Capinera di Rosy Bonfiglio, tratto dal romanzo epistolare Storia di una capinera di Giovanni Verga, al Teatro Parenti: una sola voce che esprime molte voci
@ Rinaldo Caddeo, 11 ottobre 2025

Un oggetto emblematico domina Capinera: la gabbia.
Una capinera è stata chiusa in gabbia. Come spiega la prefazione di Verga, i suoi rapitori, due bambini, per quanto cerchino di curarla e nutrirla, non la riescono a consolare. La capinera, timida, triste e malaticcia, muore in poco tempo, non per mancanza d’acqua e cibo, ma per la privazione della libertà.
Il motivo della gabbia, delle sbarre, si ripresenta in varie forme nel romanzo. Quando è costretta a tornare in monastero, Maria si considera una reclusa. Quando il padre la va a trovare, vorrebbe buttarsi fra le sue braccia ma una grata di ferro sta lì, brutta e fredda, tra il padre e la figlia, a impedirlo.
Vorrebbe scuotere quelle grate di ferro che imprigionano il corpo, torturano lo spirito, svellerle.
Precipita in un’angoscia allucinata e sepolcrale. Nessuno pensa a lei. Nemmeno l’amica, la destinataria del suo epistolario, risponde più alle sue lettere: Perché tutti mi avete abbandonato, Marianna? anche mio padre! anche tu! Bacia gli ultimi fogli che ha scritto e muore come se si addormentasse.
Bonfiglio esordisce e conclude con in mano la gabbia della capinera, che contiene fogli di carta (le sue lettere? La Letteratura?) appallottolati.
Poi indossa un vestito a forma di gabbia: una sorta di crinolina elastica che alza e abbassa, si toglie e rimette. Un’armatura che invano la protegge e di sicuro la esclude dai suoi desideri, dalla libertà, dalla società.
L’inizio del romanzo dipinge la gioia della libertà. Fin dalla prima lettera entra in gioco la contrapposizione tra l’aperto e il chiuso. Il primo è l’archè della vita: l’aria, la luce, la libertà. Il secondo è principio di sofferenza e morte. Il primo è associato alla natura, il secondo al monastero, in particolare, a quello di clausura, cui è designata.
Chi è la voce narrante? Si tratta di Maria, che dall’infanzia è stata mandata in convento dal padre, non per punizione o per incuria, ma per necessità, dopo la morte della moglie. Maria, la capinera, vive temporaneamente in famiglia, cioè con il padre, la matrigna e i due fratellastri, per l’evacuazione del convento a causa del colera, in una casa in campagna, nei paraggi dell’Etna. Siamo nel 1854-55, periodo in cui un giovanissimo Verga vive un’esperienza analoga di fuga in campagna dalla città (Catania) afflitta dal colera.
La matrigna non si prende cura di lei e le concede una libertà di cui non ha mai goduto. Le prime lettere del romanzo ne descrivono l’apoteosi: vedere l’azzurro del cielo e del mare, il verde dei boschi e delle vigne, correre per i campi, scavalcare muriccioli, raccogliere fiorellini, ascoltare il canto degli uccelli, trasognata, sbalordita, tanto da sentirsi in colpa per aver lodato il colera che le ha permesso di scoprire un mondo sconosciuto e una libertà di cui non ha mai goduto.
Maria, poi, (ha quasi vent’anni) scopre l’amore. L’ inquietudine diventa paura, il turbamento passione che flagella il corpo e l’anima: io l’amo! Io l’amo! L’amato è Nino, buonissimo giovane, che frequenta con i genitori e i fratelli. Balla con lui e sarà lui a cercarla. Lei vorrebbe ricambiare ma non può. La matrigna si oppone. Ammonisce Maria a non frequentare più estranei. (Matrigna che riconvoca, con altri elementi, la fiaba di Cenerentola. Ma il finale è ben diverso: Nino non è il Principe Azzurro e la necessità, come sempre in Verga, è più inflessibile dei desideri).
L’epidemia recede. Tutti tornano a casa. Maria ritorna in convento e non dimentica Nino. La passione diventa vergogna, colpa, castigo, tanto più virulenti, quanto più inconfessabili. Divorano la mente e trascinano il corpo nella malattia. Colmo di crudeltà, viene a sapere che Nino s’è sposato con la sorellastra. Le ultime lettere sono un’invocazione di pace e un delirio d’amore.
Con la Bonfiglio si intersecano due orizzonti simbolici, contestualizzati dalle voci e dai suoni del sintetizzatore (Angelo Vitaliano). Uno più ampio che abbraccia l’altro. Il primo, introduttivo dello spettacolo, con brevi inserti vocali ci riporta alla nostra epoca, con parole di Ivano Fossati, di Alda Merini,e di altri, come la testimonianza della lotta delle donne iraniane. Il secondo è il romanzo di Verga. La protagonista interagisce al centro di entrambi.
Rosy Bonfiglio li interpreta con la mobilità di tutto il corpo, soprattutto delle mani su di sé, intorno a sé, contro sé. Con un ricorsivo vestirsi, svestirsi, rivestirsi, (fino alla spoliazione finale), con la mimica di un volto che ride, piange, canta, balbetta, grida, si contrae, si allenta, esprime la forza degli stati d’animo di un’adolescente fuggita nella scrittura. Intonazione siciliana, modulazione limpida, franta, con lunghe pause, rallentamenti, accelerazioni, agile, flessibile, diventa anche la voce degli altri personaggi che circondano Maria. Canta, con raffinati melismi e colorature, un canto melancolico d’amore in siciliano, all’inizio e alla fine.
Meritatissimo tripudio di applausi.
CAPINERA
tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Verga
scritto, diretto e interpretato da Rosy Bonfiglio
musica Angelo Vitaliano
luci Stefano Mazzanti
produzione La memoria del teatro

