La quantità e l’offerta
In felice equazione al NapoliTeatroFestival
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Lo abbiamo già detto altre volte e lo ripetiamo, convinti, anche in questa occasione: la quantità dell’offerta, davvero rilevante, comunque eccessiva in varie kermesse festivaliere, nuoce alla buona fruizione delle stesse; procura inutili indigestioni estetiche, aiuta assai poco a riflettere sulle opere presentate, ne danneggia – per saturazione nei più costanti … fruitori – lo stesso godimento artistico, quando c’è o potrebbe esserci; evita le sane – solo se analitiche e serene – discussioni; in definitiva non fa neppure un buon servizio alle opere che così presenta.
Ovviamente lo spettatore più o meno accorto mette in moto le sue difese: fa le sue scelte, magari per sottrazione del già noto (ma le sorprese possono sempre esserci e le rinunce possono rivelarsi avventate), comunque godendo per eventuali sperimentazioni o sempre salutari conferme. In ultima analisi lo spettatore diventa il vero artefice della rassegna, ritagliandosene i contorni a sua misura.
E’ forse questa la chiave per interpretare l’offerta del direttore artistico del NTF 018 (Ruggero Cappuccio), al suo secondo mandato: quantità e qualità felicemente sposate (basta consultare il variegato programma), con responsabilità di scelta dello spettatore che non si faccia vittima di un’improbabile totalità della fruizione.
In questa logica – senza onnicomprensive quanto inutili od ossessive presenze, con qualche rinvio alla prossima stagione (di cui taluni spettacoli hanno costituito comunque accattivanti anticipazioni), con scelte, a volte, da parte nostra anche arbitrarie, magari dettate dall’estro del momento – si é potuta seguire l’intrigante kermesse napoletana, giunta ormai al termine del suo percorso 2018, decidendo – peraltro – di parlare solo di quanto più o meglio ha colpito la nostra attenzione.
Intrigante, per cominciare, la performance di Isabelle Huppert, splendidamente sola sull’immenso palcoscenico del San Carlo, alle prese con un avvincente testo della Duras (L’amant), offerto con inappuntabile freschezza, qualche traccia di sottile ironia, la grazia e allo stesso tempo la capacità di offrire implicite annotazioni nell’uso appropriato di emissioni vocali durante la narrazione, che solo una grande attrice può e sa dare. Inappuntabile un altro solo, questa volta offerto da un famosissimo ballerino (Baryshnikov) in un felice quanto originale incontro con la poesia, quella del Nobel Joseph Brodsky, centrato sulla fisicità (oltre che sulla vocalità) del primo per esprimere le idee del secondo, così celebrando – evidentemente – un rapporto d’amicizia fra artisti, fatto anche di generose corrispondenze d’amorosi sensi per gli specifici da ciascuno coltivato.
La solitudine dell’attore nel suo bisogno, tuttavia intenso, di comunicazione con l’altro, ha fatto la sua comparsa su altri palcoscenici del festival; in Sala Assoli al Teatro Nuovo, per esempio, metaforicamente espressa in Wakan (La terra divorata): il discorso di un Gran Capo Amerindiano in comunicazione ormai con i soli elementi della natura che comunque ne permettono la sopravvivenza (creazione e interpretazione di Gilles Coullet). Ed è ancora la solitudine, questa volta legata ai personaggi di una storia familiare, a dominare in Regina Madre, il bel testo di Mario Santanelli, per nulla invecchiato, dove – senza soverchi infingimenti – si mostra il sottofondo incestuoso che anima il rapporto fra una madre e suo figlio, icasticamente interpretati da Irma Villa e Fausto Russo Alesi, splendidi anche nel reciproco scambio di ruoli che anima la perversità del rapporto.
Su altra lunghezza d’onda spettacoli più legati al clima, ormai piuttosto spento, di certa neoavanguardia, come Il seme della tempesta del gruppo della Valdoca: forse l’estremo quanto emblematico tentativo di opporsi – teatralmente almeno! – alla “calma apparente” di una generazione, “destare la rivolta”, “spaccare questa convinzione di concretezza, la dittatura dell’apparenza, della misura, della materia dominante”, come recita una efficacissima Mariangela Gualtieri, in piedi su uno sgabello, appoggiata a due lunghi bastoni-trampoli, ormai forse convinta – lei per prima, dall’alto di quella improbabile tribuna! – che la parola vana, appartenente al così pervasivo, “abbondante spettacolo” che ci circonda, anche quando si camuffa da parola sacramentale, poco o nulla può, per assumere passate forme di credibilità, ormai generalmente esposte a tutti i rischi del kitsch.
Ovviamente in ambito teatrale (che, notoriamente, comunque, non è il solo specifico a caratterizzare la kermesse napoletana, rischiando – è inutile negarlo – la dispersione, almeno da parte di quegli spettatori a tutti i costi onnivori!) non sono mancate altre incursioni, oltre le più sopra citate, sulla scena internazionale. Promettente e vivamente atteso, anche per la notorietà del regista, di cui il NTF non ha dimenticato la mirabile Tempesta qui portata nel 2011, ennesimo incontro con la drammaturgia shakespeariana di Declan Donnellan, questa volta alle prese con il Péricles, principe di Tiro: ancora una volta una riattualizzazione di uno dei testi meno frequentati del grande Bardo, immerso sinistramente in un’ambientazione ospedaliera, addirittura manicomiale, per fare della vicenda di Pericle la metafora del delirio di una mente umana, o addirittura proporre il teatro stesso come espressione di una “malattia mortale”; sicuramente con qualche eccesso interpretativo nei confronti del testo, peraltro apprezzabile in tempi di pretesa, quanto assurda, fedeltà ermeneutica.
Di Shakespeare si è visto dell’altro: un Sogno di una notte di mezza estate, messo in scena dal Cantiere Teatrale Flegreo, per la regia di Michele Schiano Di Cola, offerto come ennesimo esempio di una mai tramontata contaminazione fra diverse culture, sui cui pregi, e limiti, converrà tornare in occasione della sicura riproposta invernale dello spettacolo.
I classici dunque ritornano, evidentemente, non sempre contaminati (per fortuna!), ma nemmeno in non più probabili riletture pseudo o parafilologiche; se mai nel tentativo continuo di riscoprirne i lati ancora oscuri o comunque non sempre in altre edizioni presentati, frutto – del resto – della perennità del loro indubbio magistero.

Sei – di Spiro Scimone; regia di Francesco Sframeli. Nella foto Francesco Sframeli e Zoe Pernici.
Foto di Gianni Fiorito
E’ il caso dei celebri Sei personaggi pirandelliani, portati in scena da due nomi noti della superstite sperimentazione teatrale, Scimone e Sframeli. L’adattamento del testo operato dai due attori siciliani, probabilmente a lungo preparato, di sicuro avvertito – nella sua dimensione metateatrale (e non solo) – come imprescindibile antesignano di tanto successivo teatro, anche del loro (se non altro nel suo aspetto strutturalmente straniante, ugualmente provocatorio e, nei contenuti, non diversamente amaro e graffiante), ben si presta a esprimere vecchi ma anche nuovi, comunque sempre attuali timori, per le sorti di una professione (quella attorica) e della società che attualmente ancora la esprime, nelle sue persistenti contraddizioni e i suoi tormentati, nuovi malumori.
Di molti altri spettacoli sarà bene parlare (per non incorrere in inopportune elefantiasi…. critiche!) in altra sede, anche perché per molti di loro è sicura la riproposta nella imminente stagione invernale. D’altra parte i bilanci consuntivi, se non sintetici, lasciano comunque il tempo che trovano. Apprezzabili, piuttosto (per tornare ad un giudizio di massima), le sezioni parallele del festival, dedicate ad altri linguaggi (cinema, musica, danza, sport), dietro la cui offerta si annida sempre il rischio della dispersione, che probabilmente andrebbe aggirato anche con opportuni momenti di riflessione critica (tavole rotonde ecc.) su quanto visto in itinere, ma anche sulle prospettive presenti e future della “forma” teatro così vistosamente qui offerta.
La pluralità, giustamente rivendicata dal direttore artistico (al quale, d’altra parte, va riconosciuta l’ampiezza di vedute che ne caratterizza anche la personale pratica artistica), va comunque temperata con scelte altrettanto coraggiose nella rivisitazione degli specifici, anche se questi, da tempo, hanno giustamente perso la nettezza e l’esclusività (almeno loro!) dei rispettivi, vecchi confini.