Vitaliano Brancati “Il bell’Antonio”
@ Anna Di Mauro, 29 ottobre 2025

Gli anni ’50 nella letteratura italiana pullulano di scrittori intensi, raffinati, inquieti, da poco affrancati dalla guerra e dal fascismo, tesi al cambiamento, ma ancora all’ombra di un momento storico dilaniante. Le loro opere grondano amarezza, disorientamento, offrendo una lucida e intensa analisi di un mondo che ha mostrato i segni della barbarie, mentre fa capolino una scintilla di speranza. Chi scrive spera. Vitaliano Brancati rappresenta indubbiamente un interessante esempio di questo humus letterario, anche se il suo nome venne inevitabilmente in parte oscurato da illustri coevi come Pirandello e Sciascia. Tuttavia recenti studi hanno destato l’attenzione sulla produzione del Nostro, avviando un processo di attenta rivalutazione. La sua scrittura speziata, irriverente, raffinata, si affaccia sorniona sin dalle prime righe di questo romanzo del ’49, ambientato in una barocca e polverosa Catania degli anni ’30. Si avverte immediatamente nell’autore siciliano una urgente necessità di dissacrare e ridicolizzare quel mondo piccolo borghese, provinciale, maschilista, profondamente arretrato, conosciuto e vissuto in gioventù, che si affaccia all’orizzonte di una Roma appena sfiorata, capitale dorata di un’Italia “fascistissima”. Lo sguardo serio dell’autore si focalizza per contrasto sul protagonista. La figura dirimente di Antonio Magnano si profila, singolarità discronica, sullo sfondo della società catanese fascista e bigotta. Bello, seduttivo, invidiato dagli amici, concupito dalle donne. La sua storia sembra cominciare con i migliori auspici. Ma. La sua natura timida e gentile si rivelerà “difettosa” a fronte di una mentalità sicula che esige il maschio sessualmente potente. Il claudicante matrimonio con Barbara Puglisi, avvenente rampolla di agiata casata, dopo tre anni di illibatezza della sposa, rivela l’insospettabile difetto: Antonio è impotente. La tragica notizia divulgata “urbi et orbi” trascinerà nel fango il suo nome e sprofonderà il padre nella disperazione fino alla morte, cercata nel parossismo di una sessualità sbandierata e consumata nei postriboli fino all’ultimo respiro, per rivendicare la mascolinità ferita della famiglia, a fronte di una Catania nera e sessuomane.

L’ironia di Brancati, giocando su toni tragicomici, si appunta su questa società miope e ipocrita, mentre tratta con delicatezza il protagonista, la sua situazione, in aperta divergenza con la mentalità retriva e conformista dei suoi conterranei. Paradossalmente l’autore, ormai lontano dalle simpatie iniziali verso il Regime, ci propone un uomo poco mascolino in un’Italia fascista, tronfia, fallofora, aggressiva, omofobica, ma in realtà, fragile nazione schiacciata tra le potenze europee. L’impotenza di Antonio rimanda alla vera impotenza dell’uomo, posto di fronte alla dittatura politica e morale, un sistema aggressivo e violento a cui non è possibile sottrarsi, che la penna di Brancati ridicolizza di pari passo. L’opera infatti contiene altresì i germi di rinnovamento del dopoguerra che passa attraverso la decapitazione di stereotipi desueti, dai totalitarismi alle ossessioni maschiliste, cercando un risvolto umano nell’imperfezione del bellissimo e sfortunato Antonio. Non si tratta pertanto di un romanzo che tratta la natura prettamente sessuomane del maschio siculo, bensì di una denuncia di tono socialpolitico della sua terra natale e dell’Italia, all’ombra delle problematiche sessuali del protagonista.

Dal capolavoro di Brancati fu tratto nel ‘60 l’omonimo film con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale. Definito stendhaliano da Sciascia, questo romanzo suadente, acuto, attuale, sollecita dubbi e riflessioni sulle dinamiche che portano le masse all’acquiescenza, all’omologazione, in questo momento storico in cui l’ombra dei totalitarismi e delle dittature appare all’orizzonte, minacciosa e foriera di possibili scardinamenti della democrazia e della libertà. Interessante e lucidamente lungimirante in proposito la battuta dello zio di Antonio, Ermenegildo al nipote:
“…siamo diventati schiavi di tutto quello che producono le masse: elettricità, radio, telefoni, ferrovie, tranvie. Essendo schiavi di queste cose, ne viene che siamo schiavi delle masse. E queste masse, per i loro diavoli diventano buone buone e lavorano felici e contente solo col fascismo o con il comunismo. Non appena gli dai la libertà, diventano infelici, cattive, turbolente, e tanto si dimenano che la fanno a pezzi e se la mettono sotto i piedi…”
Intelligenti pauca.
Vitaliano Brancati, Il bell’Antonio, Oscar Mondadori, 2025.

