Mademoiselle, Park Chan-wook fra antinaturalismo ed equilibrio grafico
di Edoardo Fontana 27 agosto 2019
Ambientato negli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale, nella Corea del Sud occupata dai giapponesi, il film prende spunto dal romanzo di Sarah Waters Fingersmith pubblicato nel 2002.
Sebbene possa essere sconveniente svelare la trama di un film, soprattutto qualora si tratti di un thriller, Park Chan-wook, dopo pochi minuti ce la fornisce ponendoci in medias res. L’affascinante e ambiguo conte Fujiwara (interpretato da Ha Jung-woo) si nasconde dietro la parte di un nobile giapponese per raggirare un ricco industriale e bibliofilo nipponico, il signor Kouzuki (Jo In-ung). Il piano è quello di sposare lui la nipote e promessa moglie di Kouzuki: l’orfana ereditiera Hideko (la bella Kim Min-hee) non ancora maggiorenne. È la giovanissima Sookee (interpretata dall’ancora più avvenente Kim Tae-ri), introdotta nella tenuta in cui è relegata Hideko per divenirne l’ancella personale, il passepartout utile a scardinare le regole imposte dallo zio. L’uomo, malgrado la sua millantata decisione è schiavo delle proprie ossessioni che si fanno manifeste non appena − in mezzo ai libri a cui è morbosamente legato − le sue fobie prendono il sopravvento. La biblioteca è serbata in una cripta, alla quale si accede solo per iniziazione e dopo aver superato il simbolo del serpente, quasi dentro i rari ed antichi volumi si celasse, in un animistico ritorno alle origini, la demoniaca divinità, protetta nell’oku-no in, il luogo più sacro della religione shintō.
Sookee è analfabeta e ha sempre vissuto d’espedienti, ma le sue non comuni capacità relazionali e l’intuito le permettono di entrare nelle grazie di Hideko. Tra le due ragazze nasce subito un rapporto indefinibile, trasversale ai ruoli reciproci. Scompaginando la monotonia della vita di Hideko, rinchiusa nella tenuta dello zio, dove il suo compito è limitato a leggere i libri del suo protettore, Sookee dovrebbe spingerla tra le braccia di Fujiwara, per far sì che fugga con lui. Il piano prevede quindi che rinchiusa infine in un manicomio permetta a quest’ultimo, divenuto unico erede, di impossessarsi della sua ingente eredità.
La narrazione dei fatti è scrupolosa, tutto è rappresentato con pedante precisone e l’ambientazione nella casa, per metà giapponese e per metà realizzata in stile vittoriano, è sontuosa. La trama parrebbe, a una prima analisi, lineare, basata su un approfondito studio delle articolate psicologie dei personaggi ma, proprio quando meno lo si attende, tutto quello che è ovvio, si scompone, si fa tenebroso, cupo e nulla − ma davvero nulla − è più davvero ciò che sembra. I punti di vista si moltiplicano, i riferimenti ovvi cominciano ad acquisire nuove valenze in un imprevedibile e sempre più tortuoso viaggio verso i luoghi più oscuri della coscienza e nei meandri di una immoralità che si concretizza nei momenti topici del film dove riunioni di pervertiti si alternano a scene di sadismo sessuale da sempre cardine dell’erotismo giapponese, sublimato oggi, pensate alle fotografie di Araki, come nel passato attraverso una scrittura allegorica e una illustrazione esplicita e poetica.
Si passa così dalla patinata e fiabesca perfezione della casa tradizionale giapponese dove inizia la narrazione, la cui architettura si ispira a una delle più belle residenze giapponesi, la Katsura Rikyu en, villa imperiale di Kyoto, all’incubo delle catene nell’ospedale psichiatrico femminile dove verrà rinchiusa una delle donne, alle catene ancora che dapprima servono per la fustigazione di lady Hideko e quindi ci introducono al cuore cupo della biblioteca, nelle mostruose segrete dove si rivela la vera natura dello zio Kouzuki. Il demone lo invade fino al parossismo della tortura e dell’omicidio che diviene rito iniziatico nel climax della sua morte.
Malgrado alcune crude scene, giocate tarantinamente al limite del grottesco, come, appunto, l’ultima, lunga sequenza dove domande banalmente perverse si contrappongono all’agonia e alla mutilazione in un crescendo disgustoso seppure quasi comico, l’ironia attenua la pesantezza della sceneggiatura. Non mancano alla trama fiale di oppio che possono essere letali, sigarette al mercurio e l’enorme piovra del famoso accoppiamento bestiale disegnato da Katsushika Hokusai per il suo Sogno della moglie del pescatore.
La divisione del film in tre capitoli permette forse di meglio comprenderne i tempi, ma la regia di Park Chan-wook è, come sempre, un parco giochi dove tutto è possibile. La direzione filmica si pone da sola a dettare i ritmi della storia, a indirizzare lo sguardo con una conduzione antinaturalistica che tutto trasforma in allucinazione, in un sogno così vivido che dopo un sonno agitato ci fa dubitare della sua natura.
Le giovani protagoniste volgono i momenti di velato voyeurismo dapprima e di palese erotismo quindi, in una manieristica e teatrale recita: l’estetismo dell’atto sessuale ne oscura la decadente e incompiuta superficialità. L’amore, la passione, sono, in fondo, l’unica possibilità di riscatto. Ce lo rammenta l’ultimo geometrico e sublime amplesso saffico, attraverso i corpi efebici e sinuosi delle due protagoniste che elegantemente tracciano una danza di equilibri grafici a imitare la nobile pornografia dei nudi tratteggiati con la xilografia degli shunga, le immagini erotiche citate nel film e più volte mostrate a corredo dei libri che il sadico Kouzuki collezionava insieme ad altre imprevedibili mostruosità.
Il finale è un inno alla gioia ma non ci si illuda: nessuno è davvero innocente.