Agata MOTTA- Il mito e le sue cicliche derive (“Alcesti” al Teatro Libero di Palermo)

 

 

 

 

Lo spettatore accorto

 

IL MITO E LE SUE CICLICHE DERIVE

 

“Alcesti” al Teatro Libero di Palermo

Non è necessario riportare alla memoria la tragedia euripidea, anomala per il vago lieto fine in cui Alcesti e lo sposo Admeto si ricongiungono nonostante il crudele accordo con le Parche. L’”Alkestis” proposto al Libero, a conclusione della ricca anteprima di stagione, è tutta un’altra storia che dal mito raccoglie sollecitazioni e se ne nutre, ma solo per ricrearlo con suggestioni contemporanee e, per certi aspetti, paradossalmente atemporali. La regista, Lia Chiappara, e il drammaturgo, Manlio Marinelli, hanno lavorato con comuni intenti sulla possibilità di una tragedia contemporanea nella quale innestare eterne utopie e cicliche derive.

Nella sapiente alchimia drammaturgica e recitativa, tenuta assieme e ricostituita continuamente da una regia equilibrata e sorniona, che trova nell’alternanza dei tempi scenici e dei toni il punto di forza, lo squallore di un mondo infestato dalla violenza e dall’asfissia intellettuale si colora a sprazzi di involontaria (ovviamente solo negli effetti ma non certo nell’architettura testuale) comicità, attraverso l’uso corrosivo del riso al quale da sempre è affidata la capacità di svelare e snaturare i meccanismi del potere. Il tutto è racchiuso dentro una raffinata cornice narrativa che non disdegna la commistione di generi – dalla satira di oraziana memoria, che non lesina evidenti stoccate a certo satrapismo nostrano, all’esemplarità della favola sino all’aulico registro propriamente tragico – con il ricorso al pastiche dialettale e ad ampie parentesi di forte connotazione poetica.

Alkestis, dunque, non è la dolce sposa euripidea che si immola alla Parche per ottenere in cambio la sopravvivenza del marito, ma la donna forte e coraggiosa che non vuole piegarsi al vile ricatto dell’arroganza e della forza bruta. Il potere assoluto, che ha il volto dall’abietto Eracles (Francesco Gulizzi con un ruolo vagamente simile a quello della tragedia greca per certi aspetti caratteriali, ma non per la funzione ad esso affidata) ha imprigionato Admetis e pretende in cambio della sua liberazione una notte di passione con la devota Alkestis.

Egli si fa beffe della morale e di tutti i valori universalmente riconosciuti, ormai privi di senso in questa città immaginaria, stritolata da una guerra insensata (come tutte le guerre del mondo) che fa piazza pulita di sentimenti e di rigurgiti di libertà. La nostra eroina non sa, però, che il suo giovane marito è già stato ucciso e che il suo sacrificio sarà vano. Il Coro ha un ruolo fondamentale nell’orditura degli eventi che vengono per lo più narrati indirettamente o rappresentati solo negli snodi principali. Alkestis (Viviana Lombardo), dunque, è presente più che sulla scena nelle curiose attese e nella compassione dei personaggi, eppure impregna di sé l’incessante andirivieni di stralunati personaggi che hanno come punto d’incontro il cimitero – e in particolare la recente fossa di Admetis – e gli strambi becchini che ne sono interlocutori privilegiati. Rosario Sparno e Luca Iervolino, sempre in coppia e in felice contrapposizione nell’aberrante ed ineludibile incarico del seppellimento, immettono venature fortemente beckettiane ai loro personaggi, testimoni e interpreti di un’epoca in cui la paura vince sull’amore.

Persino Feres (Matteo Contino che, con rapidi cambi, si presta anche al ruolo fortemente comico dell’uomo comune prono ad un potere che veste a festa la barbarie), cui l’eroina chiede aiuto appellandosi alla forza delle parole scritte e al ruolo fondamentale dell’intellettuale nelle epoche buie delle dittature, si ritrae sconfitto: le parole non possono più essere ascoltate da nessuno, se sono sommerse dal rumore delle bombe. Il punto di incontro con l’antenato euripideo è ravvisabile, dunque, solo nella lucida freddezza del rifiuto, lì saggio, qui tendenzialmente vile o opportunamente attendista. Le donne di quel mondo in disfacimento sono frivole o ribelli (Enrica Volponi dalla mimica esagerata ed efficace per gli esiti comici) o sanguigne nell’espressione degli umori popolari (Giorgia Coco che snocciola a raffica difficili abbuffate di parole in lingua e in dialetto); sono donne che vorrebbero essere complici di Alkestis ma che devono invece limitarsi al ruolo di testimoni della sua fine.

Ruggero Mascellino firma musiche di sicuro impatto sulle quali gli attori si inseriscono cantando considerazioni, commenti, frammenti dialogati, e rientrando così nel territorio noto della tragedia classica. La luce del lieto fine non irradia sulla storia, ancora una volta bagnata di sangue colpevole e innocente in un unico destino di morte. Il Tempo, quello eterno dei becchini e del loro lavoro che non conoscerà mai crisi occupazionale, si ferma su un mondo alla rovescia ben rappresentato scenograficamente dal piano inclinato concepito da Dora Argento, sul quale si apre una profonda botola-sepoltura, come una ferita sempre aperta o un sorriso beffardo. In esso, l’assurdo coincide con la normalità; su di esso conviene chiudere gli occhi. La speranza non è affidata all’eroina e al suo inutile sacrificio, ma ai becchini che hanno appreso dalla Morte, continuamente guardata in faccia e proprio per questo temuta, che in essa può trovarsi altra Vita.

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