Mario SAMMARONE- L’incontro. Nicola La Gioia (in corsa per lo Strega con “La ferocia”)

 

 

L’incontro*

 

NICOLA LA GIOIA,  IN CORSA PER IL PREMIO STREGA

 

LAGIOIA NICOLA

Con il romanzo “La ferocia”, edito da Einaudi

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Una volta un saggio disse che il vero scrittore o la vera scrittrice è colui o colei che sente di avere una questione aperta con la lingua. Di certo Nicola Lagioia, nato a Bari nel 1973, autore di romanzi di successo tradotti anche all’estero e oggi in pole position per il premio Strega 2015, oltre ad essere uno dei talenti più genuini della nuova generazione, dimostra di aderire in pieno al paradigma dello scrittore. Non soddisfatto del patrimonio linguistico che ha a sua disposizione, Lagioia cerca di dar forma a una nuova lingua, a tratti barocca, a tratti fredda e spietata, ma che pur rivolgendosi ai propri lettori è soltanto la sua.

Nella sua ultima fatica, La ferocia (Einaudi, 2014), e di vera fatica si tratta perché ben quattro anni ci son voluti per plasmare questa opera di 418 pagine, Lagioia costruisce un mondo di finzione letteraria che ricalca fedelmente la provincia italiana, nella fattispecie quella meridionale, facendo emergere una realtà governata dall’avidità, dal cinismo e dall’assenza di valori, se non quello del fare i soldi – salvo che i suoi membri tuonino poi contro la perdita degli antichi valori, in primis quello della famiglia, la prima uscita a pezzi da questo drammatico affresco.

Lagioia, ne La ferociahai descritto la famiglia di Vittorio Salvemini, un ricco palazzinaro barese che sembra mosso dal solo impulso di conservare le ricchezzeche ha recentemente (e ferocemente) conquistato.Grandi scrittoridel passato si sono cimentati nelle saghe delle grandi famiglie borghesi, da Thomas Mann con iBuddenbroock, a Honorè de Balzac edEmile Zola con i Rougon-Macquart. Perché questa scelta?

In realtà, non saprei se definire la famiglia Salvemini proprio borghese. In fondo,i Buddenbroock appartenevano alla classicaborghesia nordeuropea, una classe solidae costituitasi da generazioni,i Salvemini invece sono dei proletari arricchiti. Essiappartengono a quella strana borghesia peculiarmente italiana che è una borghesia anormale, zoppicante, molto spesso venuta dal nulla – sempre se di borghesia si può parlare.

Vittorio Salvemini è un self made man?

È un uomo che si è fatto da solo e, come molti proletari arricchiti, è ossessionato da una sola cosa: il fantasma della povertà,il timore di perdere tutto. Una paura che,tenendo conto di tutti i soldi che ha, non è nemmeno giustificata, è più una turba di ordine psicologico:avendocostruito la sua fortuna su basi precarie, talvolta anche illegali,Vittorio teme che la sua ricchezza possa sgretolarsi come un castello di carta.

L’etimologia della parola borghese rimanda al borgo, alla città e quindi al concetto di comunità. Con i Salvemini siamo di fronte a una deriva del concetto di borghesia classica?

Vittorio appartiene a una razza padrona, molto italiana e molto vorace, instancabile nell’accumulo, che non fa ciò che facevano le grandi famiglie borghesicheriuscivano a sviluppare nel tempo una cultura anche in mezzo all’abbondanza. In quelle famiglie si era consapevoli che se una comunità li aveva resi ricchi, era doveroso restituire qualcosa. Questo non accade ai Salvemini, e non accade a molte famiglie ricche italiane:esse non hanno nulla dell’ideale borghese. L’ideale borghese classico è infatti legato allo spirito del capitalismo e a ciò che aveva teorizzato Max Weber, secondo cui il lavoro nobilitava l’uomo, anche agli occhi di dio. La borghesia di quel tempo aveva certamente molti problemi, ma sicuramente non quello di flirtare con l’illecito e con quelle zone d’ombra della società con cui i Salvemini, come altrefamiglie ricche italiane, entrano disinvoltamente in contatto.

Con La ferocia hai spinto di fatto la ricerca verso l’analisi sociologica…

Andare a raccontare le vicende di una famiglia del genere, che ha rapporti non puerili con il potere,è il modo di raccontare tutta una società.Basti pensare a quali legami abbiano i Salvemini con il mondo della politica locale, al fine di ottenere le licenze edilizie. E poi ci sono anche gli architetti da tenersi buoni, gli ingegneri, così come i lavoratori e il mondo dei media.Nel momento in cui Vittorio decide, ad esempio, di riempire di cemento una parte verde del territorio, deve sperare che i giornali non lo attacchino e che le tv non indaghino troppo. Per non parlare poi dei rapporti con la criminalità organizzata.Mi è sembrato che attraverso i Salvemini si potesse ottenere una buona fotografia della società, relativa a Bari ma in fondo rappresentativa di tutto il paese.

Accanto alla sociologia, nel tuo romanzo emerge anche una notevole ricerca psicologica. Hai descritto con grande perizia il carattere e la fragilità di alcuni personaggi, soprattutto deifigli di Vittorio Salvemini:Michele è un figlio illegittimo – un “bastardo”come leggeremmo nella letteratura ottocentesca – che non riesce a trovare la sua strada nel mondo;Claraappare vuota e destinata a una vita di tormentato edonismo, a base di sesso veloce e cocaina, se non morisse già nelle primepagine del libro.

Michele e Clara sono certamente fragili, ma sono anche gli unici che riescono a sottrarsi alle logiche della famiglia, logiche di potere a cui ci si adegua o si soccombe. Certamente non sono dei personaggi monolitici.  È vero che Clara inaltri tempi sarebbe stata chiamata una ragazza perduta, ma è anche la sola capace di prendersi cura del fratello Michele, e la sola capace di un gesto d’amore disinteressato, cosa che tra nella sua famiglia è vista come un abominio. È anche vero che Michele èun incompreso, ma proprio perché debole e fragile può rendersi conto di cose che sfuggono agli altri Salvemini: è lui infatti che indagasulla morte di Clara, arrivando a un punto in cui può letteralmente mandare a scatafascio la sua famiglia, cosa che alla fine del romanzo effettivamente accade, non si sase per vendetta o forse per aprire un capitolo nuova, per una sorta di rinascita interiore.

Pensi che il potere, quando non ha un’anima e non è al servizio di qualcosa di più alto, si ritorca contro la società?

Il potere è per sua natura violento, ma credo che la cultura possa creare delle strutture intorno a questa radice violenta,trasformando la sua natura distruttiva in qualcosa di costruttivo. Ai Salvemini manca questo tipo di cultura, ma debbo dire che manca anche ai grandi capitalisti di oggi. Senza dubbio i grandi capitalisti di oggi sono più rispettabili rispetto a un Vittorio Salvemini, ma se uno pensa che l’amministratore delegato della Fiat di cinquanta anni fa, Vittorio Valletta, percepiva uno stipendio circa quaranta volte quello di un operaio, e che oggi Marchionne, il chief executive officer di Fiat, è passato a un rapporto di cinquecento a uno, ti rendi conto che c’è qualcosa che non va. Questo allargamento della forbice in una maniera così smodata, violenta, direi quasi pornografica, è sintomatica di una mancanza di cultura nei meccanismi decisionali.Ho timore che stiamo tornando a un tipo di economia totalmente ingovernata, libera da qualunque freno politico.

Del resto, in Italia abbiamo avuto la figura di Adriano Olivetti, questo imprenditore di successo che accanto alla produzione materiale restituiva agli operai la possibilità di innalzarsi culturalmente e spiritualmente.

Non è un caso infatti che la casa editrice che fondò Olivetti si chiamasse di Comunità.

Tornando a noi, ne La ferocia hai fatto emergere anche una natura umana ai limiti della bestialità – e in effetti qualcuno ha parlatodi etologia per le tue rappresentazioni. Quella che hai descritto è una provinciaspietata, fatta di condizionamenti edi rapporti di causa effetto, in cui non sembra intervenga alcun disegno otélosbenigni. È un mondo così cupo il nostro?

Temo che il nostro sistema, guidato dalla matrice economica neoliberista, sia molto vicino a quello che è lo stato di natura.Ma mentre per gli animali lo stato di natura è la normalità, per noi uomini è la barbarie. Nello stato di natura il pesce grosso mangia il pesce piccolo, il debole è sempre destinato a soccombere. La civiltà umana è nata invece per impedire ciò, e dunque è sempre un’attività contro natura. Se riflettiamo bene, ci rendiamo conto di come i prodotti della civiltà siano sempre attività innaturali. La medicina, ad esempio: se noi dovessimo assecondare il decorso naturale di una malattia, rischieremmo quasi sempre la morte. Lo stesso dicasi per il concetto di welfare state: aiutare chi ha meno è certamente un’evoluzione indotta dalla cultura.

E allora cosa ci salverà?

Il libero arbitrio, la facoltà che ci permette in ogni momento, in ogni scelta della nostra vita, di scegliere tra civiltà e barbarie. Il libero arbitrio è la possibilità di non voltarci dall’altra parte quando accadono delle barbarie.È vero che nel romanzo questo succede poco, ma anche una sola volta vuol dire che è sempre possibile. Le cose accadono in maniera meccanicistica quando non c’è nessuno che oppone un’azione simmetrica e contraria allo scorrere naturale degli eventi. Gli animali non fanno certe cose orribili che fanno gli uomini, come entrare con un kalashnikov in un supermercato, ma a differenza di loro noi siamo capaci di disinnescare la violenza.

Facendo da specchio, La ferocia può scuotere la coscienza di qualche lettore?

Non penso che la letteratura debba risolvere i problemi dell’hic et nunc, o rovesciare un governo, credo piuttosto che abbia il potere di restituire un mondo.Se avessi voluto fare una denuncia, sarebbe stato sufficiente un pamphlet o un editoriale di giornale.   Poi il resto del lavoro deve sempre farlo il lettore, decifrando e interpretando ciò che ha davanti. Mi viene in mente la Germania di Weimer, che tra le due guerre era il paese culturalmente e artisticamente più progredito d’Europa. Ma ciò servì forse ad impedire il disastro? La montagna incantata è riuscita ad impedire l’ascesa di Hitler? Thomas Mann dovette peraltro scappare negli Stati Uniti dopo l’avvento del Reich. Eppure, quello che la montagna incantata come ogni altra opera letteraria riesce a darci, è la possibilità di farci riconoscere tra noi ancora come esseri umani, nonostante i disastri della specie che ci trasciniamo dietro, nonostante il “legno storto” di cui siamo fatti.

Hai utilizzato un linguaggio molto descrittivo e ricercato, andando controcorrente rispetto alla letteratura attuale che predilige una scrittura veloce e quasi minimalista. Da cosa nasce questa esigenza?

Secondo me la letteratura deve restituire una complessità. I sentimenti umani sono complessi, la coscienza umana è complessa, il nostro modo di percepire il mondo è complesso, la coscienza umana è complessa e quindi soltanto un certo lavoro sulla lingua è capace di restituire la condizione umana in toto – pensiamo a quello che hanno fatto scrittori come Proust, Musil, Italo Svevo. La poesia e la letteratura sono la lingua al suo apice, e chi non tiene conto della lingua commette un crimine antropologico innanzitutto verso se stesso – come dicevaErnst Bloch. La lingua è il nostro orizzonte originario, ontologico, attraverso di essa l’uomo è capace di esprimere nella maniera più minuta possibile quella complessità e il caos di cui siamo fatti. La lingua è un restitutore di senso, il nostro strumento più complesso per restituire il reale.Per uno scrittore, trascurarla, significa non far bene il proprio lavoro.

La lingua fa parte del patrimonio comune di noi italiani?

Assolutamente sì, soprattutto per noi italiani che parliamo la lingua che inventarono Dante e Boccaccio, la lingua di San Francesco. In fondo noi non parliamo di Dante e Boccaccio, noi siamo parlati da Dante e Boccaccio senza che neanche ce ne accorgiamo. L’Italia è nata prima nella lingua dei suoi poeti e dei suoi scrittori prima ancora che fosse uno stato unitario.Se uno guarda la storia del nostro paese, si rende conto di quanto la lingua sia importante per noi. Trascurare la lingua secondo me vuol dire non fare lo scrittore.

All’attivo hai già diversi romanzi tra cui Occidente per principianti (Einaudi, 2008) e Tre modi per sbarazzarsi di Tolstoj (Minimum Fax, 2003). I tuoi racconti sono apparsi su antologie e prestigiose riviste letterarie. Come si fa a diventare uno scrittore affermato?

Prima di fare lo scrittore, sono stato (e continuo ad esserlo) un lettore voracissimo. Secondo me non esistono grandi scrittori, se non sono stati prima dei grandi lettori. Io lavoro per Minimum Fax, una casa editrice in cui arrivano moltissimi libri scritti da persone che aspirano a fare lo scrittore pur non essendo lettori – e questo si capisce leggendo già le prime pagine dei loro libri. Diventare uno scrittore è un lavoro su di sé, che necessita di un lungo tirocinio che può durare anni in cui mettere in pratica la propria scrittura – del resto, dal primo racconto che ho pubblicato (ero al primo anno di università) al primo romanzo sono passati otto anni di scritture e letture intensissime. Non si diventa scrittori da un giorno all’altro.

Adesso è arrivata la candidatura de La ferocia allo Strega 2015, che di certo è il giusto riconoscimento per il lavoro di ricerca linguistica e di racconto del sociale che hai portato avanti negli anni. Cosa ti senti di dire?

Innanzi tutto sono molto contento. Credo sia una candidatura conquistata grazie al lavoro svolto e alle tante presentazioni fattein giro per l’Italia. Non è un candidatura dovuta – non lo sono mai – ma a partire dallo scorso settembreLa ferocia ha intrapreso un cammino andato avanti grazie alle recensioni, ai riscontri positivi e alle tante copie vendute: la candidatura serve per dare a questo cammino altri chilometri da percorrere.

Qualche anno fa hai pubblicato un libro molto particolare, 2005 dopo Cristo(Einaudi, 2005), scritto a otto mani insieme a Francesco Pacifico, Christian Raimo e Francesco Longo. Vuoi parlarci di questa esperienza?

Tutto era nato da un’idea di Christian Raimo che voleva scrivere un libro appunto a otto mani. È stata un’esperienza divertente e interessante, che ci ha permesso di condividere un lavoro, i suoi successi e le sue sconfitte. Detto questo però, la letteratura rimane per me l’opera di uno solo.

Pensi che La ferocia possa diventare un film?

Ifilm tratti dai romanzi chemi piacciono sono quelli che hanno anche po’ il coraggio di tradirli. Quello che faceva uno dei più grandi registi del secolo scorso,Stanley Kubrik, che non ha mai scritto una sceneggiatura originale, ma ha tratto tutti i suoi film da romanzi di cui poi trasformava per il meglio la storia. Questi sono i film più ispirati.In quanto alla trasposizione del mio romanzo, se ne occupa il mio agente, ma ben venga un regista o un produttore interessato. Quello che posso dire è che la mia parte l’ho fatta.(*ilgarantista.it)

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