Mariti e mogli, un enigma. Monica Guerritore “rivisita”, azzardando, la sceneggiatura del celebre film di Woody Allen

Mariti e mogli, un enigma
Monica Guerritore “rivisita”, azzardando, la sceneggiatura del celebre film di Woody Allen

 

adattato e diretto da Monica Guerritore

con Monica Guerritore, Francesca Reggiani

e con Ferdinando Maddaloni, Cristian Giammarini, Enzo Curcurù, Lucilla Mininno, Malvina Ruggiano, Angelo Zampieri

scene Giovanni Licheri, Alida Cappellini

costumi di Valter Azzini

luci di PaoIo Meglio

traduzione di Giorgio Mariuzzo

aiuto regia Lisa Angelillo  

assistente alla regia Ludovica Coni Nievo

fotografo di scena   Giovanni Chiarot

Roma, Teatro Quirino – dal 27 dicembre 2017 in tournée

Forse col tempo…conoscendoci peggio”  (Ennio Flaiano a una signora amata)

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Osservi e partecipi (in ‘full immersion’ generazionale) alla traduzione scenica di “Mariti e Mogli” e, istintivamente, il pensiero va a Fernando Pessoa, alle rarefazioni del suo intelletto, alla percezione dell’imprevedibile (che “non è mai” gradita sorpresa), alle finzioni dei tanti non-luoghi con cui si camuffa la sua carnale Lisbona, profumata di oceano. E capisci che non sono gli anni a “passare”, ma siamo noi a “restituirli” al tempo cui appartengono (che ne è padre-padrone). Il quale, a suo piacimento, può fuggir via senza lasciare traccia o, proditoriamente, stazionare in quella dimensione stranita e straniante che, per convenzione, definiamo (e liquidiamo) quale “eterno presente”. Che è cappa soffocante, galassia implosiva, gabbia fisica e mentale da cui si evade a brandelli. E all’interno della quale, come nelle insidiose “ronde” intuite da Schnitzler e Ophuls, diventa aleatorio, indeterminato, dolorosamente intercambiabile il gioco dei ruoli, della funzioni, delle passioni tristi, di un’ars-amandi velleitaria, insolente, spesso avvilente.

 

Credo che sia netta e tangibile, nell’adattamento scenico (volutamente?) ‘sottotono’ elaborato (con ulteriori sottotoni, forse per attenersi a un criterio azzardato, livellante di ‘flusso di coscienze’ assortire) da Monica Guerritore dalla sceneggiatura cinematografica di Woody Allen, questa percezione di vacuità, di fatui egoismi e rivalse coniugali del rapporto a due, sui giuramenti adolescenziali e fideistici. Nei quali – e in senso lato – vanno puntualmente a sbriciolarsi le umane promesse (e annesse relazioni), i patti e le ipoteche dei giorni, degli anni a venire, esposti a quello che, da giovane, mi capitò di definire “libero mercato delle attrazioni” (quasi una giostra di passeggere ‘meraviglie’), il cui solo modo per sottrarsene è la vita da appartati, l’indifferenza dei ‘dissanguati’, l’adeguarsi a uno scorrimento metodico e reggimentale. E guai a sgarrare, svignarsela o abiurare, se non si vuole che i poligoni d’amore diventino (efferati) poligoni di tiro “al più vulnerabile”. Come ‘”sintagmi, appigli, pozzanghere di vita” che iniziano da fenditure del desiderio – del capriccio, dell’attrazione impertinente, simultanea – ma che hanno “compiutezza” solo nel dolore arrecato, incidentalmente, inesorabilmente, al partner (di turno).

Pianificando una regia basata sulle unità di luogo e di tempo (onde evitare, ed è bene, una scialba ‘illustrazione’ del film) Monica Guerritore fa in modo che la “falla” dei destini intrecciati (ove chi ha deciso di lasciarsi non lo farà, e chi vorrebbe restare si allontanerà) accada in una sorta di “trappola per topi” non tanto dissimile dall’imprinting di Agatha Christie: notte piena e  atro salone “che con il passare delle ore diventerà una sala da ballo, una sala d’attesa, un ristorante deserto” ove le “piccole anime borghesi e insoddisfatte girano e rigirano” in fuga da una banalità che è loro consustanziale. Più che a Bergman o Strindberg, l’atmosfera di penombre, singulti di gioia e inanità pregresse rimanda ai “reclusori” di Cechov, alle sue vite (e ville) di campagna, in uggia per le mondanità cittadine cui sommessamente si anela (..a Mosca, a Mosca..).

Sicchè, mentre la danza si spegne, una rifrangenza-video in fondo scena ‘cattura’ di spalle i movimenti attorali (simbologia della gabbia o dell’occhio dell’anima che tutto vede’?), All of me di Louis Armstrong, Sing Sing Sing di Benny Goodman fanno da requiem ai ‘supersiti’. E in questo inspiegabile, tetro partecipare (si ipotizza persino un disservizio Enel), la (nostra) memoria del cinema non può che riannodare la breve, immensa distanza intercorrente, nella filmografia di Allen, tra “Crimini e Misfatti” (1989) e “Mariti e Mogli” (1992). Dalle felpate, ferali sequenze del primo (quando la relazione clandestina fra uomo e donna sfocia nella “semplicità del delitto”) alle accomodanti, distratte digressioni di memoria (con slittamenti di autoinganno) che sono – fra celie e morbide crudeltà – ‘frantumati frammenti’ del vivere in due (“fra tanti, allegri amici”) nel Grande Inganno. Del quale la visione della Guerritore ha come soggezione, timore, recondito ossequio. Per osare di frantumarlo per quello che è: uno zoo di vetro, soffiato ed evaporato prima che tutto abbia inizio.

pizzutoang@gmail.com