Dizione e aspetti cromatici tra Cesare Pavese e Jean Marie Straub – Danièle Huillet
di Mario Rossi*
“Quando si distacca una storia dalle parole che la esprimono … che cosa rimane? Rimane una vicenda che equivale a un fatto di cronaca, al racconto di un amico … Questo è il nuovo punto di partenza. Si tratta poi di svolgere … la materia tornata grezza in un altro linguaggio”[1]

‘Le amiche’ di Michelangelo Antonioni
Con queste parole Antonioni cercò di difendere, con una lettera aperta a Calvino, la propria riduzione cinematografica di “Tra donne sole” di Pavese e così continuava: “Si sarebbe forse potuto seguire un’altra strada, quella di una sottomissione completa del cinema alla letteratura, per esempio adottando uno “speaker” che leggesse le parole di Pavese, e illustrare queste parole con delle immagini. … Ma io non credo a simili ibridismi”. A simili ibridismi sembrano invece aver creduto Jean Marie Straub e Danièle Huillet e la loro fede in questa scelta appare molto salda visto che hanno ripreso progetti molto simili per struttura di base in un arco di tempo molto lungo. Le due differenti posizioni possono essere così sintetizzate: Antonioni ha cercato di riprodurre per lo schermo il vuoto della vita borghese attraverso la rielaborazione di un fatto di cronaca (il suicidio di Rosetta) proveniente da un’opera letteraria, tralasciando aspetti metanarrativi e metaletterari importanti della vicenda narrata da Pavese (il teatro nella vita, la moda come allestimento teatrale, il teatro della propria infanzia, il carnevale come momento di rappresentazione autentica della vita …), Straub e Huillet hanno cercato di cogliere il nucleo centrale dell’opera di Pavese mantenendo la lettera e lavorando in modo molto preciso sull’immagine e sulla dizione.
Vorrei cercare di riflettere sulle potenzialità dei due strumenti di codificazione culturale, il cinema e la letteratura, e sui mutamenti cui possono andare incontro i tentativi di utilizzare materiali provenienti da un codice per tradurli in un altro attraverso osservazioni sulle caratteristiche cromatiche e sulla prosodia dei lavori “Dalla nube alla resistenza” (1978) e “Quei loro incontri” (2006) di Jean Marie Straub e Danièle Huillet e sulle relazioni tra questi e alcune opere di Pavese. Procederò per saggi circoscritti: prenderò l’avvio da qualche fotogramma tratto da “Quei loro incontri”, passerò poi ad un paio di rilievi sulla “Casa in collina”; proseguirò con una dettagliata analisi di alcuni aspetti del racconto breve “La draga”, aprendo una parentesi intertestuale che da Pavese ci porterà a Dante attraverso Gozzano, e terminerò l’excursus pavesiano con l’evocazione delle atmosfere di una lirica tratta da “Lavorare stanca”. Infine ritornerò ai dialoghi di Straub e Huillet. Per ovvi limiti di spazio l’analisi sarà sintetica e parziale; procederà per saggi esemplari.

‘Quei loro incontri’ di Straub e Huillet
Il titolo dell’ultimo film dei due registi francesi girato nel 2006 e tratto dall’opera di Pavese, è costituito dalla citazione dell’ultima battuta del dialoghetto conclusivo dei Dialoghi con Leucò e allude agli incontri tra dei e uomini avvenuti secondo la tradizione mitologica rpresa da Pavese in epoche remote e in luoghi lontani. Cinematograficamente parlando Quei loro incontri nel complesso è un’opera in forte contrasto nei confronti delle aspettative dello spettatore medio. Anzitutto in essa manca una trama: vengono recitati dialoghi, con lievissimi mutamenti privi di rilievo rispetto al testo di Pavese; il contenuto dei dialoghi rimanda a eventi che non vengono rappresentati sullo schermo, cosicché il voyeurismo dello spettatore abituato al main stream risulta frustrato. In secondo luogo nulla viene concesso ai virtuosismi della telecamera: i personaggi vengono inquadrati di fronte e quasi esclusivamente mentre recitano. Infine la dizione è forzatamente cadenzata e intervallata da pause in punti in cui l’interruzione del flusso del discorso stupisce lo spettatore.
L’avvio del primo episodio merita un breve commento. Le prime inquadrature sono caratterizzate da un forte cromatismo: pietre bianche candide contrapposte alle macchie scure costituite dalle foglie degli alberi agitate dal vento, dalle ombre delle fronde e dal vestiario dei due interlocutori, due cacciatori in abiti moderni, le cui armi sembrano esser messe in rilievo dal contesto e dalla postura. Nel complesso si ha l’impressione di un incontro nel quale i contenuti del dialogo sono più importanti del luogo in cui esso si svolge e del modo in cui la scena è ritratta o costruita. Tuttavia non si possono tacere alcuni aspetti della produzione delle immagini che mettono in questione un’interpretazione naturalistica: la macchina da presa si muove su un piano orizzontale, inquadrando ora i due personaggi, ora un cacciatore e ora l’altro; inoltre l’obiettivo, con l’insistenza iniziale sull’altura battuta dal vento e con i suoi scarsi e ripetuti movimenti, sembra sottolineare il valore di quel poco che viene ripreso. Ci si può chiedere se questi elementi siano presenti nei Dialoghi con Leucò. A livello cromatico possiamo rilevare nell’operetta di Pavese una tendenziale prevalenza delle tinte tenui e la riduzione della varietà a poche tonalità, tanto per i colori esplicitamente nominati quanto per gli oggetti caratterizzati dalla loro collocazione in una precisa area dello spettro cromatico (ad esempio i campi di grano), che sembra ridursi a verde, rosso, giallo e bianco[2]. Inoltre la dizione nei dialoghi di Pavese risulta caratterizzata da un ritmo senza scosse. Non si deve dimenticare che i Dialoghi con Leucò, appunto in quanto dialoghi, hanno spesso un carattere argomentativo, mentre descrizioni e narrazioni servono più a fornire materiale al ragionamento e all’immaginazione che a dar corpo a un racconto organico; di qui l’essenzialità dello sfondo sul quale sono collocati avvenimenti e oggetti.
A titolo di esempio riproduco alcune battute dalla pagina iniziale del primo dialogo. Per evidenziare la lettura degli elementi ritmico-prosodici si ricorrerà ai seguenti artifici: una pausa innaturale presente nei dialoghi di Jean Marie Straub e Daniele Huillet sarà resa con sei punti saranno resi, mentre il trattino indica innaturali continuità nel flusso del discorso che cozzano contro la normale prosodia dell’italiano:
Il monte è incolto, amico. Sull’erba rossa dell’ultimo inverno ci son chiazze di neve. – Sembra il mantello del centauro. Queste alture sono tutte così. Basta un nonnulla, e la campagna …… ritorna la stessa di quando queste cose accadevano (…)
Non avevano né tempo né gusto per perdersi in sogni-Videro cose tremende incredibili, …… e nemmeno stupivano-Si sapeva cos’era. Se mentirono quelli, anche tu allora, quando dici “è mattino” o “vuol piovere”, …… hai perduto la testa.
Nei tre luoghi che registrano le pause più forti vengono isolati oggetti che solo parzialmente trovano riscontro nell’immagine: se la campagna è presente, ma solo indirettamente si può dedurre l’alternanza delle stagioni, le cose incredibili e tremende e il fenomeni meteorologici vengono solo evocati. Le pause prosodiche sembrano invitare lo spettatore ad interrogare lo schermo attraverso il testo.
Abbandoniamo temporaneamente i due cineasti francesi, ma rimaniamo all’interno dell’opera di Pavese per vedere se alcune delle caratteristiche cromatiche e testuali dei Dialoghi possano esser riscontrate anche nella sua restante produzione.

Cesare Pavese
Cominciamo con la Casa in collina. Si tratta di un testo della maturità di Pavese, nel quale possiamo sentire la volontà dell’autore di sostenere la struttura su forti elementi ritmici, sia a livelle topologico (Torino-colline dell’immediata periferia e pianura – Langhe), sia a livello prosodico. Uno di questi elementi portanti si trova nell’ultima pagina del romanzo. Corrado si trova nella casa paterna nelle Langhe e presenta le proprie riflessioni sulla guerra, che, a prescindere dal partito preso dai singoli durante il conflitto informale della Resistenza, viene interpretata come guerra civile (“E dei caduti che ne facciamo? perché sono morti? –Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno”, p. 485). All’interno dell’ultimo capitolo, in cui prevale una prosa particolarmente misurata nella sua essenzialità, si stacca una coppia di frasi fortemente ritmate: “mio padre va e viene in cantina col passo del vecchio Gregorio”. Il ritmo della frase è marcato: prende avvio con una coppia di termini che alternano emissione di suono accentata a emissione di suono non accentata con forte iato su mïo e dialefe tra va ed e; nella parte restante il ritmo si distende e si adegua al dettato della prosa. La singolarità ritmica ci induce, per diversi motivi, a riflettere sulle implicazioni dell’osservazione apparentemente marginale. Anzitutto il ritmo dà plasticità al significato; leggendo i due versi abbiamo quasi l’impressione di esser accompagnati per mano nella cantina della vecchia casa e ci sentiamo a fianco di una persona anziana e saggia. Incalzati dall’insolita regolarità degli accenti, siamo portati a riflettere anche sull’attributo vecchio. Vale la pena di ricordare che in italiano il nome di battesimo Gregorio porta con sé un sapore di solennità: pensiamo ad aggettivi che rimandano alla sfera religiosa come canto gregoriano e calendario gregoriano, o quanto meno alla scarsa frequenza come nome di battesimo, che colloca il mondo di Gregorio in lontani tempi andati[3]. Questa impressione è rinforzata dal fatto che il Gregorio cui si allude compare solo raramente nel romanzo e prevalentemente in parti significative dei capitoli centrali[4]. Anzitutto vediamo di identificarlo. Si tratta del nonno di Cate, la ragazza di cui si invaghisce l’io narrante e si presenta come il gestore dell’osteria, o della frasca o della cascina aperta ai vicini, in cui si ritrovano gli abitanti delle colline torinesi nelle quali si ritira anche Corrado per sfuggire ai pericoli della guerra: si tratta di un luogo che assurge ad emblema di luogo di pace contrapposto alla pericolosa città. Sotto l’aspetto cromatico La casa in collina offre un panorama poco variato: ossessiva la presenza del rosso, tanto nel sangue, quanto nei fiori che diventano maliziosi simboli del desiderio o della provocazione sessuale (si pensi allo scherzo giocato da Corrado ad Elvira). Possiamo quindi concludere che c’è una certa continuità stilistica tra i Dialoghi e la Casa in collina, che può esser sintetizzata nel concetto di “misura”: uso di poco ma meditato materiale.
Facciamo ora un passo indietro nella produzione di Pavese attraverso un prelievo tratto dal Mestiere di vivere. Negli appunti del 1940 troviamo un singolare giudizio su Landolfi: Pavese sostiene che Pietra lunare gli avrebbe rivelato il significato del caprone nella sua poetica. Dobbiamo credere a questa confessione o si tratta piuttosto di civetteria? Possibile che il racconto disponibile già nel ’39 al largo pubblico dei lettori comuni, ma del quale erano stati pubblicati stralci nel ’37 nella rivista letteraria Campo di Marte fosse sfuggito a Pavese? Pietra lunare narra una vicenda i cui personaggi avrebbero potuto trovare spazio nella galleria di immagini di Lavorare stanca. Un ragazzo di città, studente o insegnante di lettere e letterato in proprio, passa un periodo di tempo in un piccolo paese di collina, il paese dei genitori; qui gli si rivela il sesso in tutta la sua ferina potenza e crudeltà. Si innamora di una misteriosa ragazza-capra che lo porta in una isolata zona montagnosa dove i due assistono a una sorta di rito bacchico, in cui una torma di individui affronta in un combattimento impari un uomo, lo sconfigge e quindi lo decapita; all’esecuzione seguono canti e balli, inframmezzati da succulenti bocconi di carne sanguinante. Alla fine il protagonista a malincuore abbandona la campagna per ritornare in città. Anche da un resoconto così succinto non appare difficile riscontrare temi caratteristici della poetica pavesiana: il mondo ferino, la contrapposizione città-campagna, la collina, la centralità dell’esperienza sessuale, il rapporto con la donna come momento di iniziazione al mondo. Tuttavia il linguaggio di Landolfi è quanto di più lontano si possa immaginare dalla prosa di Pavese: aggettivazione ricchissima, uso di termini desueti, neologismi, incursioni nei linguaggi settoriali più diversi, ricorso sistematico ad un uso espressivo della punteggiatura, uso di figure retoriche come l’iperbato e predilezione per la frase complessa o quanto meno all’inserzione di incidentali a danno del semplice accostamento. In questa complessa macchina compositiva l’aggettivo e il sostantivo di colore non assumono lo stesso rilievo che hanno nella asciutta prosa di Pavese, non tanto perché manchino, ma piuttosto perché scompaiono nella grande massa di mezzi linguistici usati per rilevare la narrazione. Inoltre la prosa assume i caratteri di un’esuberanza che non concede nulla al ritmo. Si può quindi supporre che Pavese nei confronti di Landolfi sentisse, più che un’affinità stilistica, una prossimità tematica.
Facciamo ulteriori passi indietro nella carriera letteraria di Pavese fino alla fine degli anni Trenta per un secondo saggio di lettura cromatica attraverso il racconto La draga, avvisando fin d’ora che preferirò la prima stesura, che col titolo di Temporale estivo conosceva un prologo poi cassato.
La vicenda è presto narrata: due ragazze, volendo fare il bagno la mattina presto, prendono a nolo una barca presso una donna nelle vicinanze della confluenza di un affluente col corso maggiore; due uomini hanno la medesima idea e poco più tardi giungono al casotto della barcaiola; un temporale si avvicina e poi scoppia in tutta la sua violenza e una delle due ragazze annega, mentre l’altra trova riparo su una draga arrugginita, che nel frattempo è stata raggiunta dai due ragazzi; qui, invece di trovare aiuto, la ragazza superstite viene violentata da uno dei due; quando toccherebbe all’altro uomo soddisfare le proprie voglie, la ragazza si getta in acqua, ma, stremata, trova la morte tra i flutti. Fin qui una vicenda ben costruita, ma nulla di più. I protagonisti della vicenda sono Bianca, Clara, Aurelio e Bruno. Salta agli occhi una polarizzazione cromatica: le due donne rimandano al bianco attraverso il loro nome di battesimo, l’uno in una declinazione popolare, (Bianca) e l’altro di natura più nobile, caratterizzato dal recupero del nesso latino occlusiva liquida; i nomi dei due ragazzi rimandano tanto al colore cupo della terra umida (Bruno) quanto ai colori chiari, (Aurelio): quest’ultimo presenta una vicinanza cromatica e letteraria con Chiara attraverso la linea chiare fresche e dolci acque, Laura, aura, aurea, Aurelio. Le due ragazze provengono probabilmente dal medesimo ambito sociale in quanto entrambe portano calze di seta, ma mentre Bianca porta un costume da bagno nero, Clara ha i capelli biondi (attributo petrarchesco) e porta un costume da bagno color canarino. Bianca è atletica e coraggiosa; non ha paura del contatto con la natura, è esperta vogatrice e nuotatrice. Clara invece viene presentata come goffa e timorosa all’idea di immergersi nelle acque del fiume. Per quanto riguarda i corpi, si deve sottolineare che Bianca, quando si strapperà il costume urtando contro la draga, farà vedere un lembo di pelle bianca, in contrasto col costume e con la pelle abbronzata delle parti del corpo esposte al sole. Dei due ragazzi si dice poco; in modo piuttosto rude, si picchiano le cosce per riscaldare la pelle accapponata per il freddo della mattina. Bruno esce da una recente pena al carcere cui era stato condannato per motivi non precisati. La barcaiola, che sembrerebbe poco importante, in realtà assume un significato rilevante: è una vecchia terrea, color della terra; sposta le barche con l’aiuto di un raffio, lungo bastone ad uncino. L’acqua è alternativamente dorata dai riflessi del sole e scurita dal moto ondoso e dalle ombre di oggetti o del cielo; il cielo, a sua volta, si copre di nubi che assumono ora riflessi rossastri, ora colore livido (rosso di sera bel tempo si spera, rosso di mattina bel tempo si avvicina). La vicenda assume dunque un carattere simbolico: da un lato forze oscure e dall’altro forze chiare. Da un lato il mondo della città e della classe sociale che più la rappresenta, la borghesia, con una certa nostalgia per un immediato rapporto con la natura; dall’altro il mondo del popolo, espressione di vitalità che però può facilmente degenerare in delinquenza. E, forse, da un lato la femminilità e dall’atro la mascolinità. Questo sistema è turbato dalla presenza di tratti intermedi nelle quattro figure: due manifestano piena aderenza ai ruoli sopra delineati (Clara –purezza– e Bruno –brutalità–), mentre le altre due lasciano intravedere caratteri ibridi (Aurelio –bruto ma non come Bruno, tanto da portare un nome che rimanda all’aurora – e Bianca –borghese ma allo stesso tempo iniziata all’attività fisica e alla vita a contatto con la natura–). Tra di loro la vecchia terrea, che richiama alla mente la morte, tanto per l’aspetto e per lo strumento che usa, quanto per reminiscenze dantesche di lugubri barcaioli infernali. Il racconto La draga / Temporale estivo presenta quindi caratteristiche molto diverse rispetto alle opere precedentemente analizzate: tra le novità spicca l’arricchimento dello spettro cromatico.

Tommaso Landolfi
Se ritorniamo con la mente a Landolfi e tentiamo un confronto tra le emozioni evocate dall’opera dei due narratori, come lettori, sentiamo che, paradossalmente, la vitalità bruciante del tema sessuale è quasi attenuata nell’effervescenza linguistica dell’opera del narratore toscano mentre risulta drammatizzata nella prosa essenziale di Pavese.
Per approfondire il significato dell’uso dei colori in Pavese possiamo tentare una possibile genealogia di luoghi e personaggi del racconto La draga. L’ambientazione, ma soprattutto l’attività della donna addetta alle barche richiama alla mente il luogo dantesco delle Malebolge, in cui diavoli armati di roncigli sono impegnati a tuffare le anime ribelli dei barattieri sotto la pece. Il peccato punito nella quarta bolgia è la “baratteria” e la pena cui sono sottoposti è costituita dall’immersine nella pece bollente e dallo strazio delle loro carni nel caso in cui tentino di uscire dal liquido viscoso. In termini scolastici, il contrappasso potrebbe esser definito come segue; come in vita usarono arti vischiose e nere, così ora sono immersi nella pece vischiosa e nera; inoltre, poiché furono sleali e bugiardi ora sono alla mercé di diavoli sleali e bugiardi.

Cocito, Gustave Doré
Il rimando al testo dantesco è rafforzato da un secondo possibile referente testuale; Invernale di Guido Gozzano, che già aveva giocato la carta intertestuale costruendo il suo testo con materiale derivante dai canti dell’infernale lago ghiacciato di Cocito e da altri luoghi danteschi. La situazione presentata dalla breve lirica di Gozzano non appare drammatica: una compagnia di amici sta pattinando su uno specchio d’acqua ghiacciato, quando un’incrinatura della crosta induce i più ad abbandonare l’avventura; una figura femminile invita l’io narrante a rimanere e ad affrontare il pericolo se veramente l’ama. Il giovane si vede riflesso sulla superficie del ghiaccio e teme di sprofondare sotto il ghiaccio; infine riesce a divincolarsi dalla mano della compagna e a guadagnare la riva. La ragazza continua a pattinare e solo quando non ne può più, ritorna a riva rinfacciando la viltà all’amico. Il riferimento alla cantica dell’Inferno è reso palese tanto dalla ripresa di termini danteschi (“larghe rote” Invernale, v. 16, Inf., XVII, v. 98; “gaietto” Invernale, v. 38 nel senso di variopinto Inf., I, 42) quanto dalla atmosfera di glaciale pericolo di morte che rimanda a Cocito. Il timoroso spasimante della coraggiosa pattinatrice è quindi assimilato a un traditore di un patto e condannato per la sua infrazione a una sepoltura glaciale, alla quale scampa materialmente ma che patisce psicologicamente quando subisce l’affronto dell’offesa della sua virilità di fronte al gruppo di donne che attendono sulla riva: di fronte ad esse la campagna della pericolosa avventura gli sibilerà un velenoso “vile!” (Invernale, v. . Il patto tradito è il legame d’amore che dovrebbe esser suggellato dalla comune disposizione ad affrontare una situazione di alto pericolo; anomalo il fatto che sia la donna a proporre una prova così ardua da affrontare assieme come prova d’amore e che sia proprio lei a vincere. Analogamente infernale la situazione prospettata da Pavese nel racconto Temporale estivo. Anzitutto la figura della barcaiola terrea che tuffa il runciglio per raccogliere le barche, che cozzano sordamente le une contro le altre, rimandandosi il movimento come oggetti senza vita; in secondo luogo la sagoma minacciosa della draga arrossata dalla ruggine, la cui funzione è quella di pescare sabbia dal fondo limaccioso del fiume; infine val la pena notare che uno dei termini preferiti da Pavese per indicare la smorfia del viso è “ghigno” e che Dante per uno dei diavolacci osceni del gruppo di Malebranche ha inventato il nome Draghignazzo e che la barcaiola ha un ghigno di disprezzo nei confronti dei due ragazzi. La serie associativa e generatrice sarebbe dunque Draghignazzo, draga, ghigno. Pavese sembra voler ribaltare la situazione dipinta da Gozzano: le due ragazze, temerarie sfidanti della natura e delle consuetudini sociali (frequenza di luoghi selvaggi poco adatti alla natura femminile secondo la morale borghese di inizio ‘900), vengono punite per eccesso di fiducia nelle proprie forze fisiche (Clara) e nelle loro qualità psichiche (Bianca). Sintomatico il cambiamento cromatico: nella poesia di Gozzano domina il bianco della superficie ghiacciata, mentre nel racconto di Pavese dominano i colori cupi del viso della vecchia, dell’acqua del fiume e in particolar modo di quella che si può vedere dal cassone della draga: l’oro del sole e il rosso delle nubi fanno la loro comparsa solo per esser minacciosamente sostituiti dalle nubi scure e dalla pioggia battente, mentre il rosseggiare della draga rimanda a un’atmosfera di corruzione e abbandono, cui forse non è estraneo nuovamente un richiamo alle Malebranche e, più precisamente, a Draghignazzo. Il bianco designa la pelle di Bianca in patente contrasto col costume da bagno nero, mentre il giallo tenue definisce il colore biondo dei capelli di Clara ribadito dalla scelta del costume canarino[5]. Nel passare da Invernale a Temporale si hanno quindi significative inversioni cromatiche. Simile l’atmosfera di sfida in cui però chi avrà la peggio sarà la donna. Contrapposto lo sfondo cromatico e materiale: il bianco dell’immobile lago ghiacciato in Invernale e l’acqua corrente dal colore scuro in Temporale estivo; verrebbe da dire scura come la pece. Identica l’allusione meteorologica di Invernale e le condizioni meteorologiche dell’avventura in riva al fiume: nella poesia di Gozzano la temeraria pattinatrice è paragonata alla procellaria, mentre nel racconto la “procella” si fa avanti sicura e con effetti materiali nefasti[6]. Sembra quasi di assistere a una vendetta a distanza: Pavese vendica il sesso forte dell’affronto subito ad opera dell’eroina del poema gozzaniano. Per quanto riguarda la prosodia di Temporale estivo possiamo constatare come l’andamento sia molto più nervoso rispetto a quello dei Dialoghi e si possa avvicinare a quello delle prime prove narrative di Pavese, vale a dire a Paesi tuoi e a Ciau Masino. Frasi di lunghezza diseguale, scarsa omogeneità ritmica e rarità di fenomeni quali l’anafora e il parallelismo, ci consentono di affermare che anche su questo piano si ha una rottura rispetto alla produzione tarda.
È giunto il momento di accennare brevemente alla produzione poetica di Pavese. Tolleranza è una poesia del tardo autunno del 1935. In essa viene presentata l’accoglienza che una piccola comunità di paese riserva ad una prostituta. La nuova arrivata ha capelli biondo-ruvido e usa il rossetto; porta una sottana chiara. Le case del borgo sono illuminate da luci rossastre e spandono un fumo azzurrino; l’edificio in cui esercita la sua professione la donna è annerito; le finestre, quando arriva la sera, sono socchiuse, e di notte vengono accecate. Le donne osservano fosche la nuova arrivata e i monelli sono nerastri. Gli aggettivi di colore usati da Pavese in questo testo evocano una realtà in divenire: si pensi all’uso di suffissi come –astro e –ino, alla frequenza di participi passati socchiuso, accecato e alla sinestesia biondo ruvido che fa pensare più a un oggetto dal colore biondo irregolare che a qualcosa di “biondamente” ruvido. Come nel racconto La draga lo spettro cromatico è ampio, ma la prosodia ricorda più le prove finali di Pavese che le opere narrative coeve e quelle della giovinezza.
Ecco un parziale saggio di lettura che può rendere più evidente quanto or ora affermato:
Piove senza un rumore sul prato del mare.
Per le luride strade non passa nessuno.
È discesa dal treno una femmina sola;
tra il cappotto si è vista una chiara sottana
e le gambe sparire nella porta annerita.
Si direbbe un paese sommerso. La sera
stilla fredda su tutte le soglie, e le case
spandon fumo azzurrino. S’accende una luce
tra le imposte accostate nella casa annerita.
L’atmosfera cromatica generale di Lavorare stanca è molto varia: oltre agli aggettivi di colore già menzionati troviamo il viola, tonalità di grigio, il bruno, il verde, il porpora, il vermiglio, il rosa e il giallo; inoltre viene esplicitamente menzionata la trasparenza come qualità visiva di oggetti; infine l’uso di attributi di derivazione verbale come screziato o slavato confermano l’impressione di un universo che attraverso le determinazioni cromatiche viene qualificato come in divenire[7].
Possiamo riassumere il nostro percorso osservando che in generale nel passare dal primo Pavese di poesie e racconti ai Dialoghi si può registrare una riduzione del materiale cromatico e degli strumenti prosodici, a vantaggio dello spessore simbolico dei misurati eventi e dei vaghi oggetti presentati nella pagina.

Jean-Marie Straub e Danièle Huillet
Conclusa la breve incursione attraverso l’opera di Pavese, possiamo ritornare a Jean Marie Straub e Danièle Huillet. Il dialogo di cui abbiamo analizzato per sommi capi le prime sequenze si chiude in modo contrastante rispetto ai precedenti: qui domina la verticalità e una forte contrapposizione cromatica. Dal primo piano di un fossato ai cui margini si trova dell’erba giallognola, si passa attraverso un lento movimento di macchina da presa all’immagine di un borgo; l’immagine si ferma quando lungo la leggera diagonale mediana di una strada in secondo piano passa un motociclista che contrasta, sia per il movimento sia per il rumore, con l’immagine di panni bianchi che sventolano silenziosi all’aria sul tetto di una casa che si trova sullo sfondo; la telecamera riprende il suo movimento verticale fino al fermo d’immagine su una vetta verde sormontata da ripetitori e attraversata da due cavi telefonici. In questa breve sequenza finale si può tentare di vedere condensata l’interpretazione che i due registi offrono dell’opera di Pavese: la natura selvaggia, nel suo alternarsi di vita e morte, si manifestò un tempo sulle cime, lontano dai centri abitati; questi luoghi ora appaiono conquistati da una tecnica, che a volte dimentica la costante presenza del sostrato tragico che sostanzia la nostra vita. La conclusione del film appare aperta all’interrogazione dall’inquadratura sulla quale si ferma la telecamera: il profilo dei colli si trova abbondantemente al di sotto della metà dello schermo, quasi ad invitare lo spettatore a riflettere. La possibile lettura da me proposta è marcata da elementi visivi essenziali: il blu dell’acqua e del cielo, il verde della vegetazione, il biancore delle case e dei panni e il movimento provocato dal vento. Nella medesima direzione ci aveva spinti la recitazione degli attori, che abbiamo sentito all’inizio: tanto innaturale e straniante, quanto aderente alla lettera del testo di Pavese, inducendo così lo spettatore a riflettere sul significato dell’immagine e di quanto detto. Se questa sia un’interpretazione corretta di Pavese e del film di Straub Huillet può esser contestato, ma, in ogni caso, appare chiaro come vi si possa giungere con maggior sicurezza se si mantiene sullo sfondo l’opera di Pavese e quella materia fatta di colori e cadenze che la motivò: contrariamente ad Antonioni, Straub e Huillet danno l’impressione di voler lavorare con la materia letteraria e non sul piano del contenuto “grezzo”. In ciò sembrano aver riflettuto sul concetto d’immagine-racconto col quale a lungo lavorò Pavese o di essersi trovati in spontanea sintonia.
Bibliografia
Caridei Nietta e Brancato Sergio, Cesare Pavese Tra donne sole / Michelangelo Antonioni Le amiche, Edizioni Simone, Napoli, 1996.
Pavese Cesare, Lavorare stanca, Introduzione di Vittorio Coletti e nota al testo di Mariarosa Masoero, Einaudi, Torino, 1998, 22001.
Pavese Cesare, Le poesie, a cura di Mariarosa Masoero, introduzione di Marziano Guglieminetti, Einaudi, Torino, 1998.
Pavese Cesare, Dialoghi con Leucò, (1947), con saggio di Sergio Givone, Einaudi, Torino, 1999.
Pavese Cesare, Tutti i racconti, a cura di Mariarosa Masoero, introduzione di Marziano Guglieminetti, Einaudi, Torino, 2002.
Pavese Cesare, Tutti i romanzi, a cura di Marziano Guglieminetti, Einaudi, Torino, 2000.
[1] Caridei Nietta e Brancato Sergio, Cesare Pavese Tra donne sole / Michelangelo Antonioni Le amiche, Edizioni Simone, Napoli, 1996, pp. 155 – 156.
[2] Anzitutto si deve menzionare Leucò, forma abbreviata di Leucotea. In secondo luogo le occorrenze esplicite di colori. Eccone una rassegna, probabilmente non esente da lacune: La belva „l’acqua verde dello stagno“ Il lago, L’acqua è più azzurra delle prúgnole tra il verde. L’uomo-lupo „Quando l’abbiamo visto chiuso contro i sassi, canuto e insanguinato, sguazzare nel fango, coi denti più rossi degli occhi, chi pensava al suo nome e alle storie di un tempo?“ ivi. „E per empio che fosse, per delitti che avesse commesso, guadagnò che non ebbe più le mani rosse, sfuggì al rimorso e alla speranza, si scordò di essere uomo.“ L’ospite „E sei rosso di pelo, hai le pupille come fiori – darai vigore a questa terra.“ Gli Déi „- Il monte è incolto, amico. Sull’erba rossa dell’ultimo inverno ci son chiazze di neve. Sembra il mantello del centauro.“; La chimera „”Da quel giorno” ripete, “che mi sono arrossato nel sangue del mostro, non ho più avuto vita vera.“; In famiglia, „Castore: Sono degne di loro. Gente che vive nelle rocche di Micene e di Sparta e si mette una maschera d’oro“ ivi, „Tantalo, il primo, certo. Ma poi vissero chiusi con le donne e i mucchi d’oro, sospettosi e scontenti, incapaci di un gesto valido, nutriti dal mare su una povera terra, banchettatori, grassi.“ Gli Argonauti, „Iasone: Violammo il mare, distruggemmo mostri, mettemmo piede sui prati del còlchico – una nube d’oro sfavillava nella selva“ Ivi, „E cos’era impossibile per noi, distruttori del drago, signori della nuvola d’oro?“ Le cavalle „L’età titanica (mostruosa e aurea) è quella di uomini-mostri-dèi indifferenziati. Tu consideri la realtà come sempre titanica, cioè come caos umano-divino (=mostruoso), ch’è la forma perenne della vita.“, Il toro, „Lelego: Che cosa temi? si direbbe che non credi al tuo ritorno. Perché non dài ordine di calare le vele tenebrose e vestire di bianco la nave?“; Le streghe „come quel gioco degli scacchi che Odisseo m’insegnò, tutto regole e norme ma così bello e imprevisto, coi suoi pezzi d’avorio.“ Il toro, „Teseo: Troppo docile, Lelego. Docile come l’erba o come il mare. Tu la guardi e capisci che cede e nemmeno ti sente. Come i prati dell’Ida, dove ci s’inoltra con la mano sulla scure ma viene il momento che il silenzio ti soffoca e devi fermarti.“; Gli Déi „- Nient’altro è possibile pensare quassù. Questi luoghi hanno nomi per sempre. Non rimane che l’erba sotto il cielo, eppure l’alito del vento dà nel ricordo più fragore di una bufera dentro il bosco.“ Schiuma d’onda, „Saffo: E’ possibile questo? Lasciare i giorni, la montagna, i prati – lasciar la terra e diventare schiuma d’onda – tutto perché dovevi?“, Il Toro, „Teseo: E ci dissero cose incredibili. Le loro donne, quelle grandi donne bionde che passavano il mattino stese al sole sui terrazzi della reggia, salgono a notte sui prati dell’Ida e abbraccian gli alberi e le bestie.“ Gli Argonauti: „Iasone: Non era il mare il rischio. Noi s‘era capito, d’approdo in approdo, che quel lungo cammino ci aveva cresciuti. Eravamo più forti staccati da tutto – eravamo come dèi, Mélita – ma appunto questo ci attirava a far cose mortali. Sbarcammo al Fasi, su prati di còlchici.“ Ivi: „Iasone: Violammo il mare, distruggemmo mostri, mettemmo piede sui prati del còlchico – una nube d’oro sfavillava nella selva – eppure morimmo ciascuno di un’arte di maga, ciascuno per l’incanto o la passione di una maga.“, Schiuma d’onda, „Di Britomarti, ninfa cretese e minoica, ci parla Callimaco. Che Saffo fosse lesbica di Lesbo è un fatto spiacevole, ma noi riteniamo più triste il suo scontento della vita, per cui s’indusse a buttarsi in mare, nel mare di Grecia. Questo mare è pieno d’isole e sulla più orientale di tutte, Cipro, scese Afrodite nata dalle onde.“. Tra gli elementi della natura primordiali sono i prati, il mare, i cieli e i boschi con le implicite tonalità di verde, blu, azzurro e indefinite masse scure.
[3] Sarebbe qui quantomeno necessaria una verifica attraverso strumenti anagrafici per accertare la frequenza del nome Gregorio nell’epoca compresa tra l’infanzia di Pavese e quella in cui egli scrisse il romanzo.
[4] IX, p. 412, X, 417, XI, 420 e 421; XIV 440, XVI 450 e XXIII 485.
[5] Da verificare la valenza che intorno agli anni Trenta poteva avere questo sostantivo di colore.
[6] Dati gli interessi di Pavese per la cultura popolare e le sue espressioni linguisitiche sia in italinao sia in inglese non appare avventato il richiamo al proverbio “rosso di sera bel tempo si spera, rosso di mattina mal tempo si avvicina”.
[7] Ciò che è screziato presumibilmente o sta attraversando un processo di trasformazione o lo ha attraversato: slavato è oggetto che è stato a lungo esposto all’azione dell’acqua per lo più corrente.
* Dr. Mag. Mario Rossi – Institut für Romanistik – Universität Wien – AAKH