Natale 2019 | “Il libro di tutti i libri”: gli uomini, il cielo, la Torah
@ Stefano G. Manza (23-12-2019)
Come diceva Cioran, lo scettico e l’incredulo sono i più idonei ad abbracciare con equanimità l’insieme dei reperti religiosi dell’umano, poiché intraprendono di volta in volta solo “relazioni platoniche” con queste testimonianze, rimanendo saldamente attaccati alla “moglie nel profondo”: la disillusione.
Solo così si trasvola di fiore in fiore senza lasciarsi inebriare eccessivamente dall’uno o dall’altro calice: solo così ci si preserva dall’adulterio, dall’abbandonare la lucidità.
Alla testa degli increduli, due capibranco hanno scelto di illustrarci con la lente della loro narrazione lo scrigno magico della cultura biblica: Calasso ci accompagna nei meandri dei libri storici; Ceronetti ci mostra, con la musa dissacrante della sua traduzione, lo splendore crespuscolare dei libri sapienziali.
Siamo trascinati nell’avvicendarsi delle epoche “eroiche” del mondo: eppure le figure non giganteggiano, non offendono il silenzio della lettura sollevando il loro nome oltre lo scoglio della pagina.
Qui, Salomone, Davide, Assalonne, Samuele ed Eliseo sono “solamente” gli specchi opachi delle proprie azioni.
Finanche Jahvè è colto nella sua complessità comportamentistica; nel gioco balenante del suo decreto, nell’enigmaticità corrucciata dei suoi precetti.
La mano umana degli autori della Bibbia si staglia sulle parole della Creazione… questo libro, questo corpo, questo florilegio di amori e idiosincrasie, quest’encliclopedia del nomadismo e della voluttuosa sedentarietà cananea, questa fiaba in cui “dementia” e “sapientia” si abbracciano in un turbine sconcertante, ci appare finalmente nella veste di grande letteratura.
Lo penna unica di Calasso non lascia nulla al caso: le parole-chiave si inabissano sotto la coltre serica della narrazione per riaffiorare di volta in volta nei contesti più inattesi.
Ci capita di pensare: “le abbiamo ritrovate lì, e non ce ne siamo avveduti”.
Herem, sacrificio, censimento, moira, acque, idoli…
Lo stile musivo del racconto brulica di questi nomi.
La cadenza dell’incedere narrativo accompagna la mente in una lunga canzone, nell’invocazione a un cantico che prosegue sempre la “mise en abyme” propria della parola biblica.
La parola biblica… essa è viva e raggiante, e respira.
In queste righe, nella rigidità consonantica dell’interlineare ebraico, un grande sapere ha scolpito il monumento di una civiltà, e ce l’ha consegnata intatta e curata come un balsamo orientale conservato per una regina.
Ne “Il libro di tutti i libri”, il lume attento della fede non ripara dalla possibilità di incespicare, anzi…
Il credente si perderebbe, e a ragione, nella radialità vertiginosa dell’eclettismo, giungendo magari a osteggiare lo sguardo disilluso e fin troppo spigliato del “collezionista di immagini perdute”.
Il letterato, dal canto suo, ammicca già alla complice penna e si prepara a godere di una riscrittura dell’infinito.
A cosa ci chiama, infatti, la lettura di questo testo magnifico se non a una continuazione individuale, a un perpetuo arrovellarsi sul significato di quelle parole che, se appiccicate, si crede formino il nome dell’Eterno, e dunque il DNA delle nostre vite inscritte in Lui?
Altro spunto. Altra indicazione fornitaci dalla lente preziosa dell’Autore: il mondo ebraico, e in genere, le società orientali, come frutto di una potente commistione cultuale e culturale, come sbocco di una compagine irrelata al suo interno da ponti significativamente eretti verso Est o verso il mondo camitico.
Come fascio di suggestioni provenienti dai luoghi più remoti.
La stessa genealogia del Messia assomma in sé il massimo dell’esotismo, dell’eros, dell’erranza…
Il pensiero del lettore avvezzo alle passioni dell’Autore si allontana sempre di più verso Levante: sempre più, ma senza prendere mai congedo dall’Occidente.
Anche alle porte dell’alba, infatti, ci troviamo sulle spalle il fardello del nostro emisfero; anche lì, “linguaggio”, “letteratura”,” filosofia”,” problema”, “salvazione”, saranno le parole del nostro cuore.
Non godrà dunque quel lettore pensando al parallelismo lampante tra le ultime parole di re Davide, che decanta la figura dell’optimus princeps che è simile alla “luce del mattino…che fa brillare l’erba sulla terra dopo la pioggia”, e l’idea confuciana di regalità?
Non danzerà anche il suo cuore (e su un tappeto abbastanza insperato, come quello irsuto e un po’ algido del monoteismo israelitico) sentendo suonare all’unisono, nei campi, la lira di Davide e i monili di Krishna con le sue devotissime gopi?
In Calasso, come pure in Eliade, l’antropologia diventa musica, si fa evento estetico;
La demologia si trasfigura in teatro; un teatro pervaso da un alito di vento che non potrà mai essere lo havel havelim, il fumo, cioè, il soffio del vacuo, la “vanità delle vanità”; ma lo pneuma, il respiro confortante della Sapienza che ha ispirato i saggi.
Come ci ricorda il Nostro, appoggiandosi a Freud, le “ tracce mnestiche” alla base di ogni attività umana e di tutte le nostre energie come individui e come collettività rimangono le forme perfette, le tappe obbligate del labirinto dei simboli, qualora si intenda prodigarsi nel disvelamento della propria Arte.