Francesco TOZZA- Metamorfosi di un mito (“Atridi…”. Compagnia della Magnolia, Torino)



Il mestiere del critico

 


METAMORFOSI DI UN MITO

L’impossibile sepoltura

27_ATRIDI_©Mario-Taddeo

Al Teatro Gobetti di Torino   La Piccola Compagnia della Magnolia in

Atridi/Metamorfosi del rito regia di Giorgia Cerruti

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E’ un work in progress questo “Atridi/Metamorfosi del rito”, non solo perché all’attuale versione si è giunti dopo alcuni ‘studi’ offerti al festival di Benevento prima, a quello di Castrovillari dopo, ma anche perché lo spettacolo, per dir così ‘definitivo’, offerto in prima nazionale nei giorni scorsi al Gobetti di Torino, comunque prevede in futuro (dal 2016) integrazioni e/o complementi, con un film-documentario, nonché – nel corso delle residenze programmate – una serie di relazioni/scambi con il pubblico, a testimonianza/conferma dell’intrigante modernità e inesauribilità del tema affrontato. Effettivamente i Greci non cesseranno mai di stupirci, di inseguirci anche: quel passato culturale è davvero un passato che non passa, a dispetto di chi vorrebbe – sbrigativamente e con grande incoscienza – disfarsene, eliminandolo addirittura dagli studi sinistramente programmati per le nuove generazioni.

Il mito degli Atridi, per esempio, cui i tre grandi tragici greci hanno prestato gran parte della loro attenzione drammaturgica, oltre ad essere, nella rivisitazione eschilea, alla base della costituzione delle moderne democrazie, resta il tracciato più intenso e consistente della complessa trama dei rapporti familiari con cui la moderna antropologia – a non dire degli studi psicanalitici, da Freud in poi – ha dovuto fare i conti, nell’esplicitazione del proprio discorso epistemologico. Il teatro, a sua volta, che non ha mai cessato di dirigere i riflettori della sua particolare indagine conoscitiva sul modo di strutturarsi dei contesti familiari, magari anche quando, con apparente leggerezza, si è curiosamente intromesso nei salotti borghesi dell’Ottocento o è penetrato, con maggior cura, nei labirinti psichici dei personaggi messi in scena nel secolo successivo, è sempre dovuto partire da quelle terribili, penetranti premesse, per poi magari tornarvi, dopo l’esame delle immancabili metamorfosi, nel momento in cui è giunto a trarre le sue conclusioni.

Si comprende benissimo, da quanto fin qui sommariamente detto, il grande (forse troppo grande) obbiettivo che la Piccola Magnolia si é posto con questa suo più recente spettacolo, che coerentemente si è mosso come work in progress (lo abbiamo detto), ma rischia (rischio peraltro accettabilissimo) continuamente di rimanerlo, anche quando si presenta come versione definitiva della propria attiva indagine. Non a caso, ciò che più disorienta – ma per certi versi anche inquieta – lo spettatore accorto, di fronte alla messa in scena di queste, se si vuole interminabili, metamorfosi (del mito, comunque, non del rito, come più ingenuamente recita il titolo scelto dalla Compagnia), è un senso di incompiuto, a volte anche di inadeguatezza, dei ritagli offerti rispetto all’intero postosi come obbiettivo. Certo il non finito ha una nobile tradizione alle spalle, non solo e non tanto in ambito teatrale; ma deve essere consapevolmente accettato, anzi sostanzialmente scelto come finalità rappresentativa, non essere involontaria stazione di un percorso indefinito.

Nei limiti di questa scelta, o meglio, di questa non scelta di fondo (che peraltro si tradisce anche nella frammentarietà e debolezza della scrittura drammaturgica, cui certamente nuoce la molteplicità delle fonti offerte, in contaminazioni che andavano più strettamente sorvegliate), lo spettacolo ha i suoi indubbi punti di forza: innanzi tutto nella bravura degli attori (da Davide Giglio a Giorgia Coco, Camilla Sandri, Ksenija Martonivic, Matteo Rocchi, ai quali forse ha un po’ nociuto la non perfetta acustica della sala, o qualche scompenso tecnico); attori peraltro sottoposti – dall’accorta e poliedrica regia di Giorgia Cerruti – ad una molteplicità di stili recitativi (che vanno dalla folle corsa in palcoscenico del teatrodanza alla lentezza spasmodica del teatro orientale, all’uso della maschera, con venature tragicomiche, proprie del teatro kabuki, per non dire della ieraticità elegante su fondo luminoso, alla Bob Wilson, con cui si apre e a cui altre volte ricorre lo spettacolo nel suo veloce scorrere. Evidentemente Giorgia Cerruti, giovane ma bene informata regista, ha visto o comunque, per motivi anagrafici, soltanto studiato, alcune delle fondamentali esperienze del teatro tardonovecentesco; ne fa tesoro in questo spettacolo, con un sincretismo intrigante, che tuttavia (per dirla tutta) ci ha fatto ricordare e preferire, a volte, la più personale e spiccata cifra stilistica che caratterizzava suoi precedenti spettacoli o collaborazioni registiche. Belle le musiche o comunque le sonorità a cura di Carlo Girardi e i costumi di Gaia Paciello, fuori da un preciso tempo storico, come del resto le scelte di campo di una (tuttosommato) astorica drammaturgia consigliavano.

Fra i frammenti di un discorso indubbiamente amoroso, in tutte le pieghe o venature dell’eros, colpivano, soprattutto, le scene del complesso rapporto fra Agamennone e le due figlie: le reiterate carezze, prima della finale, ben nota violenza nei confronti di Ifigenia; il silenzioso, quasi autistico disegno del volto paterno, da parte di Elettra, divenuto poi pasto della sua malcelata ingordigia incestuosa. Ma il momento più bello – un momento che si voleva durasse ancora più tempo – è stato quello che la filologia dei testi tragici conosce come la scena del riconoscimento di Oreste da parte di Elettra e che qui si traduce in un abbraccio incalzante e reiterato, quasi un salto impetuoso e carnale di Elettra fra le braccia del fratello. Il resto (gli odi atavici, le accensioni degli istinti primordiali) era silenzio: il silenzio della scena iniziale, della insistita ritualità di gesti e movimenti, che sostituiva – non sempre e mai abbastanza – l’inutile enfaticità della parola che vuol dire l’indicibile: i morti non si seppelliscono mai.

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