Al Quirino di Roma, si replica “Il silenzio grande” di Maurizio De Giovanni. Regia di Alessandro Gassmann

  

Teatro Quirino di Roma

 

Come banalizzare un buon copione

Di scena, “Il silenzio grande”

°°°

Per caso,  non a caso… (Alda Merini)

Alla sua seconda esperienza drammaturgica, sempre in tandem con Alessandro Gassmann (per il quale aveva  curato la trasposizione scenica di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”), Maurizio De Giovanni va incontro a una tematica che, senza filtro alcuno, è – in prima battuta- una amara, veridica riflessione  sulla caducità del successo, in specie dello scrittore, maturata nell’oggettiva fortuna che, oggi, ‘bacia in fronte’ la sua attività di conclamato giallista, dalla serie del Commissario Ricciardi al best seller “I bastardi di Pizzofalcone” (di cui Gassmann è stato   promoter per la trasposizione televisiva).

“Il silenzio grande” altri non è –infatti- che il blocco, l’afasia, il senso di smarrimento e “negazione del vero” che sorprende un autore nel rendersi conto che la sua ispirazione è in via di esaurimento e che le conseguenze pratiche della sua ‘assenza’ dal circuito editoriale stanno mandando in rovina il suo nucleo familiare.  Come   meglio sintetizzare?  Guadagni e potere interdittivo del denaro quando i diritti d’autore e Siae “se la svignano” da insalutati ospiti: tema ‘forte’ e su cui, come vedremo,  non c’è nulla da ridere (o sorriderne).

 Con le migliori intenzioni e palesi reminiscenze da Ibsen e Cechov, De Giovanni imbastisce (alla sola lettura) un copione onesto, veritiero e sofferto, ove la gelida aria dello di sbaraccamento ed del fine corsa ha una   valenza plurima, esistenziale e materiale, parentale e  singolare: per ciascuno dei componenti l’ ‘interno familiare’,  ovvero personaggi essenzializzati  nel loro essere mediamente problematici, trepidanti, disillusi, introversi\logorroici,  ciascuno a suo modo. Dalla moglie che tace ed è tenace al figlio che approfitta per rivelarsi omosessuale (una pacifica liberazione), dalla figliola che  annuncia di essere incinta di un uomo anziano e sposato alla devota governante che funge da nume tutelare, e sapienziale, che è “saggezza e abnegazione” dei cuori semplici.

Non v’è tragedia, ma solo ‘naturalezza’, in ciò che viene dialogato mentre gli accadimenti precipitano sino alla vendita del grande appartamento (su cui grave pesante ipoteca) e all’accatastamento di libri e cartoni a mò di feticci che dovrebbero auspicare l’accettazione di una vita diversa, più sobria e lontana da quell’upper class da cui sono in tanti a congedarsi, mestamente o con reattiva morale (un secolo dopo l’aristocrazia agraria de “Il giardino dei ciliegi”).

Pur accreditando  le migliori intenzioni alla regia, e  non senza imbarazzo, ci si chiede, tuttavia, perché Gassmann, piuttosto che  intarsiare  la vulnerabile psicologia dei personaggi- e sprecando una non banale ‘novità’ di drammaturgia italiana- si sia solo preoccupato di   snellire, alleviare, non appesantire la messinscena   mediante tonalità lievi, umoristiche, (auto)  assolutorie:  di colorito partenopeo, tipico delle fiction e delle situation comedy televisive.

E quindi.  Come ti sdrammatizzo un dramma in  cui non trovi traccia o incitamento al burlesco o  eccentrico-barocco (come ad esempio avviene, legittimamente, per  certe partiture di teatro lirico-innovativo,  da Hendel a Gluck, di nuovo assaporabile fra La Scala e lo Sperimentale di Pesaro)?

Trasformandolo in un (qualsiasi) segmento da “Posto al sole” e altri, incontinenti  tormentoni del piccolo schermo- ad usum (deduciamo dai tanti applausi e dalle risate a profusione al solo tintinnare dell’accento napoletano) di un pubblico di bocca buona e assidua  diseducazione alle “immagini narranti e significanti” in linguaggi più complessi del fotoromanzo animato.

Cui dovrebbero dare abbellimento, glamour e  man forte gli ormai inflazionati ologrammi ‘umani’ in movimento e a tre dimensioni, qui affidati alla proiezione-laser del   ghirigoro di  due fanciulli in girotondo, di risme di carta svolazzanti bianche nel vuoto, e un drappello di anzianotti in canotta e mutande, ‘evanescente incarnazione’ dei presunti amanti della ragazza (che in essi “ritrova” il padre…!).

Sul versante degli interpreti e con la sola eccezione della vibratile, compuntamente sofferta Stefania Rocca (nel ruolo della moglie), il resto della compagnia si adegua diligentemente, a rischio anonimato (e nonostante le misurate baldanze con ravvedimenti del protagonista Massimiliano Gallo) alla celiante, bozzettistica, purtroppo irrilevante impostazione dello spettacolo, nel suo insieme.

°°°

Il silenzio grande

Di Maurizio De Giovanni. Regia di Alessandro Gassmann

Con Massimiliano  Gallo Stefania Rocca Monica Nappo  Paola Senatore Jacopo Sorbini

regista assistente Emanuele Maria Bass  scene di Gianluca Amodio

costumi di Mariano, light designer Marco Palmieri suono di Paolo Cillerai   elaborazioni video Marco Schiavoni  musicheoriginali Pivio& Aldo De Scalzi.   Teatro Quirino di Roma  (e successiva  tournée)

 

Aggiornamento a cura di Angelo Pizzuto

Author: Redazionale

Share This Post On