nera figura armata di pugnale chiude la parabola esistenziale di Ifigenia in un’istantanea che richiama immagini tristemente note di ferocia contemporanea, il cui racconto viene dal regista affidato alle due corifee (Francesca Ciocchetti e Deborah Zuin), empaticamente solidali con Clitemestra.

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Punta con coerenza stilistica e concettuale su una lettura moderna, ma non banalmente attualizzante, Paolo Magelli per Medea di Seneca, ambientandola nella temperie decadente degli inizi del Novecento a sottolineare una crisi etica che travolge la società e i singoli individui.

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Spogliatala figura della protagonista di ogni richiamo alle connotazioni orrifiche della maga senecana, il regista focalizzal’orrore della violenza consumata da Giasonee dagli abitantidi Corinto,guidati da un cinico Creonte, su una donna invisa perché straniera e resa vulnerabile dal ripudio di un uomo al quale ha sacrificato patria e famiglia d’origine. Accentuando la connotazione asciutta e visionaria della traduzione di Giusto Picone, Magelli ha innestato nel testo, in maniera significativa nel finale, brani della riscrittura novecentesca di Heiner Müller, dove il dramma delle passioni attinge gli abissi dell’umana sofferenza.

La Medea incarnata sulla scena da Valentina Banci è una donna innamorata che ancora spera di riconquistare il suo uomo e gli si offre col corpo e con l’anima tentando un’estrema seduzione. Il dolore del tradimento la getta nel vortice della follia in una progressione inarrestabile, come rivelano i movimenti febbrili e l’incedere a passi piccoli e convulsi. Gli uomini e le donne del Coro, vestiti di abiti che richiamano atmosfere pirandelliane con un subliminale rimando alle dinamiche di una società condizionante e ostile, la emarginano, irridendola e malmenandola, solidali col re Creonte, uno spietato e beffardo Daniele Griggio. I loro gesti appaiono ora eleganti e fluidi, ora esasperati, sull’onda delle musiche di Arturo Annecchino, che uniscono la fascinazione del tango ad asprezze tecno e a sonorità elettroniche.

Nemmeno Giasone (nei cui panni Filippo Dini fatica a calarsi in maniera persuasiva), privato di quei tratti di vulnerabilità che ha in Seneca, mostra compassione per lei, ma la respinge con crudeltà. L’unico sostegno affettivo è quello della vecchia nutrice (Francesca Benedetti), insufficiente tuttavia a medicare le ulcerazioni di un animo piagato dal tradimento e dall’emarginazione.

Il tragico epilogo viene dilatato dal monologo allucinato di Medea, oggetto infine di un ennesimo atto di disprezzo da parte delle donne del Coro che le rovesciano addosso secchi di sabbia in un estremo gesto di annientamento.

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