I pretoriani di Flaiano
@Antonio Castronuovo, 14 ottobre 2025
Le recensioni di libri rischiano spesso di essere tediose, senza guizzo. Quelle cinematografiche lo sono quasi sempre: riassuntini della trama, bene la regia, brava la tal attrice, meno bravo il tal attore. A meno che a vedere il film e farne un commento non sia una mente fantasiosa come quella, ad esempio, di un Ennio Flaiano. Che adesso torna in libreria con una scelta di critiche cinematografiche che, intitolate Chiuso per noia, si leggono come prose brevi. Ho detto «torna» perché le sue recensioni erano già pubblicate in precedenti edizioni e il filologo sbotterà: nulla di nuovo o poco di nuovo. Ma come sempre accade quando maneggiamo una novità Adelphi, è la magia editoriale a sorprenderci: la curatrice Anna Longoni ha attuato una selezione dalle tante recensioni di Flaiano in un’antologia bella per la scelta, per l’ordine, anche per il carattere di stampa e l’impaginazione di collana (la Piccola Biblioteca).
Ubbie materialistiche? Niente affatto, e procuro un esempio concreto rifacendomi al modulo della “pubblicità comparativa”. Sfilo dal mio scaffale flaianeo un’edizione precedente, le Nuove lettere d’amore per il cinema pubblicate da Rizzoli nel 1990, e leggo la recensione a 2001: odissea nello spazio apparsa in prima battuta il 2 gennaio 1969 ne «L’Europeo». Poi spalanco il volumetto adelphiano e leggo il medesimo pezzo. Che differenza c’è? Nessuna nel testo, molte nella forma, per cui alla fine l’effetto è che l’attuale “tascabile” invita a farsi leggere. Misteri della bella pagina.
Se poi mi volgo al contenuto, ecco l’effetto di sempre con Flaiano: ogni pezzo è una manifestazione di genio, e ognuno vale da esempio. E poiché sono sulle pagine dell’Odissea del 2001, registro quanto emerge dalla mia lettura (pardon ri-lettura). Per prima cosa il tradimento della memoria: il film di Stanley Kubrick era approdato nelle sale sotto il Natale del 1968, mentre io continuo a pensarlo come cosa degli anni Ottanta o giù di lì. Come passa il tempo. Ma soprattutto: il pezzo snocciola una dopo l’altra osservazioni talentuose, tali da farne un’arguzia in prosa di sicuro diletto, con una cascata di quesiti inerenti la filosofia della vita.
Perché una cosa è certa: questo film «dispiega una certa ironia swiftiana sulle sorti umane e progressive in relazione alla conquista dello Spazio». Si scopre che lo Spazio è praticamente vuoto, che l’Universo è insensibile al pensiero umano; che il mistero del mondo fisico conduce sempre a un mistero che è al di là di noi stessi; che è ridicolo andare nello Spazio ridicolmente prossimo alla Terra; che i computer (Flaiano li chiama, con termine per noi retrò, calcolatori,) saranno perfetti ma fatalmente antropomorfi nel comportamento e dunque prevaricatori; che con un po’ di pazienza si potrà avverare il Grande Ritorno vagamente simboleggiato dalla metamorfosi embrione-anziano. Ironia fredda quella di Kubrick: «si limita a prospettare l’eccezionale come raggiunto e quindi divenuto usuale, quotidiano, fine a se stesso».
E via così: mai una pagina tetra, mai l’uggia oscura del recensore che sembra scrivere come fosse nel buio della sala di proiezione. Luminose e spiritose invece le pagine di Flaiano, nemmeno necessariamente collegate a un film: può anche bastare il cosmo umano che vi volteggia intorno, come nello spassoso pezzo dedicato ai Pretoriani alla porta, le comparse da film “imperiale” che fumano all’ingresso di Cinecittà con «elmi piumati, corazze di bronzo, cosciali di cuoio sbalzato», e sotto i gonnellini color porpora «dei pantaloncini di tela “mare”, unico elemento che riconduca queste sentinelle ad un’epoca meno remota». Cosa c’è dietro queste figure che rammentano l’epoca di Tigellino e Poppea, le «due figure storiche che i romani considerano ormai caratteri di una loro Commedia dell’Arte»?
C’è la mesta verità dell’imperante spirito romano: «severo, magniloquente, energico e farisaico». Perché sia detto: «Gli italiani non hanno mai digerito completamente Roma e le chiedono continuamente il soccorso della sua estetica. Quando la borghesia italiana volle sentirsi sicura, armò le prore, levò le insegne, scomodò le aquile, fece il saluto romano e il passo romano». E insomma, è facile per un Flaiano evocare le radici dello sgarbato Ventennio Nostrano: gli basta una recensione cinematografica. Che funziona da pagina di sociologia, di storia, di antropologia, anche di filosofia della vita. Una recensione che impedisce di chiudere definitivamente col cinema a causa della noia. Purché firmata Flaiano.
Flaiano, Chiuso per noia, Milano, Adelphi, 2025

