Francesco TOZZA- Il sogno impossibile..(“Der Park” di B.Strauss all’Argentina di Roma)

 

Il mestiere del critico


IL SOGNO IMPOSSIBILE

Nel tempo della fine

Der Park (Il parco) di Botho Strauss  (dal “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare)

Regia di Peter Stein con Maddalena Crippa, Paolo Graziosi, Mauro Avogadro, Pia Lanciotti, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Gianluigi Fogacci,  Fabio Sartor, Laurence Mazzoni, Alessandro Averone  Roma, Teatro Argentina

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Di Botho Strauss si è visto assai poco in Italia: ricordiamo soltanto – e non si tratta dei soliti inganni della memoria! – l’inquietante Besucher (complesso titolo, tradotto con l’espressione Visitatore-Spettatori) messo in scena, nell’ottobre 1989, all’Eliseo di Roma, da Luca Ronconi (in coproduzione con lo Stabile di Torino, di cui il compianto regista era allora direttore), per l’interpretazione di un ottimo Umberto Orsini, allora ad una svolta nella sua strepitosa carriera (gli era, peraltro, accanto Franco Branciaroli e uno stuolo di bravi attori); lo stesso Ronconi si è poi accostato ad un testo più recente (Ithaca), in uno spettacolo che univa la riscrittura omerica con un frammento dell’originale (ma questa volta non siamo riusciti a vederlo noi, nella sua breve apparizione in quel di Ferrara).

In sostanza, solo due rilevanti rappresentazioni: troppo poco, certamente, per un autore che, assieme a Thomas Bernhard e Hainer Müller (leggermente più fortunati di lui – ma mica tanto! – sui nostri palcoscenici), rappresenta una drammaturgia di area austro-tedesca che negli ultimi decenni del secolo scorso (fortunatamente Botho Strauss è ancora sulla breccia) ha espresso una radicale e implacabile meditazione, con svariati e differenti registri stilistici (che vanno dal satirico al fantastico o al metafisico), per cogliere quanto di deludente e di minaccioso si muove intorno all’individuo contemporaneo: una drammaturgia che si collega, certo a suo modo, alla grande tradizione del pensiero critico, alla quale sempre più pochi, ormai, sono quelli che si agganciano, per manifestare una posizione fortemente oppositiva nei riguardi della società dei padri (che, oltretutto, va rivelandosi non sempre peggiore di quella dei suoi figli), magari perché non si dimostra più essa stessa sufficiente, o comunque capace, di compenetrare la terribilità del presente. Ed è tuttavia in quella forma di scrittura drammaturgica, da portare su palcoscenici sempre più intristiti dallo spettacolo della banalità (dietro e davanti al sipario!), che può trovarsi una nicchia di sopravvivenza per gli stessi “ragazzi dello zoo di Berlino”: l’ultimo dei nostri magici tentativi per scacciar via da noi l’angoscia e, comunque, per dirla ancora con Botho Strauss, l’unica maniera per legittimare ancora l’esercizio di questa professione ridicola (quale ormai sembra essere diventata quella teatrale).

In questa direzione si muove Peter Stein, il grande regista tedesco che con questa messinscena di Der Park (la pièce proprio per lui scritta dall’autore, nel 1983, e da lui già portata l’anno successivo sul palcoscenico della gloriosa Schaubühne di Berlino) inizia un suo rapporto di collaborazione con lo Stabile romano, alla guida della prima compagnia “residente” del teatro (con attori che, in parte almeno, hanno già lavorato con lui, se non altro nel celeberrimo, straordinario Demoni dostoevskiano), per un progetto non a caso “un po’ alla tedesca”, che si articolerà “su due linee principali, i Greci e Shakespeare”, all’interno di quel teatro di parola che – Stein lo sa bene e lo dice esplicitamente – vive accanto a “mille altri tipi di teatro”, ma resta la sua via maestra, almeno quando si tratta di “parola parlata con grande cura”, della quale comunque – aggiungiamo noi – torna a sentirsi il bisogno, sempre alle suddette condizioni, correttamente intese.

E parola parlata con grande cura è senza dubbio quella di un autore come Strauss, sul piano sostanziale dei contenuti veicolati, come si è accennato (e da questo punto di vista è ormai uno dei “classici del contemporaneo”), ma anche su quello più schiettamente artistico delle scelte formali (“ogni qualvolta si scrive, si delimita o si seleziona qualcosa”): a questo proposito, sarebbe opportuno e auspicabile, almeno in occasione di eventi come questo di cui qui ci occupiamo e per una migliore fruizione degli stessi, che si procedesse alla ripubblicazione del testo o di alcuni dei testi dell’autore implicato, per non dire della messa in cantiere di validi e puntuali programmi di sala, come si faceva una volta: ricco di informazioni (interviste, citazioni e ragguagli bibliografici) era, per esempio, proprio quello prodotto in occasione del Besucher ronconiano, da noi fortunatamente conservato.

Andando oltre la lezione brechtiana, comunque ed evidentemente ancora tenuta presente, Botho Strauss procede spesso, come nel caso in oggetto, con il metodo della riscrittura (niente a che fare con la più ricorrente e corriva contaminazione!), ben cosapevole che ormai si scrive “solo per delega della Letteratura” (con la maiuscola, ovviamente!), cioè “sotto la sorveglianza di tutto ciò che è stato scritto sinora”: in un generoso e rispettoso rapporto di continuità con la grande tradizione, secondo i ritmi propri al pensiero dialettico, che trova nuove sintesi in una ragionata antitesi con il passato. I testi appaiono densi di meditata critica sociale, senza toni pedagogicamente predicatorî (l’oltre Brecht) o sterili bagni psicoanalitici (sembrando ormai riduzionistico cercare il segreto del mondo nella propria infanzia, o comunque nella biografia di ciascuno di noi), con la consapevolezza, tuttavia, dei tanti mitologemi che ancora traspaiono dalla vita quotidiana, quindi senza il timore, nel sottolinearne la presenza, di cadere giocoforza nel déjà vu o di apparire catastrofici profeti del tempo della fine.

In Der Park in particolare, il testo riscritto, con manifesto e ostentato arbitrio, è il Sogno shakesperiano che, com’è noto, anticipando il celebre incubo di Cartesio, a sua volta riecheggiante certo scetticismo di Montaigne, col suo porre in forse – prima di approdare al più rassicurante cogito – una effettiva distinzione fra la veglia e il sonno, ne confermava tutta l’ambiguità, a vantaggio, peraltro, di una innegabile interazione fra ciò che si crede reale e ciò che viene immaginato. Ad un livello concettuale altissimo, nonostante l’apparente leggerezza della fabula e il suo inserimento nella categoria convenzionale delle commedie, il capolavoro del grande Bardo offre la chiave di accesso ad alcune delle principali inquietudini del moderno: l’oscurità dei contorni stessi del reale come veicolo per una più che giustificata evasione nel mondo dei sogni, habitat naturale della più terrena delle passioni, l’amore (la fuga della duplice coppia degli innamorati nel bosco, alle porte di Atene, lontano dal potere dell’autorità e della società costituita); la fluidità, quando non addirittura l’azzeramento, delle nostre identità, resa possibile dalla sospirata tregua che solo il sogno concede all’io diurno (il cambio dei rapporti all’interno delle due coppie); il carattere quasi inspiegabilmente sovversivo della sessualità umana, che spezza i tabù con la sua forza incontenibile, quando si appannano i limiti della veglia e si fa strada “il fiero travaglio del sogno” (l’attrazione bestiale di Tatiana per Bottom/l’asino); la recitazione, ma anche la stessa fruizione dell’arte drammatica, come forma suprema di trasformazione, come unica possibilità di assumere le sembianze di un altro, offerta dal potere dell’immaginazione, grazie al coinvolgimento emotivo e fantastico che la dimensione onirica del teatro determina (il gruppo degli artigiani, attori amatoriali essi stessi, guidati non a caso dal tessitore Bottom).

Nel passaggio dal bosco di Atene al parco di Tiergarten (al centro di Berlino) molte cose però cambiano; in un mondo dal quale persino gli dei sono fuggiti (secondo la celebre, amara riflessione hölderliniana) e Dio è ormai il ricordo di “uno che fu ospite solo per un giorno” (come recita una poesia dello stesso Botho Strauss), si possono offrire solo catastrofi in miniatura della vita quotidiana, incontri con Coppie passanti (è il titolo di una prosa dell’autore) o con individui che vivono avulsi dalla realtà presente, pur fingendo di parteciparvi attivamente; la loro vita appare radicata in un’esperienza di seconda mano, in una società che ha perso i connotati della comunità e dove il rituale del quotidiano, la consuetudine con un pensiero fin troppo debole, sono scanditi da un puro spreco di tempo, come lamenta Helen, la trapezista, nell’incipit della commedia, che la vede peraltro accasciata, dolorante, senza entusiasmo alcuno, sulla sabbia della pista di un circo, a sipario ormai chiuso, dopo la caduta durante un suo numero. E non è casuale, con un’evidente pregnanza simbolica, la domanda che le pone Georg, l’amante, sopraggiunto: “ e l’arte? Come va l’arte?”. Il testo continua poi il suo percorso simbolico, spesso, ma sempre liberamente, sulla falsariga di quello scespiriano, con una tessitura a stazioni, passaggi pervasi da intenzionalità critiche, a volte dominati da un’assoluta quanto voluta banalità, usata però come bisturi per lacerare la tela di ormai improbabili realismi.

Nello snodarsi dell’azione, sui cui particolari è inutile comunque qui soffermarsi, si incontrano Oberon e Titania (l’ottimo Paolo Graziosi e la sempre straordinaria Maddalena Crippa), divinità ormai decadute, discese nel parco per ridestare nei mortali un eros ormai spento, almeno nella sua più ardente e sovversiva scaturigine. Le due celebri coppie dell’originale diventano qui amanti borghesi e benestanti: Helen e Georg (Pia Lanciotti e Graziano Piazza) che si lasciano per un improbabile dissidio sui mutati o riscoperti dissidi politici; Wolf e Helma (Gianluigi Fogacci e Silvia Pernarella), sempre meno convinti del loro esteriore stare insieme; lo scambio fra i quattro è comunque frettoloso, superficiale, forse ipocritamente sperimentale (come avviene a tante coppie oggi), sicuramente assai lontano dall’amore romantico dei personaggi scespiriani.

Non mancano – in luogo degli artigiani dell’originale – due stralunati impiegatucci (ad uno dei quali capita il fantasioso incontro con il proprio sé bambino), mentre arrivano in bici, sulle note delle loro musiche preferite, giovani punk che non esiteranno, anche in seguito, a far mostra della loro ottusa violenza. Emblematicamente in sottordine appare la figura del novello Puck, che si reincarna e rivive nell’inquietante Cyprian (Mauro Avogadro), non più per seminare, con il floreale succo, scompiglio amoroso fra le giovani coppie degli innamorati, bensì con la pretesa di assicurare, tramite le statuette-feticcio costruite in una specie di suo studio faustiano, sesso spinto a Tatiana, novella Pasifae, o a se stesso, con il migrante nero di turno che ne farà violentemente, come da copione, la sua vittima.

Evidentemente Shakespeare non abita più qui: la vacuità delle due coppie borghesi, con cui peraltro convive la morte in silenzio (inquietante la scena relativa, con una cifra non più parodica ma per una volta metafisica), il fallimento di un tentativo comunque assai poco divino, ma umano, troppo umano, di riportare l’amore agli uomini (Oberon invecchia, adeguandosi alla società in cui agisce, anche se con una nota di malinconico disincanto, e Titania fa lo stesso, dopo la deludente prova offerta da tre rappresentanti degli umani, cui inutilmente, nella sua pur seducente nudità, chiedeva la disponibilità a sacrificarsi per il suo amore), la sostituzione dei magici filtri di Puck con il superstizioso dominio di probabili feticci tecnologici, tutto insomma contribuisce a marcare la disperante distanza fra l’armonia dell’antica favola e lo squallore del presente. Un elegante banchetto ai bianchi tavoli del golfo mistico, fra coppe di champagne, crasse risate e vuote chiacchiere al suono di melliflue note di un pianoforte (un’altra belle epoque danzata sul cratere di un vulcano!?) suggella, infine, l’algido commiato dall’ormai impossibile Sogno.

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