Sauro BORELLI – L’albergo di un altro mondo (“Grand Hotel Hotel”, un film di Wes Anderson)

 

 

 

Il mestiere del critico



L’ ALBERGO DI UN ALTRO MONDO


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“Grand Budapest Hotel”, un film  di Wes Anderson(che deve molto a Stefan Zweig)

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E’ accaduto a Nizza, sulla Costa azzurra, nel 1934: “Quella che stava entrando nell’albergo Westminster, sulla Promenade des Anglais, sembrava una normale coppia borghese. Friderike aveva i capelli corti e lo sguardo risoluto ma l’eleganza compassata di Stefan Zweig non riusciva ad attenuare l’estraneità del suo sguardo al presente. I suoi occhi sembravano sempre scorgere qualcosa di inquietante…”. Così riferisce nel suo bel libro rapsodico Il romanzo della Costa Azzurra Giuseppe Scaraffia, un’incursione a metà tra immaginario e realtà sui personaggi, i luoghi che caratterizzarono, tra la fine Ottocento e il Novecento, la vita, le vicende, le trasgressioni, gli avventurosi eventi verificatisi sulla riviera francese – da Marsiglia a Mentone – in un arco storico-esistenziale per tanti versi memorabile.

Perché questa curiosa premessa? Semplice, quel nome, Stefan Zweig è, per sicuri indizi, alla radice del nuovo film di Wes Anderson, eccentrico cineasta americano, dal titolo sintomatico Grand Budapest Hotel, un intrico evocativo di plurime esperienze fantastiche (ma neanche tanto) dipanatesi nel décor tra liberty e art nouveau in un luogo di vacanza mitteleuropeo, in origine di gran lusso, poi, attraverso gli anni tra le due guerre, sempre più in declino e scarsamente frequentato.

In che modo e perché Zweig c’entra, dunque, col menzionato Grand Budapest Hotel? E’ presto detto. La traccia narrativa di questo nuovo film di Wes Anderson si rifà  direttamente agli scritti, appunto, di Zweig che, giusto nell’anno 1934, quando in fuga dalla Germania nazista vagava per l’Europa in allarme, immaginò la storia del concierge Gustav, servo-padrone del sofisticato albergo in questione, incrociando via via le silouettes vitalistiche di ricche damazze e di galanti avventurieri, sempre in amore e in guerra con vicissitudini e fatti d’una vita tutta artefatta.

Zweig quella vita, quei giorni li stava giusto vivendo (anzi soffrendo) proprio sulla sua personale, faticata esistenza. Di qui, certi scritti, per quanto di fantasia, manifestamente rivelatori di un mondo, di un’epoca apparentemente senza grandi problemi e, in effetti, foriera di sconvolgenti novità (le minacce del nazismo già al potere, ad esempio). Tra l’altro, Zweig, d’origine austriaca e già autore di sicuro avvenire, finirà più tardi, nel 1942, sublimando incongruamente la sua avventurosa parabola umana con il suicidio a Petropolis, nei pressi della città brasiliana Rio de Janeiro. Tra le sue cose da ricordare l’esemplare racconto sentimentale Lettera da una sconosciuta a suo tempo portato sullo schermo col bellissimo film omonimo di Max Ophüls (interpreti gli smaglianti divi del momento Joan Fontaine e Louis Jourdan).

Tornando ora alla nuova fatica di Wes Anderson, resta da dire che il plot narrativo s’inoltra e s’ingarbuglia progressivamente nelle vicende del campeggiante Gustav che, di volta in volta arbitro della sua vita e di uomini e donne divaganti per i saloni e i personaggi del Grand Hotel Budapest; come anche ripetutamente vittima di persecutori e poliziotti si ritrova nonostante tutto e assistito da un giovane emulo di nome Zero nei frangenti che la corrusca realtà che lo circonda determina inesorabilmente.

Districare il garbuglio di questi movimenti ed eventi convulsi, concitati non serve qui a niente. Basti sapere che l’ormai degradato aspetto del vissuto Grand Budapest Hotel rimarrà nella mente e, soprattutto, negli occhi per quel suo crogiuolo di esistenze allo sbando, di costumi sontuosi – non a caso ideati con raffinata eleganza da Milena Canonero –, di rovinose abdicazioni e drammatici sussulti epocali, come un retrospettivo sguardo su un “altrove” fatto di sbrilluccicanti sogni e di transeunti sentimenti tutti svaniti, fracassati dal tempo.

Certo, la temerarietà di Wes Anderson è grande. Tanto che questo suo personalissimo, nuovo cimento può essere considerato, al contempo, un’azzardata impresa tutta intrisa di smanie e accensioni fantastiche o piuttosto un insieme di segnali cifrati su un universo “altro”, alieno ove, ad essere longanimi (come si dice), “naufragar m’è dolce in questo mare”.

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