Anna Maria Ortese
Corpo celeste
Piccola Biblioteca Adelphi, 389
1997, 10ª ediz., pp. 164
isbn: 9788845912917
Nei grandi romanzi della Ortese si coglie in filigrana un pensiero, un monologo assorto e vasto, che tocca la realtà in tutti i suoi livelli: anzi, come primo gesto, la distacca dalla sua cornice usuale e vi getta un’altra luce, fino a trasformarla in maniera radicale. Questa opera segreta, che la narrazione al tempo stesso occulta e svela, si dichiara apertamente in alcuni scritti insieme di meditazione e di memoria, solo in parte editi e qui per la prima volta raccolti in volume. Con intensità alta e costante, unita a una luminosa trasparenza, tali prose convergono verso il punto da cui per la Ortese, ma anche per noi, tutti gli altri dipendono: «Restituire al reale, nostro paese compreso, il significato di appartenenza a un’altra realtà, più vasta e inconoscibile, con la quale sembrerebbe necessario, per rinnovarsi, confrontarsi ogni tanto».
Un’altra domanda, ingenua, se permette: crede ancora in qualche cosa?
Naturalmente. Credo in tutto ciò che non vedo, e credo poco in quello che vedo. Per fare un esempio: credo che la terra sia abitata, anche adesso, in modo invisibile. Credo negli spiriti dei boschi, delle montagne, dei deserti, forse in piccoli demoni gentili (tutta la Natura è molto gentile). Credo anche nei morti che non sono più morti (la morte è del giorno solare). Credo nelle apparizioni. Credo nelle piante che sognano e si raccomandano di conservare loro la pioggia. Nelle farfalle che ci osservano, improvvisando, quando occorra, magnifici occhi sulle ali. Credo nel saluto degli uccelli, che sono anime felici, e si sentono all’alba sopra le case… In tutto credo, come i bambini. In una sola cosa non credo: nell’uomo e nella donna, che esistano ancora. Posso sbagliarmi, ma essi mi sembrano ormai luoghi comuni, simulacri di antichi modelli, canne vuote, dove, nelle notti d’inverno, fischia ancora, piegandole, il vento dell’intelligenza, che li sedusse e distrusse.
Stiamo per chiudere, mi perdoni se è solo curiosità. Ma cosa le fa pensare che la Natura (figlia della Ragione, no?) sia viva quanto l’Intelligenza?
Di più! Di più! Perché l’Intelligenza non ci guarda, non ci interroga, la Natura ci interroga continuamente. La Natura ha occhi! Chi non ha mai guardato negli occhi di un figlio o di una figlia della Natura, non ha mai visto nulla di divino – per significare benevolenza, pace – per quanti possano essere gli altari a cui si sarà inginocchiato.
Allude, penso, al suo incontro con la Tartarughina?
Appunto. Mi aiuta, dove sono – come sono -, mi aiuta anche il ricordo della Tartarughina del Levante, una sera di dicembre freddo, dietro un’oscura vetrina. Sì, guardava me, proprio me! Alzò i suoi occhi su quella triste distanza. Penso sempre di tornare là, appoggiare la faccia sulla oscura vetrina, parlarle. È lì la mia patria.
Mi sorprende questa parola, pronunciata così seriamente, appassionatamente. Lei ama… amerebbe ancora, dunque, ciò che si dice… patria?
Naturalmente! Anzi, naturellement! (patria è parola francese). Ma la mia idea di patria è modesta. Amo ciò che è piccolo, amo le cose e creature infinitamente piccole, mute, che ci guardano con coraggio. Esse si appellano a noi dal fondo della loro tristezza e innocenza… ecco la mia idea di patria: lo sguardo mite e interrogante della Tartarughina del Levante, lo sguardo calmo degli Ultimi. Ho lì la mia casa, i miei inni, le memorie, le fiammanti e lacere – per tutti i venti dell’inverno – care Bandiere.
La conversazione è finita. Riprenderemo fra altri anni? Forse ascolterò, coi lettori, parole meno severe sulla intelligenza?
Non da me. Non da luoghi di esilio.