Gianni MANZELLA*- Fassbinder in un gioco di specchi (A. Latella allo Storchi di Modena)

 

 

La sera della prima*

 

FASSBINDER, IN UN GIOCO DI SPECCHI

9ti regalo la mia morte veronika foto brunella giolivo (3) leg

“Ti regalo la mia morte, Veronica”- In scena allo Storchi di Modena la nuova creazione di Antonio Latella. Più piani narrativi nello spettacolo ispirato alla poetica del regista ‘maudit’

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Una grossa scim­mia, dal pelo bianco come neve. A quale meta­fora riman­derà mai que­sta imma­gine osses­siva che ingom­bra la locan­dina e il pro­gramma di sala di Ti regalo la mia morte, Vero­nika,  e dun­que va a occu­pare la fan­ta­sia dello spet­ta­tore prima ancora dell’inizio dello spet­ta­colo? Avrà tempo di assor­bire imma­gine e domanda, se non di tro­vare qual­che rispo­sta, lo spet­ta­tore della nuova crea­zione di Anto­nio Latella che ha debut­tato sul pal­co­sce­nico dello Stor­chi, pro­dotta da Ert. Sei di quei can­didi gorilla si sono infatti stretti da subito intorno alla pro­ta­go­ni­sta del titolo e non si muo­ve­ranno da lì fin quasi alla fine, pure se altri corpi ne ver­ranno fuori un poco per volta.

Vero­nika è Vero­nika Voss, pro­ta­go­ni­sta epo­nima di uno degli ultimi film di Rai­ner Wer­ner Fas­sbin­der. «Libe­ra­mente ispi­rato alla poe­tica del cinema fas­sbin­de­riano» dice il sot­to­ti­tolo espli­ca­tivo del testo, scritto dallo stesso Latella insieme a Fede­rico Bel­lini. Cioè è anche Monica Piseddu che si è fatta avanti al cen­tro del pro­sce­nio, davanti a una fila di pol­tron­cine di legno da vec­chio cine­ma­to­grafo, quando ancora le luci della sala sono accese. Per dire: aiu­ta­temi, ho paura. Ma anche: non recito più nes­suna parte, vor­rei solo silen­zio. O per abban­do­narsi ai pre­ve­di­bili «insulti al pub­blico», cose come: mostri, voi puzzate.

Non è solo l’andare den­tro e fuori dalla parte, non infre­quente sulla scena con­tem­po­ra­nea. Qui la meta­tea­tra­lità è ele­vata all’ennesima potenza, alla meta­fora della meta­fora, per­ché siamo den­tro un tea­tro che ripro­duce una sala cine­ma­to­gra­fica dove si pro­ietta il making of del film che sta alla base dello spet­ta­colo tea­trale, in un con­ti­nuo e anche un po’ ver­boso rime­sco­la­mento dei piani nar­ra­tivi. E infatti da un lato è col­lo­cato un pro­iet­tore cine­ma­to­gra­fico che può scor­rere su una rotaia a filo della ribalta, a evo­care fisi­ca­mente il medium che fa da cer­niera a que­sta sorta di porta gire­vole. Il plot del film, si sa, ruota intorno a un’attrice tede­sca cele­bre al tempo del Terzo Reich e ora però dimen­ti­cata (siamo negli anni cin­quanta del secolo scorso), che cerca con­forto all’ossessione del pas­sato per­duto nell’illusione di un nuovo amore e nella mor­fina che si pro­cura clan­de­sti­na­mente in una cli­nica che forse la tiene in ostaggio.

Ma que­sta trama è con­ti­nua­mente deco­struita nel tes­suto testuale, in un gioco di spec­chi in cui si mol­ti­pli­cano rimandi e cita­zioni. Fanno capo­lino il Viale del tra­monto di Billy Wil­der che fu certo una fonte d’ispirazione per il film e il nome di Sybille Sch­mitz, l’attrice del «pes­simo» cinema di pro­pa­ganda nazi­sta che fu un po’ il pro­to­tipo di Vero­nika Voss. Si cita Cechov (quando com­pare una pistola, prima o poi deve spa­rare) e il clima delle sue pièce. Si scherza sul rea­li­smo (almeno di man­gia) ovvia­mente assente. E natu­ral­mente Each man kills the thing he loves che ormai più che a Oscar Wilde appar­tiene alla voce di Jeanne Moreau sulla musica di Peer Raben. Men­tre qual­cuno som­mes­sa­mente canta le parole a cui forse aspira Vero­nika. Di que­sto sono fatti i ricordi. One more kiss, one more sigh. One girl, one boy / some grief, some joy. Lei fa un po’ Valen­tina Cor­tese quando accen­tua la natu­rale pul­sione a recitare.

È dun­que quel rumo­roso coro scim­mie­sco che genera i per­so­naggi, ognuno con il suo nome a pro­gramma. La dot­to­ressa Katz e l’infermiera della cli­nica e il regi­sta ebreo, con accenti d’epoca che forse tirano in ballo il pre­sunto anti­se­mi­ti­smo di RWF… Emer­gono in mutande dalle loro pel­licce albine, senza mai abban­do­narle del tutto. Siamo nel ter­ri­to­rio del tra­gico, ver­rebbe da dire, sia pure un tra­gico che oggi sap­piamo impos­si­bile e non può allora che assu­mere una forma deri­so­ria. (Nel titolo ori­gi­nale del film stava non per caso l’intraducibile Sehn­su­cht del roman­ti­ci­smo tede­sco, lo strug­gi­mento incon­so­la­bile che può diven­tare desi­de­rio di morte, estra­neo a qual­siasi eroe tragico).

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Piut­to­sto il coro si iden­ti­fica sem­pre più con la figura dello scom­parso demiurgo. Con il quale a sua volta deve sen­tirsi in sin­to­nia anche il nostro regi­sta, sarà forse per una sorta di affi­nità poe­tica, nell’oscillare anche geo­gra­fico fra il sen­ti­men­ta­li­smo meri­dio­nale e la solida misura ber­li­nese. E infatti di tanto in tanto Latella vi ritorna, c’erano già stati il gene­tiano Que­relle e Le lacrime amare di Petra von Kant, in un viag­gio a ritroso a quando ancora il cinema di RWF pren­deva spunto dal lavoro con l’Antiteater della gio­va­nis­sima Hanna Schy­gulla. Qui la prova di forza sta nella volontà di misu­rarsi con un pro­prio testo.

Intanto le seg­gio­line ven­gono rimosse dalla scena. Cala il fon­dale su cui ave­vamo visto pro­iet­tarsi anche gio­chi di ombre. Sola ormai, Vero­nika regala la sua morte, così simile in fondo a quella del suo crea­tore. È finita? No, cala dall’alto un albero dalle fronde altret­tanto can­dide. Alla sua ombra le donne dei film di Fas­sbin­der in rigonfi abiti otto­cen­te­schi pre­pa­rano un pic­nic in attesa che arrivi anche Vero­nika. Dove siamo, si chie­dono ancora una volta gli attori. Forse nel cimi­tero di Boge­n­hau­sen a Monaco, dove si trova la tomba dell’artista bava­rese. Al tea­tro Stor­chi di Modena, risponde uno più prag­ma­tico. Arriva anche il gio­va­notto con cui lei aveva imma­gi­nato quell’ultima sto­ria d’amore, un gior­na­li­sta spor­tivo, l’unico venuto dall’esterno, estra­neo all’animalità del coro. E quando la pistola di Cechov spara, sarà lui a cadere. Final­mente sono tutti morti, dice chissà chi. Ora pos­siamo andare.   (*ilmanifesto)

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