Sauro BORELLI- Tra senilità e solitudine (da Cannes, “Youth” di Paolo Sorrentino)

 

Da Cannes


TRA SENILITA’ E SOLITUDINE


Fred Ballinger (Michael Caine) in una scena del film

“Youth” (Giovinezza), il nuovo film di Paolo Sorrentino

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Ci avremmo scommesso. Appostati da tempo in attesa della doppia sortita (tra i nostri schermi e quelli di Cannes) gli zelatori dell’anticonformismo di maniera hanno colto subito il bersaglio grosso, ovvero l’atteso nuovo film di Paolo Sorrentino Youth (giovinezza) reo ovviamente di conversioni e diversioni palesi – a dire appunto di critici paludati di casa nostra o di vecchi tangheri del cosmopolitismo petulante (gli sclerotici cahiers du cinéma) assemblate in un intrico “simil-felliniano” dove raccapezzarsi è un’ impresa o peggio una superflua fatica. Esageriamo? Neanche un po’. I citati Cahiers sostanziano il loro giudizio, si fa per dire, ricorrendo al dileggio – “Sorrentino sta al cinema come Rondò Veneziano alla musica”-, altri denigratori nostrani abbondano in frasi di buon senso, ove né bontà né senso c’entrano per niente.

Come si dice con filosofico disincanto, così va il mondo. Per fortuna che a tali sconnessure logiche fa riscontro, nel caso particolare, il personalissimo, appassionato intervento di quanto ha scritto su Youth Eugenio Scalfari che in un ampio articolo su Repubblica (La vecchiaia incantata) ha spiegato esemplarmente perché e come ha ritenuto di dover dire la sua su questo specifico film. L’avvio del pezzo in questione è semplice, solare: “il protagonista è infatti un vecchio impersonato da un bravissimo e assai conosciuto attore inglese che si chiama Michael Caine (nel film Fred)…” e via di seguito, per poi precisare l’attrattiva di Youth: “questo il quadro.

Dovevo darlo per inquadrare il tema che mi sta a cuore: la vecchiaia e la giovinezza, come la prima guarda e giudica la seconda e viceversa, come il passato si confronta con il presente ed entrambi con il futuro come infine da questi confronti emergano gioia e sofferenza, bugie e verità, desideri e rimpianti. Insomma la vita. E la morte e la sua immagine”. Tutto detto, tutto riflesso: la ragione e la sragione di una parabola informale e metaforica quanto basta riscontrabile nel film – non solo nuovo, nuovissimo per ispirazione e concreta dimensione – di un cineasta che già nel precedente La Grande Bellezza ha dato circostanziata prova della propria sapienza narrativa quanto di un’originalità stilistica-espressiva collaudata.

Esaurita, dunque, la sequela di sottises, per dirla alla francese, sprecate per stigmatizzare Youth e Sorrentino, il meglio che resta da fare è dare conto della reale consistenza dello stesso film che si parva licet, a noi è parso totalmente innovativo e in estrema sintesi colmo di talento visionario e di sostanziale saggezza. Certo Michail Caine nel ruolo di un attempato musicista disamorato di tutto e di tutti, torpidamente abbandonato in una vacanza lussuosa e noiosa è davvero un prodigio in quel suo flaner ininterrotto, con l’amico Harvey Keitel anch’egli stagionato artista (cinesta per la precisione) in attesa del peggio e del meglio tra verdi prati, montagne innevate e le stanze eleganti di un albergo per soli ricchi (già comparso nelle pagine manniane della Montagna incantata).

Ma poi anche tutto il contesto di un simile enclave per privilegiati d’ogni risma si anima di presenze, ruoli, trastulli e giochi, terapie salutistiche o semplici, sterili passatempi giostrati tra chiacchiere insulse o discorsi un po’ desolati sul passare del tempo, il rimorso-rimpianto di un più roseo ieri, l’incombere o il trascorrere inerte di una vaga età presente, di una giovinezza inconsapevole, vanesia, tutto destinato a sopravvivere, ovattato o urlato, in un tran-tran insensato proteso verso la dissipazione pura e semplice.

Non si può pensare che possano essere orientate altrimenti le velleità o le voglie matte che abitano i personaggi, i luoghi, le esistenze stesse del lussuoso albergo svizzero ove, appunto, Fred e Mick parlano, straparlano per riferire i loro fatui problemi. Il primo per negarsi a un rilancio professionale al cospetto della regina, il secondo per dare seguito al suo nuovo e ultimo film. E ancora per incontrare squalificati artisti ( un tale che vuol rifare Hitler in teatro) vegliardi viziosi o riccastri in declino (c’è persino un simulacro di Maradona obeso e impotente) e di quando in quando per evocare fasti e nefasti del loro passato penoso. Impagabile in questo caravanserraglio di ricordi agroilari la irruenta comparsa della diva del cinema Brenda Morel (una travolgente Jane Fonda) scatenata in un linguaggio da trivio ma assolutamente funzionale per illustrare spietatamente splendori e, più spesso, miserie, del cinema d’antan. E forse, ancor più, di quello di oggigiorno.

L’aplomb perfetto del perfettissimo Michael Caine e l’adeguato controcanto dell’amico-complice Harvey Keitel calano nelle figurazioni stagliate del sapiente direttore della fotografia bigazzi, disegnando sullo schermo immagini, suggestioni raffinatissime che, bel al di là dei tableaux vivants ipotizzati dai denigratori, inventano un prezioso quanto fantastico microcosmo che in sé tutto sublima e al contempo consuma. E’ vero, l’epilogo di Youth imbocca la strada della solitudine più fonda – Mick presumibilmente suicida, Fred di ritorno aVenezia per trovare la moglie Melanie irrecuperabile dalla malattia, l’aspirante Hitler rassegnato al fallimento, ecc. –: in realtà l’approdo ultimo è il rendiconto di una vita sul podio davanti alla regina dello scontroso Fred.

E l’insieme aureolato di musiche, canzoni vecchie e nuove quasi a solennizzare con dolcezza, con levità la favola di una vecchiaia ancora vitale, rincuorante. Youth è un bel film e basta. Si può dissentire da come è stato realizzato. Si può criticare ogni soluzione formale. Ma, ripetiamo, Youth è davvero un film bellissimo. E’ la stessa conclusione cui è giunto Eugenio Scalfari. E’ una malleveria che vale, ci sembra.

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