L’attesa del nemico che non c’è. Dopo il diluvio, l’esordio narrativo di Leonardo Malaguti
Il diluvio, si sa, è catastrofe e punizione ma anche preludio di rinascita e rinnovamento spirituale e materiale. Cosa accadrà dunque nel paesetto “costruito dentro una vera e propria scodella” non appena l’ira divina si sarà placata? Leonardo Malaguti nel suo primo romanzo Dopo il diluvio, finalista al Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2017, edito da ἑxòrma, si inserisce nel solco bizzarro e molto apprezzato di certa produzione contemporanea (Daniel Pennac, Gianni Celati, Massimo Roscia) che, scollandosi apparentemente dalla realtà, esplora le pulsioni più sinistre ed inquietanti di uomini senza più coordinate – siano esse spazio-temporali o affettive o politiche o sociali – per farne oggetto di dissacrante ironia senza mai perdere di vista l’aspetto ludico della scrittura, l’atto del narrare in sé e per sé. Lo stesso Malaguti rivela alcune delle influenze letterarie subìte, come il Woyzeck di Büchner e Il tamburo di latta di Gunter Grass, ma insiste molto su echi cinematografici e soprattutto di arte figurativa con specifico riferimento al caos brulicante che popola i quadri del fiammingo Bruegel.
I personaggi di Malaguti sono improbabili e grotteschi, un campionario di stravaganti creature travolte da eventi meteorologici di colossale portata e minacciate da omicidi, esplosioni di follia, guerre e altre gradevolezze. Sono burattini ridicoli manovrati da un narratore dispettoso, a tratti esterno, cinico e distante, a tratti totalmente immerso nelle parole delle sue creature che giungono senza il filtro del virgolettato del discorso diretto. L’autore li pone di fronte ad una girandola di eventi sempre nuovi e devianti senza attrezzarli però per la singolar tenzone che dovranno affrontare, figurine da fumetto che non tentano nemmeno di lottare contro i mulini a vento. Meglio identificarsi con la folla in un’unica grande voce alla ricerca di un capo carismatico che sappia gestire le emergenze per poi alienarsi nella sostanziale rinuncia alla soluzione razionale; perché in effetti una soluzione andrebbe cercata in questo similgiallo, preso in prestito come genere letterario al solo scopo di scardinarne le regole. Quello di Malaguti è infatti uno stile ironico e spiazzante, che spezza le convenzioni per aderire a personaggi e fatti non convenzionali. E qui lo soccorrono prontamente l’esperienza cinematografica e quella teatrale che porgono la disinvoltura di dialoghi verosimili contraddetti puntualmente dall’assurdità della fabula costantemente protesa al surreale.
Nessuna empatia per questi uomini e per queste donne che si agitano solo se il vento di tempesta soffia dalla loro parte, se sono minacciati direttamente i loro meschini interessi o i loro labili affetti, ma questo fa parte del gioco imposto dall’autore che, con evidenza, si diverte nel farli soffrire, sebbene avverta, tramite il serioso commissario Adam Van Loot, che il paese, inscatolato come tonno sott’olio nella piccola valle, sia attraversato dal fermento, da un’aria di guerra, e non si tratta di “un conflitto da poco, un ruttino di Storia qualunque”. A quale Storia, recente o passata, si alluda non è dato saperlo, non vengono definiti con chiarezza il Tempo e il Luogo, non aiuta l’allusione ad un conflitto con i russi di qualche decennio addietro mentre l’antroponomastica riporta vagamente ad un paese dell’Europa nord orientale.
Comunque vada, per quanto sia indiscutibile la presenza di un sottofondo di inquietante riflessione (gli snodi storici e le prospettive di salvezza, l’autodistruzione della civiltà, la necessità del comando, le fobie alimentate dal potere), la scrittura non consente di prenderlo troppo sul serio e la comicità solletica anche le pagine in cui sono esposti impudicamente cadaveri putrescenti e bestiali violenze, perché la voce narrante inserisce sempre quelle dissonanze – oggetti, parole, gesti – che corrodono anche le atmosfere più gravi senza imprimere ferite nel lettore. Ciò avviene per il pingue e molliccio corpo del sindaco sottoposto a disgustosa autopsia, per la protesi di legno, sulla quale ruzzola il maldestro stupratore della più giovane fanciulla di un bordello nel quale era stato presenza bonaria e paterna, per il braccio spappolato da una mina dell’androgina ragazza che si finge uomo per arruolarsi in una guerra vissuta con slancio futurista, per la formazione di una scalmanata Brigata atta a proteggere il paese dal paventato attacco degli invasori, per le seduzioni letterarie del generale Krauss che si concretizzano nella celebrazione di un’arte bellica tanto perfetta quanto inutile. Certo la crudeltà si insinua a tratti proprio nei momenti in cui il lettore abbassa la guardia, per cui giungono come uno schiaffo episodi come la crocifissione della scrofa gravida o le allusioni alle orribili molestie sul piccolo Lucas.
Il paese è ormai “il nido fecondo di un grande ragno peloso” in cui la paura del “nemico” – chiunque potrebbe esserlo – attecchisce e urla vendetta. Urge un capro espiatorio e trovarlo è semplice, bastano la straniera dal passaporto falso, che si porta addosso la lettera scarlatta della relazione adulterina e di un delitto mai compiuto, e un uomo di chiesa dai robusti appetiti carnali che, nonostante vaghi scrupoli albeggino ancora nella sua coscienza corrotta, si presta a divenire strumento di salvezza estirpando la radice del Male. Il giallo si tinge sempre più di nero, ma il gusto per l’accumulo di eventi e per la scrittura prendono ancora a tratti il sopravvento. Almeno fino al rogo sacrificale in cui si insinua prepotente la commozione e l’autore non si cura più di edulcorare lo squallore con il linguaggio dello sberleffo e di rappresentare (la narrazione diviene sostanzialmente una sequenza filmica) la sofferenza vera per un sogno di fuga intercettato e incenerito dal furore della folla assassina.
Come promesso nel titolo, il diluvio finisce già dopo le prime pagine del romanzo, ma dove stanno la rinascita e il rinnovamento di biblica memoria? Questi meschini uomini che hanno cercato e ottenuto vendetta, contro chi o cosa non lo comprendono bene neanche loro, sono ormai comparse di un pulp che non riescono a rientrare nella normalità (quale?) senza proiettarsi in un futuro indefinito che non non contiene però la parola speranza. Forse il diluvio avrebbe dovuto sommergere tutti.
Una bella prova di scrittura che lascia un certo malessere interiore. Di sicuro anche questo era nelle intenzioni dell’autore.
Leonardo Malaguti, Dopo il diluvio, Edizioni ἑxòrma, Roma, 2018