61a edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto 29 giugno – 15 luglio
Il Festival dei Due Mondi di Spoleto si svolge quest’anno dal 29 giugno al 15 luglio.
Alla sua 61a edizione, conferma il suo carattere originale e il suo prestigio internazionale. Storico luogo d’incontro tra culture diverse, offre una vetrina d’eccellenza ai grandi artisti e a quelli emergenti ed è promotore di nuove creazioni.
Il Festival si inaugura con la nuova produzione del Minotauro, opera lirica in 10 quadri, commissionata alla compositrice Silvia Colasanti. Alla direzione dell’Orchestra Giovanile Italiana, il Maestro Jonathan Webb.
È una produzione del Festival anche l’oratorio drammatico Jeanne d’Arc au Bûcher di Arthur Honegger e Paul Claudel, che chiude la manifestazione in Piazza Duomo e che avrà come protagonista il premio oscar Marion Cotillard. L’opera, con la regia di Benoît Jacquot, è diretta da Jérémie Rhorer alla testa dell’Orchestra Giovanile Italiana, con il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il Coro delle Voci Bianche.
MINOTAURO
opera lirica in 10 quadri
musica Silvia Colasanti
libretto René de Ceccatty e Giorgio Ferrara
direttore Jonathan Webb
regia e scenografia Giorgio Ferrara
costumi Vincent Darré
luci Fiammetta Baldiserri
Minotauro Gianluca Margheri baritono
Arianna Benedetta Torre soprano
Teseo Matteo Falcier tenore
Orchestra Giovanile Italiana
International Opera Choir
maestro del coro Gea Garatti
produzione Spoleto 61 Festival dei 2Mondi, Fondazione Teatro Coccia di Novara
based on the ballad Minotaurus
by Friedrich Dürrenmatt
Il Minotauro: il mito di un mostro terrificante si trasforma, in quest’opera, in un dramma “umano”, il dramma di un essere che ha a che fare con sé stesso, anzi con l’infinità di sé riflessi negli specchi del labirinto.
A lui si contrappone l’uomo come reale carnefice – capace d’inganno e falsa amicizia – qui rappresentato da Teseo e Arianna.
Ai tre protagonisti vocali dell’opera si aggiunge il Coro degli Uccelli, presagio o testimone di morte, che commenta l’azione, come una sorta di moderno coro greco e una piccola orchestra che incastona le linee vocali dei protagonisti e diventa protagonista essa stessa in alcuni snodi formali dell’azione. La Luna e il Sole accompagnano la sorte implacabile del mostro.
Alla solitudine del Minotauro si contrappongono le giovani vittime a lui destinate, che lo accerchiano minacciosamente prima di essere uccise, una dopo l’altra, in una battaglia tutta percussiva e astratta.
Il finale è affidato al Coro degli Uccelli: una lunga preghiera intima e sofferta su cupi rintocchi di campana.
Silvia Colasanti
29 Giugno
19:00
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
01 Luglio
17:00
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
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MARION COTILLARD
JEANNE D’ARC AU BÛCHER
GIOVANNA D’ARCO AL ROGO
oratorio drammatico in 11 scene e un prologo
musica Arthur Honegger
testo poetico di Paul Claudel
direttore Jérémie Rhorer
maestro del coro Ciro Visco
regia Benoît Jacquot
Jeanne d’Arc Marion Cotillard
Frère Dominique Georges Gay
La Vierge Kiandra Howarth
Marguerite Benedetta Torre
Catherine Martina Belli
Porcus, Heraut, Le Clerc Christopher Lemmings
Une voix, Heraut II, Paysan Zachary Clayton Altman
Une voix d’enfant Alice Gasparollo
La mere aux tonneaux Francesca de Martini
Heraut III, l’âne, Bedford, Jean de Luxembourg, Heurtebise, un paysan Michele Ragno
L’appariteur, Regnault de Chartres, Guillaume de Flavy, Perrot, un prêtre, un autre paysan Carmine Fabbricatore
Orchestra Giovanile Italiana
Coro e Coro Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma
Onde Martenot Jacques Tchamkerten
disegno luci Fiammetta Baldiserri
costumi Marta Rinaldi
produzione Spoleto61 Festival dei 2Mondi
Il premio Oscar Marion Cotillard, per la prima volta al Festival di Spoleto, assieme a Benoît Jacquot, uno dei più raffinati autori della cinematografia francese.
Scritto dal compositore svizzero Arthur Honegger nel 1938, Jeanne d’Arc au Bûcher è un affascinante affresco musicale. Il libretto di Paul Claudel è costruito come un flashback, in cui Giovanna ripensa alla sua vita poco prima di morire. Gli ultimi istanti di vita della martire, illustrati dalla musica evocativa ed innovativa di Honegger, risuonano come un urlo straziante.
15 Luglio
21:00
Piazza Duomo
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LUCINDA CHILDS DANCE COMPANY
LUCINDA CHILDS: A PORTRAIT
coreografie Lucinda Childs
musiche John Adams, Philip Glass, Henryk Gorecki e Simeon ten Holt
performer della Lucinda Childs Dance Company Robert Mark Burke, Katie Dorn, Katherine Helen Fisher, Kyle Gerry, Sarah Hillmon, Anne Lewis, Vincent McCloskey, Sharon Milanese, Patrick John O’Neill, Lonnie Poupard Jr., Caitlin Scranton, Shakirah Stewart
production manager Josh Johnson
prodotto da Pomegranate Arts
executive producer Linda Brumbach
in collaborazione con Change Performing Arts
Carismatica icona della danza minimalista americana, Lucinda Childs è riconosciuta fra i maggiori coreografi al mondo e ancora oggi è considerata una delle “sacerdotesse” della Postmodern Dance. La sua compagnia ne celebra e ripercorre la brillante carriera con una retrospettiva che presenta estratti da alcune fra le sue coreografie più celebri: Radial Courses,Katema, Dance III, Concerto, Canto Ostinato, Available Light.
La carriera di Lucinda Childs inizia nel 1963 al Judson Dance Theater, dove realizza 13 coreografie e danza nei lavori di Yvonne Rainer, Steve Paxton, Robert Morris. Nel 1973 fonda la compagnia che porta il suo nome e per cui ha creato oltre 50 opere, tra assoli e lavori d’ensemble. Nel 1976 partecipa a Einstein on the Beach di Philip Glass e Robert Wilson (per il quale vince un Obie Award). Partecipa a diverse produzioni di Wilson: I Was Sitting on My Patio This Guy Appeared I Was Hallucinating, Quartett di Heiner Muller, il progetto Video 50, l’opera White Raven di Wilson e Glass, Maladie de la Mort di Marguerite Duras, al fianco di Michel Piccoli. Appare in Adam’s Passion di Arvo Pärt e Robert Wilson e collabora a Letter to a Man. Nel 1979, coreografa il suo più famoso e amato lavoro, Dance, con le musiche di Philip Glass e adattamento cinematografico di Sol LeWitt. Nel 2015 rilancia Available Light (del 1983, musiche di John Adams, set di Frank Gehry), presentato al Festival d’Automne di Parigi e al Manchester International Festival. Dal 1981 coreografa opere per compagnie tra cui il Paris Opera Ballet e Les Ballets de Monte Carlo; dirige e coreografa opere tra cui Orfeo e Euridice di Gluck (Opera di Los Angeles), Mozart Zaide (Monnaie a Bruxelles), Le Rossignol e Oedipe di Stravinsky, Farnace di Vivaldi, Alessandro di Händel e Dr. Atomic di John Adams (Opéra du Rhin). Nel 2014 all’Oper Kiel debuttano Atys di Jean Baptiste Lully e Scilla e Glauco di Jean-Marie Leclaire. È Commandeur nell’Ordine delle Arti e delle Lettere francesi, nel 2017 riceve il Leone d’oro dalla Biennale di Venezia e il premio Samuel H. Scripps American Dance Festival per la carriera.
29 Giugno
21:30
Teatro Romano
30 Giugno
21:30
Teatro Romano
01 Luglio
21:30
Teatro Romano
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THEY
di MARIANNA KAVALLIERATOS
presentato da The Watermill Center/Laboratory for performance
diretto da ROBERT WILSON
ideazione – coreografia Marianna Kavallieratos
co-coreografi e performers Alexandros Vardaxogloy, Alexis Fousekis
disegno luci Eleftheria Deko
musica Dom Bouffard
costumi Vasiliki Syrma
assistente coreografa Aspasia-Maria Alexiou
foto Efi Gousi
“I am nobody… Who are you?
Are you nobody too??”
Emily Dickinson
Con They esploriamo il concetto di transgender e l’identità sessuale della natura umana. Osservando il mondo di due creature che entrano nel loro universo di convivenza, trasformazione e infinito gioco di ruoli.
Due creature viaggiano attraverso i loro privati microcosmi e immaginari universi.
Loro talvolta coesistono e altre volte litigano tra loro; loro si incontrano e spariscono, ora esplorandosi, ora ignorandosi l’uno con l’altro.
Loro si trasformano costantemente e vacillano sull’orlo tra passione e odio, modificandosi e interrogandosi ogni volta nella fluidità del desiderio sessuale e della loro indefinita identità.
Definire l’identità di qualcuno, nel mondo contemporaneo, è diventato il modello per la liberazione. Al contrario la nostra preferenza sessuale non implica necessariamente una nostra identità di genere. Il nostro genere biologico non è strettamente connesso con il nostro genere sociale.
12 Luglio
15:00
San Nicolò Sala Convegni
13 Luglio
21:30
San Nicolò Sala Convegni
14 Luglio
15:00
San Nicolò Sala Convegni
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ROBERT CARSEN
THE BEGGAR’S OPERA
L’OPERA DEL MENDICANTE
ballad opera di John Gay e Johann Christoph Pepusch
nuova versione di Ian Burton e Robert Carsen
regia Robert Carsen
ideazione musicale William Christie
Piuttosto che un’opera di per sé, The Beggar’s Opera è una pièce teatrale inframezzata da una sessantina di ballate e melodie, “successi” dell’epoca, alcuni dei quali scritti da famosi compositori come Purcell e Händel. Nell’interpretare questo racconto che, in modo non meno efficace de I Miserabili, tratta di avidità capitalista e disuguaglianza sociale, questa produzione, diretta da Robert Carsen, diviene l’occasione per riscoprire il testo satirico di John Gay e la talentuosa capacità d’improvvisazione dei musicisti di Les Arts Florissants in grado di far rivivere la partitura musicale a ogni rappresentazione, imprimendo il proprio stile, così come accade nella interpretazione jazzistica dei brani musicali.
Scritta da John Gay nel 1728, The Beggar’s Opera è ampiamente riconosciuta come la prima commedia musicale della storia, oltre ad aver precorso i tempi di circa 300 anni rispetto all’attuale moda delle produzioni “jukebox”, che si basano su trame costruite intorno a brani musicali di successo. Gay infatti fece proprie alcune delle melodie più famose del suo tempo, sia classiche che popolari, e le trasformò in un racconto violentemente satirico ambientato tra ladri, protettori e prostitute di Londra. L’opera riscosse grande successo fin dalla sua prima rappresentazione nel 1728, e da allora è stata oggetto di innumerevoli adattamenti teatrali, musicali e cinematografici. Esplora un mondo cinico in cui l’avidità capitalista, il crimine e la disuguaglianza sociale sono all’ordine del giorno. Tutti i politici e i funzionari descritti nella storia sono, per definizione, corrotti, e per tirare avanti a loro non resta altro che essere conniventi.
Suona familiare? In effetti non è cambiato molto da quando l’opera ha debuttato, e ancora oggi i temi de L’opera del mendicante sono quelli che continuano ad imperversare, ossessivi, nella televisione e nel cinema. In questa produzione speriamo di emulare il mood trasgressivo e l’energia senza fine dell’originale. Proprio come fa dire Gay a uno dei suoi personaggi all’inizio del terzo atto, con un’osservazione affilata come un rasoio: “I leoni, i lupi e gli avvoltoi non vivono insieme in orde o greggi. Di tutti gli animali da preda, soltanto l’uomo è socievole. Ognuno di noi caccia il suo vicino, eppure viviamo insieme”.
Robert Carsen
06 Luglio
19:30
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
07 Luglio
17:30
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
08 Luglio
15:00
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
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VICTORIA THIERRÉE CHAPLIN – AURÉLIA THIERRÉE
BELLS AND SPELLS
spettacolo ideato e diretto da Victoria Thierrée Chaplin
con Aurélia Thierrée e Jaime Martinez
scenografia e costume Victoria Thierrée Chaplin
coreografia Armando Santin
Aurélia Thierrée, nei panni di una inguaribile cleptomane, si ritrova improvvisamente in balia degli oggetti di cui cerca di impadronirsi. Meccanismi improbabili, strani incontri, carillon impazziti e mille altre sorprese in un continuo e imprevedibile gioco teatrale.
12 Luglio
20:30
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
13 Luglio
21:30
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
14 Luglio
21:00
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
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GABRIADZE THEATRE
RAMONA
scritto e diretto da Rezo Gabriadze
selezione musicale Rezo Gabriadze, Ellen Japaridze
puppet animators Tamar Amirajibi, Irakli Sharashidze, Tamar Kobakhidze, Anna Nijaradze, Giorgi Giorgobiani, Niko Gelovani
luci Mamuka Bakradze
suono David Khositashvili
Ramona è una romantica e tragica storia d’amore tra due locomotive a vapore d’altri tempi. Nell’Unione Sovietica del dopoguerra il locomotore Ermon deve affrontare un lungo viaggio verso la Siberia dove viene spedito per lavorare alla ricostruzione del paese in tempo di pace. La locomotiva Ramona attende il marito nella piccola stazione di Rioni, coltivando il sogno di vivere felici insieme. Ma la loro separazione dura prima mesi, poi lunghi anni che gli eroi affrontano distanti l’uno dall’altra nella buona e nella cattiva sorte fino a quando un circo itinerante non arriverà in città e la vita di Ramona cambierà per sempre. Gli amanti lontani si incontreranno di nuovo, ma in quali circostanze? Riusciranno a ritrovare l’amore perduto?
In scena i poetici personaggi di Rezo Gabriadze, regista teatrale e cinematografico georgiano, ma anche sceneggiatore, scrittore, pittore e scultore, magistrale architetto di uno stile teatrale unico che unisce umorismo a dolore straziante in un mondo di marionette misteriosamente umane.
Ispirato dalla frase di Kipling “La locomotiva è, insieme al motore marino, la cosa più delicata mai costruita dall’uomo” ho deciso di scriverne anche io. Motore a vapore, questa parola da tempo dimenticata, evoca nella mia mente infinite suggestioni: evanescenti nuvole di vapore, l’odore del carbone bruciato, il fumo denso anche con la pioggia. Sono inondato da una forma diversa di felicità pensando al motore a vapore – penso al circo, all’odore del telone, della segatura e della stalla. Il circo della mia infanzia. Due delle mie più grandi passioni che si incontrano: il motore a vapore e il circo. Qualcosa che sembrava dimenticato per sempre. Tutto ciò mi ha spinto a raccontare di quella sensazione paradisiaca in cui mi sono ritrovato, da cui la vita sembrava invece avermi definitivamente allontanato.” Rezo Gabriadze
05 Luglio
21:00
San Simone
06 Luglio
18:00
San Simone
07 Luglio
15:00
San Simone
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ADRIANA ASTI – MARCO TULLIO GIORDANA
DONNA FABIA
da Carlo Porta
film e installazione di Marco Tullio Giordana
con Adriana Asti nel ruolo di Donna Fabia
e Andreapietro Anselmi nel ruolo di don Sigismondo
produzione Spoleto 61 Festival dei 2Mondi
Dire che Carlo Porta (Milano, 1775 – Milano, 1821) e Giuseppe Gioacchino Belli (Roma, 1791 – Roma,1863) sono i massimi esponenti della poesia dialettale dell’Ottocento è far loro un torto. Sono due grandissimi poeti (anzi romanzieri, vedremo poi il perché) che possono ben volteggiare alle altezze dei coevi Foscolo (Zante, 1778 – Turnham Green, 1827) o Leopardi (Recanati, 1798 – Napoli, 1837), il cui valore viene percepito in modo riduttivo per la scelta di esprimersi in madrelingua “plebea” anziché nell’idioma letterario che costituisce di questa quasi una “traduzione”. Se almeno parte del loro corpus poetico l’avessero scritta in italiano (come faranno anche Berchet, Manzoni e gli altri), probabilmente la loro notorietà sarebbe molto più estesa.
Perché considerare Belli e Porta romanzieri? L’oggetto della loro ricerca è l’accurata descrizione di modelli e comportamenti sociali, d’involontario (ma forse no) affresco storico, di tableaux-vivants e dialoghi pronti per il teatro capaci di restituire il loro tempo con tale complessità e ricchezza di sfumature da dilatare enormemente i confini della poesia. Esula da questo contesto un esame più approfondito, chi volesse può approfittare dell’illuminante lavoro di Dante Isella (in C. Porta, Poesie, a cura di D. I., Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, pp. XI-XXIX). Qui vorrei dire solo del criterio adottato nella “traduzione” per rimanere fedele e non perdere il blend aristo-becero di donna Fabia: un misto di arcaismi, fini diciture e termini eleganti mescolati al linguaggio corrente, non senza la civetteria di infilarci qualche bella volgarità. È il mondo dell’aristocrazia lombarda fine ‘700, che regge la sua economia su immensi possedimenti e rendita agraria che permette la bella vita in città e lo sfogo della villeggiatura nelle splendide sontuose lombarde dimore. Con esercito annesso di domestici, cameriere, fattori, giardinieri, cuoche, sguattere, cocchiere, il maggiordomo più realista del Re e finalmente l’immancabile prete di casa, i cui buoni uffici dovrebbero garantire la dolce vita nell’aldilà intanto che si godono bellamente i privilegi dell’aldiquà. Questo spiega perché rimangano alcune parole milanesi monche in coda (Fabron, tal, qual, ugual, simil, infallibil, mandare a dar via, etc ) e i vezzi scurrili che mai abbandonano i signori, sorta di grossolana lingua parallela che scorre nella conversazione come il fosso di fianco alla strada.
Del Porta ho inteso rispettare anche l’entrare e l’uscire dal canone della metrica, secondo il tono umorale del momento: a tratti aulico, altrove “pratico”, senza riguardi per l’infrazione.
La poesia in milanese, per quei pochi che lo parlano (e sia chiaro che per capire tutto devo fare uno sforzo anch’io!) è spassosissima. Per farla intendere a tutti, lo spettacolo aggiunge un controcanto dal vivo: Adriana, in paziente attesa che il film finisca (come in un’installazione di Fabio Mauri o Bob Wilson) per poi snocciolarne con garbo la traduzione. Ho lavorato con Adriana Asti per la prima volta nel 1994, nel film Pasolini, un delitto italiano. Ci siamo ritrovati poi nel tempo: La meglio gioventù (2003), Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005), fino a pochi mesi fa in Nome di donna. Da sempre avremmo desiderato fare insieme qualcosa dedicato al Porta, nume tutelare di entrambi meneghini. Naturalmente si deve immaginare la Milano dei quadri del Piccio (Giovanni Carnevali), di Carlo Canella, Giuseppe Elena, Giuseppe Molteni o i ritratti di Andrea Appiani e di Francesco Hayez.
Il costume di Adriana, più che rifarsi alla moda primi ‘800 (con predilezione napoleonica per stoffe leggere e sottovesti e scialli) riecheggia quella dei precedenti decenni before the Revolution: il nero in cui s’avvolge donna Fabia è quello d’una goyesca Maja vestida che rimpiange la dominazione austriaca, forse addirittura l’antecedente spagnola. Porta il lutto, ma non per ragioni di famiglia, ma per il Sei e Settecento che se ne sono volati via dispettosi.
Il prete di casa è interpretato da Andreapietro Anselmi, obbligato dal languorino allo stomaco a connivente silenzioso assenso.
Marco Tullio Giordana
14 Luglio
18:00
Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti
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SILVIO ORLANDO – LUCIA CALAMARO
SI NOTA ALL’IMBRUNIRE
(SOLITUDINE DA PAESE SPOPOLATO)
di Lucia Calamaro
con Silvio Orlando
e con Riccardo Goretti, Roberto Nobile, Alice Redini, Maria Laura Rondanini
scene Roberto Crea
costumi Ornella e Marina Campanale
luci Umile Vainieri
regia Lucia Calamaro
produzione Cardellino srl
in coproduzione con Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia e Festival dei Due Mondi di Spoleto
I figli Alice, Riccardo e Maria sono arrivati la sera prima. Il fratello maggiore Roberto anche. Un fine settimana nella casa di campagna di Silvio, all’inizio del villaggio spopolato dove vive da solo da tre anni. Silvio ha acquisito, nella solitudine, un buon numero di manie, la più grave di tutte: non vuole più camminare. Non si vuole alzare. Vuole stare e vivere seduto il più possibile. E da solo. Si tratta, per i figli che finora non se ne erano preoccupati troppo, di decidere che fare, come occuparsene, come smuoverlo da questa posizione che è una metafora del suo stato mentale: che è quella di un uomo che vive accanto all’esistenza e non più dentro la realtà. Emergono qua e là empatie, distanze e rese dei conti. I familiari di Silvio sono venuti a trovarlo per la messa dei dieci anni dalla morte della moglie… C’è da commemorare, da dire, da concertare discorsi. Certo è che, preda del suo isolamento, nella testa di Silvio si installa una certa confusione tra desideri e realtà, senza nessuno che lo smentisca nel quotidiano, la vita può essere esattamente come uno decide che sia. Fino a un certo punto.
Questo spettacolo, che ha trovato nella figura del padre un interprete per me al tempo insperato e meraviglioso, Silvio Orlando, trova le sue radici in una piaga, una maledizione, una patologia specifica del nostro tempo che io, personalmente, ho conosciuto anche troppo. La socio-psicologia le ha dato un nome: “SOLITUDINE SOCIALE”. A mettere in luce i rischi di questa situazione sono stati due studi presentati al 125° incontro annuale dell’American Psychological Association (APA). Essere isolati dalla società è un male oscuro e insidioso. Tutti noi infatti, in quanto esseri umani, abbiamo bisogno del contatto con gli altri, un bisogno che ci permette di sopravvivere. La preoccupazione insorge ancora di più se si pensa che questo tipo di “solitudine estrema” si sta espandendo e continuerà a crescere nei prossimi anni tanto che La Francia ha creato “la giornata della Solitudine” e l’Inghilterra ha istituito, addirittura, un ministero della solitudine. Secondo gli esperti potremmo trovarci alle prese, e non solo nei paesi più ricchi, con un’epidemia di solitudine. Diffusa oramai anche tra i giovani. Silvio Orlando è, secondo me, un attore unico. Capace di scatenare per la sua resa assoluta al palco, le empatie di ogni spettatore, e con le sue corde squisitamente tragicomiche, di suscitare riquestionamenti, emozioni ed azioni nel suo pubblico. E insieme ci piace pensare che gli spettatori, grazie a un potenziale smottamento dell’ animo dovuto speriamo a questo spettacolo, magari la sera stessa all’uscita, o magari l’indomani, chiameranno di nuovo quel padre, quella madre, quel fratello, lontano parente o amico oramai isolatosi e lo andranno a trovare, per farlo uscire di casa. O per fargli solamente un po’ di compagnia.
Lucia Calamaro
12 Luglio
18:00
Teatro Caio Melisso Spazio Carla Fendi
13 Luglio
17:30
Teatro Caio Melisso Spazio Carla Fendi
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UGO PAGLIAI – MANUELA KUSTERMANN
DOPO LA PROVA
di Ingmar Bergman
con Ugo Pagliai, Manuela Kustermann
e con Arianna Di Stefano
scene Alessandro Chiti
costumi Daniele Gelsi
musiche originali Marco Podda
disegno luci Umile Vainieri
regia Daniele Salvo
produzione Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello (Roma), Milleluci Entertainment
In un tempo sospeso, nella penombra di un vecchio palcoscenico, Henrik Vogler, grande regista e direttore di teatro, è seduto su una poltrona, immobile. Appare quasi imbalsamato. Ha 109 anni o forse solo sessantadue. La scena è ingombra di attrezzature sceniche, quinte, attrezzeria, rimasti dopo una prova pomeridiana de Il sogno di Strindberg. Ora però il regista è rimasto solo. L’edificio è completamente deserto. Il sipario è alzato sino a metà. D’improvviso appare sulla scena Anna Egerman, giovane attrice interprete della Figlia di Indra nella pièce diretta da Vogler. Da questo momento inizia un confronto serrato tra i due che, sospesi in una zona di confine, si permettono finalmente di dire la verità. È quasi un raggio di luce in una stanza buia da anni, un momento di realtà in un’esistenza di finzione. L’ingresso improvviso di Rakel, introduce altri temi bergmaniani di straordinaria pregnanza: la percezione del tempo, la paura della vecchiaia, la straordinaria fragilità dell’animo femminile. Quella di Rakel è una figura che si muove sul filo del rasoio, un’artista distrutta dal suo stesso talento, una scorticata viva. In Dopo la prova Bergman non crea nemmeno più “personaggi”, ma linguaggi, funzioni emotive, “contenitori” di fragilità, ansie e paure, donne e uomini reali che non riescono più a convivere con le menzogne, con i compromessi della vita borghese, vecchi-bambini che rischiano la vita, perdono l’equilibrio e cadono a terra in preda ad un ossessivo bisogno di verità, di un senso possibile, di un segno, un gesto che dia un significato alle loro piccole vite. Il teatro alla fine, resterà per sempre quella povera isola sospesa sul filo dell’orizzonte, luogo più reale del reale, ultimo rifugio non toccato dalla complessità della vita quotidiana, dall’arroganza della politica, dalla protervia degli intellettuali della corte, dalla compravendita delle cariche pubbliche, governato unicamente dal sogno e dall’illusione, un piccolo teatro in chiusura, sospeso nel nulla, sull’abisso.
13 Luglio
20:00
San Simone
14 Luglio
16:00
San Simone
15 Luglio
12:00
San Simone
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ROMEO CASTELLUCCI
GIUDIZIO. POSSIBILITÀ. ESSERE.
Esercizi di ginnastica
su La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin
da eseguire in una palestra.
di Romeo Castellucci
con Silvia Costa, Laura Dondoli, Irene Petris, Alice Torriani
e con Vittoria Chiacchella, Federica Crispini, Evelin Facchini, Caterina Fiocchetti, Viviana Mancini, Maria Irene Minelli, Daphne Morelli, Elisa Turco Liveri, Cecilia Ventriglia, Giulia Zeetti
produzione Socìetas
traduzione Cesare Lievi
Cerco una palestra. Una grande camera presa a prestito per fare delle prove. Un posto trovato, senza riscaldamento, cui si accede attraverso la puzza degli spogliatoi; un posto “sbagliato” per il teatro. E invece no. Una palestra, ora, come luogo esatto, come compimento dell’eresia e della bellezza inattuale di Hölderlin. La poesia di Hölderlin sarà proferita in una palestra in forma clandestina, fuori dai cablaggi ortodossi del teatro istituzionale. È esercizio, disciplina, lavoro sul presente.
Assistere alla sequenza astratta di un esercizio, all’ellittica di un gesto silenzioso che fende l’aria, o ascoltare l’articolazione di un verso come affermazione, significherà contemplare uno spazio vuoto, preparato proprio attraverso le cose viste e udite; conseguire uno spazio senza contenuto come luogo di rivelazione. Rinunciare al discorso; cercare l’eleganza assoluta e inumata nella forma; cercare la precisione glaciale di un’estetica sorvegliata.
Nella luce figurativa dello sguardo dello spettatore tutto sarà giudizio, possibilità, essere, secondo le stesse parole del Poeta. Nell’Antica Grecia – cui Hölderlin si è rivolto per tutta la vita – il Ginnasio era il luogo della preparazione dei giovani in vista delle gare atletiche. I giovani, solo dopo il Ginnasio, inauguravano la vita adulta potendo affrontare la guerra. Nella prosa di Hölderlin ci si riferisce continuamente alla giovinezza, ma non in termini anagrafici. E allora chi è questo adolescente, cosa vuole e cosa rappresenta? Il giovane è l’inattuale, colui che non vive nel suo tempo, colui che per contrarium, è il contemporaneo e per il quale tutto è sempre nuovo. Colui al quale sarà affidato il compito di parlare a questa epoca dal tempo differito di una rappresentazione. Sarà l’Empedocle, l’eretico che abbandona la città per salire la montagna e gettarsi nel fuoco dell’essere.
In palestra, accolti provvisoriamente sui cuscini del salto in alto o della ginnastica artistica, si potrà assistere a una partitura testuale – quasi niente di più – legata strettamente a La morte di Empedocle di Hölderlin. Il gruppo dei personaggi della tragedia sarà interpretato da una compagnia di giovani donne. Sono studentesse di una scuola ?- o forse membri di una qualche comunità femminile? Stanno provando uno spettacolo a porte chiuse? Una cosa sola sembra certa: entrando attraverso la porta sbagliata, gli spettatori sorprendono un’azione di teatro che ha tutta l’aria di essere una prova tra adolescenti prive di mezzi, ma che di queste contiene tutta la caparbia determinazione a consacrare la poesia al teatro.
Romeo Castellucci
Dal 30 giugno al 15 luglio
Palestra di S.Giovanni di Baiano
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DECAMERON 2.0
The Stories We Sell Ourselves In Order To Live /
Le storie che ci raccontiamo per continuare a vivere
dal Decamerone di Giovanni Boccaccio
ideazione, regia, video Letizia Renzini
drammaturgia Theodora Delavault
coreografia Marina Giovannini
musiche, text film Yannis Kyriakides
collaborazione alle musiche Andy Moor
con Theodora Delavault, Marina Giovannini, Jari Boldrini, Maurizio Giunti, Lucrezia Palandri
live electronics Yannis Kyriakides
chitarra elettrica, chitarra baritona Andy Moor
live camera Letizia Renzini
in video Lore Binon, Monica Piseddu, Monica Demuru
produzione video Raffaele Cafarelli/Red-Fish
luci Moritz Zavan
costumi Boboutic
disegni per la scena Lorenzo Pazzagli
si ringrazia Drone 126 per la produzione del brano Muoviti, Amore, e vattene a Messere su testo di G. Boccaccio
produzione Teatro Metastasio di Prato
con la collaborazione di Spoleto 61 Festival dei 2Mondi
DECAMERON 2.0
Le storie che ci raccontiamo per continuare a vivere
Cosa è rimasto del Decameron di Giovanni Boccaccio e della brulicante nuova società da lui raccontata? Delle passioni, degli intrighi, delle perversioni e dissipazioni, delle morti e dei motti, dei grandi amori e delle miserie, dei nobili cuori e delle ciniche astuzie, delle ballate e delle bestemmie, delle preghiere e del letame? In questa terra un tempo incantevole, che è diventata globale, e che ha cambiato l’aspetto ma non lo spirito, sembra che in fondo tutto sia rimasto com’era; soltanto aggiornato alle sorti contemporanee, come un programma in upload.
Nel tempo del vagheggiamento boccacciano, scappando dalla realtà, si nutre lo spirito ed esplodono i sensi. Oggi, nel tempo del vagheggiamento espanso, alle soglie della fine del lavoro, della realtà abbiamo perso il controllo: ci sfugge, si nasconde, o sembra non doverci interessare.
Assuefatti ai morti quotidiani ed alle eterne giovinezze, si compete tutti contro tutti in una corsa virtuale oppressa dai miraggi del successo, abnegati ad una forma arbitraria di bellezza.
Finché vita, morte, amore, tempo e libertà poco importano più.
Sembra compiuto il viaggio di andata e ritorno: la concezione escatologica ed iniziatica del Boccaccio è una trappola che non eleva ma che ci riporta nel loop: ci raccontiamo quello che ci serve per andare avanti, e continuando a raccontare, costruiamo le nostre case fasulle, le nostre fragili dimore temporanee. Oggi i figli della peste, scampati alla morte, sopravvissuti all’ennesima crisi, consapevoli di aver perso la facoltà del libero arbitrio, sanno di aver di fronte un’unica scelta: cosa diventare o chi essere.
Il Decameron 2.0 va oltre la narrazione della struttura boccaccesca, la raccolta di novelle racchiusa dentro una cornice. La peste è la cruda realtà della nostra vita, della storia, la malattia dell’essere, del sopravvivere. In qualche forma è pure la morte del sacro, dell’anima. Non si combatte la peste, ci si sottrae nella dissimulazione: raccontando il desiderio, creando una narrazione parallela che non dice l’inenarrabile, ma ci parla di un rifugio mistificatorio. L’uomo cerca di realizzarsi in una dimensione di non realtà. Il territorio della realizzazione personale è un territorio virtuale, staccato dalle reali esigenze del singolo quanto della collettività: Il successo sociale come mistificazione, cercata o coatta, e la peste, come il fallimento, inenarrabile.
Il Decameron 2.0 supera questa impasse drammatica riscoprendo la dimensione poetica dell’opera di Boccaccio, quella che parla alle nostre coscienze.
Boccaccio scrive il Decamerone per le donne: sono loro che, nelle lunghe ore di ozio inflitte loro dal predominio maschile, sono inclini alle vaghezze e alle depressioni ed è per loro che Boccaccio scrive con un intento d’intrattenimento. Ripartiamo dall’aspetto passivo del femminile, dal desiderio dal rifiuto della realtà, dalle vaghezze, dalle indecisioni, dal vuoto della narrazione per ricominciare a nutrire lo spirito dell’uomo, per ricominciare a fidarci delle dimensioni non secolari e riuscire a fare emergere dall’interno di ciascuno una trama collettiva che rappresenti la possibilità di una narrazione collettiva, realistica e virtuosa, estatica e complessa, libera e liberatoria, creatrice di visioni e possibilità da cui ricostruire una comune epica contemporanea.
Il Decameron 2.0 è un vagheggiamento, un azzardo poetico che fa da specchio alla narrazione. Quella che Boccaccio racconta alle donne è una favola secolare dove il sacro si annida nelle miserie umane, dove il monstrum pervade e si genera nella nostra quotidianità. Niente magia, nessuna immaginazione, rari lieti fini, disincanto. Ripartiamo da quel sacro, come Giotto riparte dal colore del cielo per raccontarci che lo spirito si nutre con la vita.
Letizia Renzini
La struttura rigida del Decamerone è sciolta in una composizione nuova: le novelle e i suoi personaggi, alcuni degli intrecci, appaiono di volta in volta come accadimento scenico, immagini della memoria, o in forme trasposte, simboliche.
Il testo originale (in inglese), scritto da Theodora Delavault, è composto in gran parte in forma di libretto: è il cuore della nostra interpretazione, l’occhio extradiegetico, il ‘flusso di coscienza’ della narratrice contemporanea. Il confronto con la lingua boccaccesca è invece affidato alle attrici in video: Monica Piseddu e Monica Demuru.
Usiamo come sorgenti musicali dei materiali musicali filologici risalenti al secolo XIII (ballate, cacce, primi madrigali) questi materiali sono ‘ruminati’ e ricomposti nella scrittura musicale originale del compositore Yannis Kyriakides e del chitarrista Andy Moor, in scena nel live e parte integrante dello svolgimento drammaturgico. Protagonista di due arie importanti è la soprano belga Lore Binon, anch’essa in video. Interviste, personaggi video appaiono nella nostra scena quali conosciute presenze (Guido Cavalcanti, Federigo Degli Alberighi, Lisabetta da Messina, Cisti Fornaio), o trasposizioni contemporanee delle vicende inserite nel nuovo contesto multimediale.
La peste è anche il nostro punto di partenza, il baratro della coscienza contemporanea. L’orrore nel corpo. Nessun legame umano tiene più di fronte alla paura della morte. La miseria umana è messa a nudo.
Che cosa è il vagheggiare delle donne se non il prodotto della loro forza immaginifica? Fuori dalle griglie della narrazione verosimile, il materiale è suddiviso in un’iconografia ‘espansa’ che parte da immagini prerinascimentali (i codici miniati, gli affreschi, le pale) e le espande con nuove visioni e tecnologie: la live camera a sottolineare le presenze in scena, i video ‘social’ che commentano il racconto boccaccesco e trasfigurano la narrazione: il serbatoio della contemporaneità, lo stato delle cose.
La danza e il gesto, viatici poetici anch’essi, sublimano i significati e li accompagnano: i corpi dei 4 danzatori, così come i corpi letterari delle novelle, si lasciano e si ritrovano dentro e fuori a schemi pronti a deflagrare in personaggi, personificazioni, racconti: l’essenza del corpus espanso del Decamerone.
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