Zelinda e l’ingratitudine del mondo. ‘Casa d’altri’ di Silvio D’Arzo, Edizioni Cenere 2021

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Zelinda e l’ingratitudine del mondo. ‘Casa d’altri’ di Silvio D’Arzo, Edizioni Cenere 2021

@Amedeo Ansaldi, 07-04-2022

Silvio D’Arzo, pseudonimo di Ezio Comparoni, nacque da padre ignoto a Reggio Emilia nel 1920 e morì di linfoma di Hodgkin nel 1952 nella stessa città, dove aveva trascorso tutta la sua breve esistenza come insegnante. Scrittore eclettico, fu narratore, saggista e poeta. In vita pubblicò un unico romanzo, ispirato a Robert Louis Stevenson (All’insegna del buon corsiero, 1942, “piccolo malizioso capolavoro” nel giudizio di Giuseppe Marchetti), ma il suo esito più alto resta la novella Casa d’altri, uscita postuma nel 1953 e salutata da Eugenio Montale come un “racconto perfetto”.

L’autore, ricorda il critico Ferdinando Giannessi, “ha lasciato molto rimpianto di sé con questa ultima opera: i lettori più sensibili son convinti che la sua morte precoce abbia tolto alla nostra narrativa una personalità originalissima e sicuramente avviata ad emergere.”

Benché la novella costituisca ben più che una semplice promessa – sia anzi il frutto di un’ispirazione pienamente matura – la fama di Silvio D’Arzo è ancora oggi assai stentata: tanto più opportuna la recente iniziativa delle neonate Edizioni Cenere di riproporre, in questa loro seconda uscita, Casa d’altri all’attenzione del lettore; nell’occasione il racconto è seguito da un denso saggio di Simona Abis e corredato dalle preziose illustrazioni in bianco e nero di Mauro Peri.

Lo spunto narrativo – un’oscura vicenda di miseria post-bellica ambientata nell’appennino emiliano – è alquanto esile. La trama esterna, che riveste un’importanza meramente accessoria, si svolge tutta nell’immaginaria Montelice, sui gelidi e desolati monti nei dintorni di Bobbio (PC). Nel villaggio – poche case di pietra con altrettante stalle, strade di sassi, siepi e sentieri brinati – l’assuefazione alla durezza e alla monotonia di un’esistenza ingrata, che gli uomini condividono con muli, capre e cani, è completa. Le persone sono rotte a ogni fatica e patimento da secoli. Perfino ai funerali è difficile vedere qualcuno piangere: per quello ci sono le prefiche, ancestrale retaggio paganeggiante sopravvissuto a una modernità che ancora si affaccia timidamente in quelle zone remote. La vita si svolge secondo ritmi che sono sempre gli stessi a memoria d’uomo. Dalla mattina alla sera si sentono fin da lontano i campanacci di bronzo delle bestie alla pastura; dalle case esce odor di polenta e castagne bollite, alimenti base della temprata gente del luogo. Gli uomini salgono ai pascoli o vanno alle torbe, le donne cuciono, lavano i panni lungo il canale, fanno legna qua e là per contrastare il gelo degli inverni interminabili. Ogni tanto, è vero, viene “fuori anche un pezzo di sole. Vecchio ottone, oro falso, però: da non potersi fidar più che tanto.” “La gente vive, e basta”, senza sapere e senza chiedersi perché. Montelice è un microcosmo isolato di montagna dove più profondamente che altrove è avvertibile la solitudine. La vita sociale? Tocca il culmine nei preparativi per un santo pellegrinaggio a Oropa o a Loreto, o nell’allestimento degli annuali ‘maggi’ (arcaiche rappresentazioni popolari in costume d’epoca), che rientrano fra i compiti del sacerdote-narratore; nei lazzi volgari dei monelli di paese; nelle chiacchiere, infarcite di sordide e meschine insinuazioni, di pastori e comari. Le conversazioni del reverendo con i suoi parrocchiani e con la pettegola perpetua Melide contenute nel racconto non mancano peraltro di spunti brillanti, condotti dall’autore con divertita sicura ironia.

Il senso profondo del racconto scorre sotterraneo: questo contribuisce a spiegare il meticoloso labor limae a cui l’autore lo ha sottoposto, affinché viva e vibri, nelle sue discrete allusioni, in ogni pagina, ad ogni riga.

Se al di là dello spunto di base, svelato solo nel finale, non c’è quel che si chiama comunemente una trama, è presente però la vita nel senso più vero, con un’aderenza stringente e impietosa alla realtà. I protagonisti dell’anonima ma esemplare vicenda, che si svolge ai margini estremi del mondo civile, sono, appunto, “un prete da sagre e niente altro” dalla corporatura da Falstaff, narratore in prima persona cui è affidata la cura delle anime dello sperduto e aspro villaggio, e tale Zelinda Icci fu Primo, una vecchia che lava “stracci e budella dalla mattina alla sera” presso il canale: una forestiera, “un vecchio ulivo di fosso” di 63 anni, un povero “uccello sbrancato” che abita con una capra vinta alla lotteria in una romita stamberga fuori paese. I due non si conoscono; nei radi incontri, inizialmente casuali, la donna accenna a una domanda che ancora non osa rivolgergli e la cui formulazione rimanda a più riprese in vari abboccamenti infruttuosi nei quali il sacerdote, incuriosito, non trova però il modo di “farle svuotar tutto il sacco”, almeno fino al giorno in cui la povera lavandaia, vincendo il riserbo secolare della sua stirpe, pone faticosamente, nei limiti che le consentono la virginea timidezza e il grado di cultura (“mai aveva parlato così tanto in vita sua”), un interrogativo fondamentale sulla vita e sulla morte, che il religioso, colto di sorpresa, dapprima fraintende usando un’ironia fuori luogo, e al quale poi, nell’ultimo incontro, non riesce a fornire come risposta altro che parole scontate e convenzionali, della cui pochezza è dolorosamente consapevole: alle labbra non gli affiorano che “parole e raccomandazioni e consigli e «per carità» e «cosa dite» e prediche e pagine intere di tutto quel che volete. Tutte cose d’altri, però; cose antiche: e per di più dette mille e una volta. Di mio non una mezza parola. E lì invece ci voleva qualcosa di nuovo e di mio…”. Tramontate da tempo le luminose speranze della giovinezza quando, brillante seminarista, era stato ribattezzato ‘Doctor Hironicus’, si rende conto “di non poter servir più per un caso del genere”, di non essere più buono ormai che per “sagre, olii santi, un matrimonio alla buona”: amara coscienza del fallimento di una intera vita.

Copertina della prima edizione di “Casa d’altri”

Compiutosi il destino della vecchia – dei particolari del quale non veniamo peraltro edotti – l’anziano sacerdote sente arrivato il momento di apprestarsi anch’egli all’ultimo viaggio – che già hanno compiuto Zelinda e la perpetua Melide – verso quella ‘casa d’altri’ che sarà l’estrema dimora di ciascuno di noi, prete o laico, lavandaia o nobildonna (“Allora mi vien sempre più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valigie per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’avere anche il biglietto.”)

Il pudore appare il tratto distintivo della novella. Il protagonista dice all’inizio: “Le parole mi fanno vergogna, ecco il fatto”, e reitera e suggella il concetto in chiusura, ammettendo di “provare vergogna per tutte le parole del mondo”: affermazioni forse curiose sulle labbra di un uomo che ha deciso di raccontare una storia. Ma quanto nel testo è manifestamente espresso rimanda solo a ciò ch’è sottaciuto e che costituisce in definitiva il vero nucleo della narrazione. “In Casa d’altri ogni cosa è e non è: tutto è ‘forse’, ‘quasi’, come se ma non proprio, per modo di dire, in un’autocorrezione infinita e con quella cautela severa che non lascia scampo”. “Il breve racconto, realisticamente impiantato su una lenta cronaca di freddo e di disagi, si svolge con arcana monotonia, e la vicenda è come uno smorto incubo, dove le cose accennate finiscono per prevalere su quelle dette.” (Ferdinando Giannessi)

Proprio in ragione di questo suo naturale riserbo, per un equivoco cui non è estraneo il clima culturale di quel secondo dopoguerra, la proposta di pubblicazione di uno dei più importanti racconti della letteratura italiana del ‘900 – forse il più bello in assoluto secondo Goffredo Fofi – sarà respinta da nomi eccellenti quali Cesare Pavese (“Un’esile novella, di gracile respiro, di vitalità molto tenue. […] Non mi interessa affatto, a morte!”) e Natalia Ginzburg (“Niente di più che una novella lunga, con un fiato da passerotto”). Casa d’altri vedrà la luce solo un mese dopo la morte dell’autore grazie all’interessamento di Attilio Bertolucci e all’impegno e alla consueta generosa lungimiranza di Giorgio Bassani – critico avvertito nonché grande scrittore lungamente misconosciuto, quando non deriso, da certi ambienti orgogliosamente ‘progressisti’ – che pochi anni dopo ripeterà la scoperta postuma con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, altro romanzo in radicale disaccordo con il gusto allora egemone.

D’altronde di questa ‘inattualità’ era pienamente – e polemicamente – consapevole lo stesso Silvio D’Arzo, come segnala nella puntuale postfazione la curatrice Simona Abis.

Non che il racconto non sia in qualche modo inquadrato storicamente. Un paio di accenni fanno intendere quanto viva fosse ancora la memoria dell’occupazione nazista finanche in quei luoghi impervi e dimenticati dagli uomini e da Dio. Qualche anno prima “i tedeschi avevano bruciato anche i sassi”: con una fiammata improvvisa la storia aveva portato la sua devastazione e i suoi strazi fino a Montelice, quattro case nell’Appennino reggiano; poi il paese era ripiombato nel suo secolare isolamento. Certo: le prime industrie già sorgevano a valle e lo spettro del comunismo si aggirava come un’oscura minaccia nell’intero Occidente. La lontana eco di quei fenomeni non mancava di giungere fin lì (“Da un po’ di tempo per noi preti non spira troppo buon’aria.”). Anche il nuovo curato della parrocchia limitrofa di Braino gli chiederà come si stia in zona quanto a “comunisti, moralità e via dicendo”.

Ma non sono che accenni. Il tema centrale, metastorico, del racconto è il Nulla in cui confluisce ogni esperienza umana: un concetto irriducibilmente estraneo agli intellettuali del tempo, impegnati nel tentativo di trasmettere agli italiani, dopo la ventennale parentesi littoria, nuovi valori civili. L’imperante neorealismo imponeva “all’arte e in generale alla cultura un preciso impegno” politico e sociale inteso a una “radicale promozione etica dell’individuo e della comunità”, proprio laddove Silvio D’Arzo, refrattario a qualsiasi prospettiva di rigenerazione sociale, “proponeva una nuova idea di umanità, scaturita da una storia tutta interiore di anime”. Come rilevato acutamente da Enzo Siciliano, in Casa d’altri “la vita, comunque la storia vi sia passata sopra, per quei boschi irti di pruni, per quelle petraie incise dalle profonde fessure dei torrenti, sembra consegnata all’eternità”: contravvenendo alle tendenze prevalenti, l’autore ci invita “a un’interpretazione del racconto assai più esistenziale che storica […]. I personaggi, così come i fatti, sono più reali quanto più sono intimi, votati e protesi verso sé stessi”. Il ‘vero’ darziano è, insomma, qualcosa di radicalmente diverso dal ‘vero’ neorealista, al quale lo scrittore reggiano era decisamente inviso e contro cui anzi scaglierà en passant i propri strali polemici nell’importante saggio su Henry James: “Nessuno avrebbe tanto diritto al nome di fantasma quanto alcuni personaggi pieni di sangue e d’appetito di certa nostra recente produzione”.

I personaggi di Casa d’altri si muovono, dignitosi e senza abbandoni, con un loro fermo, altero disincanto […], nella mancanza di qualsivoglia speranza”, quasi di là dal tempo e dallo spazio, indifferenti ai rapporti e alle rivendicazioni sociali. “La solitudine di Zelinda è al di fuori di qualsiasi contesto collettivo: ella non è sola in relazione a una circostanza, ma è sola visceralmente, inesorabilmente, mortalmente”. La recalcitrante e infantile lavandaia oppone alla durezza e all’ingratitudine del mondo circostante il silenzio, la dignità, l’esempio della sua umile vita.

Il senso del fallimento incarnato dai personaggi della novella non deriva, come nei neorealisti, da circostanze contingenti e rimediabili quali ingiustizie sociali o crisi di valori, ma si radica, nel ripudio di tutte le vane illusioni al quale ci condanna la dignità intellettuale, nella eterna condizione umana che segna ognuno di noi dalla nascita.

Il sacerdote-narratore, la natura della cui fede religiosa appare quanto meno contrastata – e, forse, tanto più autentica per questo – ha in realtà una consapevolezza disperante dell’uomo e della sua vicenda terrena in netto contrasto con l’auto-definizione di “prete da sagre e niente altro”. Entrambi i protagonisti dello scarno, essenziale racconto, basato quasi sul nulla (se nulla può chiamarsi un dilemma capitale che investe la vita e la morte), hanno una immediatezza e una dimensione ‘classiche’ che lo pongono ben oltre i limiti di un’oscura storia della provincia italiana del secondo dopoguerra.

Le citazioni virgolettate senza indicazione dell’autore sono tratte dalla post-fazione “Casa d’altri o lo stile dell’incertezza” della curatrice Simona Abis.

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Nata nel 2020, Edizioni Cenere è una casa editrice che pensa in piccolo, senza clamori, senza pretese: un timido compromesso tra la parola e il silenzio. La bellezza cui aspira è quella che ama nascondersi – volatile e senza peso, come la cenere.
I libri fino a oggi pubblicati, in tiratura limitata e numerati a mano, sono quattro:
Simona Abis, A mani di carta. Racconti, con illustrazioni di Mauro Peri
Silvio D’Arzo, Casa d’altri, con illustrazioni di Mauro Peri
Mariella Smiroldo, Il bianco della neve mi confonde. Poesie, con illustrazioni di Mauro Peri
Anna Cavalletti, L’esatta divisione dell’aria. Diari 1942-1943

Di prossima uscita:
Federica Masetti, Ceronetti non Ceronetti. Diari, con illustrazioni di Federica Masetti
Elia Abis, Vita ordinaria di un carabiniere. Diari, con illustrazioni di Simona Abis.

Per informazioni in merito all’acquisto delle copie, scrivere a edizionicenere@gmail.com

Author: Amedeo Ansaldi

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