Cinzia BALDAZZI – I giganti dell’umorismo pirandelliano: La patente e La giara

I giganti dell’umorismo pirandelliano: “La patente” e “La giara” (al T. Quirino, Roma, e in tournée)

L’ultima opera di Luigi Pirandello, l’incompiuto I giganti della montagna, fa da cornice ai due atti unici La patente e La giara, con la regia di Guglielmo Ferro e l’interpretazione di Enrico Guarneri (Roma, Teatro Quirino, e in tournée)

Nella prima delle due pièce pirandelliane dirette da Guglielmo Ferro al Teatro Quirino, il giudice istruttore D’Andrea – dietro una scrivania sovraccarica di fascicoli – obietta «Ma che ci guadagnerete?», alla pretesa del menagramo Rosario Chiàrchiaro (Enrico Guarneri) di acquisire un sigillo ufficiale del macabro ruolo a lui imposto dai concittadini. Nelle note al copione, Pirandello precisa: «Si è combinata una faccia da iettatore che è una meraviglia a vedere, entra a passo di marcia funebre, battendo la canna a ogni passo»: l’impiegato, vestito di nero, afferma: «Che ci guadagnerò? Ora glielo spiego. Mi vede. Faccio spavento! Appena lei mi fa ottenere la patente, entro in campo. Lei dice, come? Me lo domanda – ripeto – perché è mio nemico!». E l’interlocutore stupito: «Io? Ma vi pare?». Dunque, Chiarchiàro replica: «Sissignore, lei! Perché si ostina a non credere alla mia potenza! Per fortuna ci credono gli altri, sa?».

Quale “fortuna”, però? è spesso stata la paradossale perplessità, mia e di tanti: quale buona sorte sarebbe insita in ciò, al punto da diventare il portar sfortuna l’unico “capitale” disponibile per un poveretto, vittima del più crudele e assurdo dei pregiudizi? L’enigma è decifrato nel grande umorismo di questa Patente (e poi della Giara), complesso simbolico che, per moltissimi, costituisce un autentico mito semantico trattato nel saggio omonimo di Pirandello del 1908, e vissuto e rielaborato nella poetica così scaturita. Per non equivocare, l’Autore subito esemplifica: «Sarà bene, trattando dell’umorismo, tenere presente anche il significato di malattia della parola umore; inoltre, «che malinconia, prima di significare quella delicata affezione o passion d’animo che intendiamo noi, sia stata per gli antichi un umore dal significato materiale della parola». Del resto, non emerge alcuna traccia di “malinconia delicata” nella scelta di sollecitare un brevetto, un contrassegno da responsabile di scalogna, o di mettere a repentaglio incolumità e merito artigianale da parte del conciabrocche Zi’ Dima (ancora Guarneri), allo scopo di non pagare una “oncia virgola tre” all’avversario committente Don Lolò: è un umore patologico, “materiale”, pesante e concreto, passione prioritaria e urgente della vita.

In parallelo, per il leader dei Giganti della Montagna – cui larghi brani fanno da prologo, intermezzo e finale a racchiudere La patente e La giara – Cotrone (sempre Guarneri) esclama rivolto agli attori appena giunti: «Solo quando si è pazzi, tutto è possibile. Non è forse la pazzia l’unica ragione del vostro mestiere?». Il misterioso Mago attribuisce quindi a sé e agli adepti (interpreti in fieri) una dignità, uno status esclusivo: «Personaggi, sì, ma veri, non fantasticati», sentenzia, «meno reali, ma più veri», ossia – suppongo – vivi e sani. Già qui sfuma al completo l’ipotesi secondo cui il bagaglio logico-intuitivo caratteristico delle sarcastiche commedie pirandelliane abbia l’obiettivo di provocare, nello specifico, risate evasive e disimpegnate. Il nostro saggista per eccezione, inoltrandosi ulteriormente nel concetto, infatti dichiara: «Gli uomini – si legge in un vecchio libro di mascalcìa (l’arte del maniscalco) – hanno quattro umori, cioè il sangue, la collera, la flemma e la malinconia, e questi umori sono cagione dell’infermità degli uomini». Sviluppata in note sostanziose è poi la diagnosi «I porri accendono la collera, i cavoli generano malinconia» riportata da un sermone di Sant’Agostino: densa di lessico veicolato da una compatta maieutica di comprensione (l’antropologo polacco Malinowski l’ha battezzata “funzionalità fàtica”) sfiora un’involontaria, efficacissima comicità.

A parere dello scrittore agrigentino, pertanto, ogni valido umorista moderno accuserebbe «ritegno», anzi «sdegno», a definirsi tale: «Umorista sì, ma… non confondiamo – si sente il bisogno di avvertire – umorista nel vero senso della parola». Come dire: «Badate ch’io non propongo di farvi ridere facendo sgambettar le parole». Chiarchiàro, ad esempio, in dialetto è chiarchiaru, appellativo ridicolo per noi del Continente, mentre nell’idioma siciliano è correlato a “frana”, “pietraia”. Il commediografo, è opinione di Leonardo Sciascia, lo avrebbe ricavato dall’omonima vetta isolana, dall’aspetto lugubre per grotte e anfratti rifugio di bestie notturne. Ne La patente, lo sventurato padre di famiglia, abitante privilegiato appunto delle tenebre, allontanato e temuto dalla gente, licenziato dall’impiego, supera la dicotomia implicita in qualunque legittimità quando reclama: «Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza terribile, che è ormai l’unico mio capitale, signor giudice! Voglio anch’io la mia patente! Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale. Me lo metterò come titolo nei biglietti da visita! Sarà la mia professione! Là c’è un giojelliere? Davanti alla vetrina, mi pianto lì. Verrà fuori il padrone, e mi metterà in mano tre, cinque lire per farmi scostare e impostare da sentinella davanti alla bottega del suo rivale. Sarà una specie di tassa che io d’ora in poi mi metterò a esigere!».

Il lavoro Maschere, con i due atti unici La giara e La patente incastonati dal regista Gugliemo Ferro nella cornice de I giganti della montagna – con le performance di Guarneri – quale spazio riserverà agli spettatori? E la location di un’elegante residenza, abbandonata alla rovina dai proprietari a causa dei fantasmi, perciò detta “degli Scalognati”, sarà frutto di un incastro casuale? È verosimile si tratti di un’ulteriore Casa del Granella, il racconto dove gli “spiriti” avevano messo in fuga dapprima gli affittuari (nonostante l’intervento dell’astuto avvocato Zummo), quindi il padrone, deriso con malizia dai paesani. Allora, quale itinerario semantico, psicologico e letterario condivideremo? In attesa di saperlo, ammetto sia già accaduto di confrontarmi con un simile orientamento di poeticità contrariata da ostacoli non di poco conto, provando inquietudine circa l’interrogativo di gestire e diffondere (in un fluire quotidiano o artistico) analoghi e peculiari point of view di esperienza umoristica, ironica, divertente, “malinconica”, o chissà, nelle settimane, nei mesi, negli anni.

Sulla strada per il Teatro Quirino di Roma, per assistere alla mise en scène presentata dall’Associazione Culturale ABC, alle riflessioni sulla tematica collegavo un suggerimento di Pirandello relativo al contesto: «In realtà, l’avere una fede profonda, un ideale innanzi a sé, l’aspirare a qualche cosa, e lottare per raggiungerla, lungi dall’essere condizioni necessarie all’umorismo, sono anzi opposte». Dunque, personalmente, non sarei in difetto. Comunque, tanto per non eludere alcuna possibilità, è precisato: «Tuttavia, può benissimo essere umorista anche chi abbia una fede, un ideale innanzi a sé, un’aspirazione, e lotti a suo modo per raggiungerla». Il disagio appena confessato non è d’impaccio nell’esplorare la serie numerosissima delle Novelle per un anno, quanto nel valicare la soglia utopica delle vicende attuate nella raccolta teatrale Maschere nude. Dall’archetipo greco deriva il nucleo emblematico, con le figure della τραγῳδία (tragodìa) e della κωμωδία (komodía), l’una a piangere, l’altra a ridere. Per quanto sia oggi diffusa ovunque la facoltà di convivere tra valenze oppositive, l’accostamento dei due termini rimanda a un’impegnativa antinomia: in che misura è ammesso sentirsi nudi, coperti da una maschera?

Aiutata e rinfrancata dal riparo degli alti e solenni tendaggi ai lati della scena, accetto però la sfida: imponenti mantovane delimitano il bordo superiore, e iI colore dominante, tra le cromie dell’arcobaleno, via di mezzo assoluta, è il marrone. Benché scuro nei tessuti, colpisce illuminando d’improvviso con l’avana delle simboliche fascine accatastate, mentre sull’impiantito, svagato nel chiarore della stoffa, scorgiamo fantocci senza fisionomia, qua e là accasciati accanto alle quinte. Saranno spettri disarticolati a metà tra spaventapasseri e icone della pittura surrealista, o “pupi” della giostra immanente della vita? Sono insospettita dall’area centrale, intrigante e autoritaria, estesa in un ampio spazio vuoto: forse, sarebbe basilare accedere lì per distinguere meglio gli oggetti, i fenomeni, invece confusi nell’oscurità delle file di poltrone allineate.

Tra le montagne anonime della location, avanza l’eco narrativa più forte della Villa, fornita di un nome roboante: qualcuno, pronunciando l’appellativo “gli scalognati”, magari invocherebbe scongiuri. D’altronde, i “padroni di casa” considerano minacciosa la compagnia drammatica in arrivo, avvistata giù nella valle: vengono convinti, così, a dissuaderla, attraverso un battere pauroso di catene, rumori sinistri, o segnali di lampi e fulmini con effetti luminosi. Un rudimentale e toccante congegno “rumorista” a manovella imita lo scrosciare della pioggia, quasi per fugare pensieri opprimenti e timori reconditi. La scenografia di Salvo Manciagli e le musiche di Massimiliano Pace rispettano l’enunciato principale del titolo Maschere, mirando ad assolvere allo standard di nascondere allo sguardo estraneo – non escluso quello personale – la natura intima del nostro esistere.

Nell’hic et nunc de I giganti della montagna, dramma lasciato privo dell’ultima parte, composto un anno prima di vincere il Nobel nel 1934, questa sorta di trincea di misfits incontra, appunto, un trio di poveri cristiani, il capocomico (Rosario Minardi), il caratterista Cromo (Turi Giordano) e l’attor giovane Spizi (Marco Amato): «Siamo attori. Siamo qui per recitare». Sono il residuo di una compagnia un giorno famosa: giù, nel paese vicino, la sala adibita alla drammaturgia è serrata, e un domani, forse, sarà trasformata in cinema. Gli adepti della Villa, portavoce sofferti dell’umorismo autorale, sono delusi del mancato spavento: «L’hanno preso per teatro! Noi facciamo i fantasmi e loro ci si son divertiti!». Gli ospiti chiedono di collaborare alla performance, magnificando le qualità del repertorio, e Cotrone replica: «Creda che con me non ha bisogno di far valere la bellezza dell’opera e la bontà dello spettacolo. Loro sono stati indirizzati a me da un mio lontano amico».

Non si esibiscono per una platea concreta: gli unici ad avere un biglietto in mano, fuori copione – ed è una responsabilità da adempiere con scrupolo – siamo proprio noi. Nonostante gli episodi stranianti, sono spinti, per gratificazione soggettiva e per recuperare valori celati nell’abisso oscuro, a mettere in piedi una pièce teatrale: qui, La patente e La giara, ma nella stesura originale Pirandello fa sceglier loro La favola del figlio cambiato, prosa favolistica in tre atti e cinque quadri con l’esordio musicato da Gian Francesco Malipiero, e nella cui trama-intreccio pare che il “doppio” dell’autore sia persino un suicida.

Il Mago dei Giganti della Montagna, malgrado l’ambiguità di contenuto, si mostra sicuro per tutti, garantendo: «Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi». Scrutando intorno, volenti o nolenti, ormai avvertiamo l’urgenza del dover indossare non uno, bensì molteplici camuffamenti sociali nell’ordine delle circostanze subite, non disperando però in un’alternativa. Nel caos vigente del codice civile, in un percepire sovrastato da aloni misteriosi, i protagonisti sembrano far leva sull’origine del sostantivo mascara, proveniente da un lessema preindoeuropeo dal significato pari a “fuliggine, fantasma nero”. Si giustifica in tal modo l’inserimento da parte di Guglielmo Ferro, nel mosaico esauriente di poetica pirandelliana, di abbondanti stralci da I giganti della montagna (una volta intitolata I fantasmi).

Completata la recita de La patente, ad opera dei tre attori vagabondi e della “corte dei miracoli” di Cotrone, il vasto ambiente della Villa è di nuovo deserto. Risuonano melodie celestiali, sagome enormi e inquietanti filtrate dalla parete atterriscono, gli attori si aggirano attoniti e spaventati. In platea vorremmo condividere le loro riflessioni: «Voi non credete agli Spiriti…» è la domanda, e il Mago risponde: «Come no? Li creiamo! Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi… non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi». In ogni modo, sedendo sotto la ribalta, rimango in ansia: come avrebbero fatto, insomma, Cotrone, la Sgricia, l’impiegato Rosario Chiarchiàro, il giudice D’Andrea, accanto a Don Lolò Zirafa e Zi’ Dima Licasi, a scegliere quale onda cavalcare? Seguire la frammentata eventualità di un iter alla scoperta di verità idonee al proprio Ego? Oppure superare l’orizzonte delineato dalla strada smarrita, tra ruoli dove, per disgrazia, non è plausibile ritrovarsi in maniera adeguata?

Conoscendo le tendenze tecnico-formali e l’input totale del microcosmo rappresentativo del regista, l’abilità variegata e non istrionica di Enrico Guarneri (supportata dall’esperienza, così diversa tra loro, di Vincenzo Volo e di Rosario Minardi), in attesa della seconda apertura di sipario sono abbastanza curiosa e in fondo rassicurata. Sempre guidati dal consiglio di Pirandello, avremmo lasciato perdere una volta per tutte «gli ideali, la fede, l’aspirazione e via dicendo: lo scetticismo, la tolleranza, il carattere realistico», varcando l’empasse maggiore della «retorica imperante, che impose leggi e norme astratte di composizione, una letteratura di testa, quasi meccanicamente costruite, in cui gli elementi soggettivi nello spirito erano soffocati». Nella Villa degli Scalognati, invece, separata dal resto, luogo immaginifico della creatività artistica, prendono vita autentiche e feconde antinomie dialettiche: nei due atti unici allestiti, sono in agguato dense ed energiche ossessioni compulsive, illustrate per mezzo di cifre grottesche e di un plot geniale per raccontare nevrosi e umorismo di cultura e modus vivendi della Sicilia e al di là di essa. Nell’incompiuto I Giganti della montagna, l’estesa dimora “La Scalogna”, un tempo signorile, appare divorata dall’abbandono: nell’originale pirandelliano diventa, nel profilo letterale del termine, il magico e mistico locus semantico di sviluppo ulteriore di splendide novelle, ossia Lo storno e l’Angelo Centuno e Certi obblighi con il lampionaio Quaqueo.

Tra le quinte del Quirino, gli eventi inducono a scendere in campo, privato e non, con l’area allargata del conscio, fonte del tormento sopportato in ragione di schermi convenzionali imposti, tra i quali è difficile sopravvivere. In tal senso, Pirandello di frequente sollecitava a ponderare l’ammonimento dell’umorista mantovano di fine ‘800 Alberto Cantoni: «A forza di ripetere continuamente che tu sembri sorriso e che sei dolore… n’è venuto che oramai non si sa più né che cosa veramente tu sembri, né che cosa veramente tu sia… Se tu ti potessi vedere, non capiresti, come me, se tu abbia più voglia di piangere o di sorridere». Ne La patente, attratta dall’eccentrico iettatore Chiàrchiaro con in pugno una canna d’India somigliante a un mattarello, tentennando a lungo il capo lo ascolto esclamare: «Lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo che non crede alla jettatura? », e il magistrato assecondarlo: «Volete che vi dica che ci credo? Vi dirò che ci credo! Va bene?». Allora anche io non so, davvero, se piangere o sorridere di simili “diritti” o “pretese”.

Nello spettacolo, in alcuni momenti d’impianto naturalistico, per la verosimiglianza dell’atmosfera rispetto alla svariata umanità, con chiarezza le maschere non rimangono in superficie: colpiscono impietose il cuore, i sentimenti, esplorando nell’intimo il nostro essere una persona e lo frantumano. E il fatidico Cotrone ribadirà poi: «Se mi lasciate dire, spiego tanto ai miei quanto a voi. Siamo tutti in errore, signori miei; ma non ci dobbiamo confondere per così poco». Sono d’accordo, non è consequenziale smarrirsi, poiché l’unità lessicale latina persona indica per l’esattezza, oltre a condizione, stato, autorità, anche maschera, personaggio, figura: discende dall’etrusco phersu, utilizzato per “personaggi mascherati” o attori, adattato dal greco πρóσωπον (prósôpon). L’etimologia, adottata nella psicologia analitica da Carl Gustav Jung, diviene un segnale della psiche collettiva, all’altezza di rappresentare l’indole pubblica: come, ne La Giara, sebbene schierati su margini antitetici, tocca in una sorte provocatoria al Licasi, ingegnoso e ostinato inventore di un mastice miracoloso (forse diabolico?), e al titolare della tenuta don Zirafa: quest’ultimo, imperterrito e tenace combattente a vantaggio del meglio, è ovvio, documentato a proprio arbitrio con il complice succube, l’avvocato Scimè.

L’ambiente è spoglio, con i medesimi scarni accessori, però inquadrato in un habitat campestre: in modalità antagoniste o meno, agiscono il Mulattiere (Mario Opinato) con il concime da consegnare, il garzone M’Paripe (Rosario Minardi), gli “abbacchiatori” Fillicò (Turi Giordano) e Tararà (Pietro Barbaro), le ragazze adibite alla coglitura di olive con le ceste di vimini (Nadia De Luca e Francesca Annunziata). Finemente umoristico è il carattere del “semi-requisito” Scimè (Rosario Marco Amato), costretto a favorire l’estro civico del ricco fattore don Lolò (un sanguigno e coinvolto Vincenzo Volo), sempre pronto a consultare il necessario libretto del Codice Civile, custodito nel taschino e interpellato a ogni minima controversia. L’incipit della novella omonima avvisa: «Piena per gli ulivi quell’annata. Piante massaje, cariche l’anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire. Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa».

In qualità di deus ex machina, compare lucida e fiammante la giara, pagata la cifra di quattro once (moneta ancora in vigore in Sicilia nel tardo XIX secolo), con vari ettolitri di capacità. Per difenderla da incidenti fortuiti, la alloggiano nel magazzino: d’un tratto, nella disperazione generale, risuona un grido: «La giaia! La giara nuova! Spaccata a metà!», magari a causa di un infausto sortilegio. Negano all’unisono il garzone, i contadini, le raccoglitrici di olive: «S’è rotta da sé! ‑ Non ci ha colpa nessuno! ‑ S’è trovata rotta!». Sono concordi nel chiamare Zi’ Dima Licasi, depositario in sogno della formula paterna per impastare una miscela sigillante («pece bianca”) portentosa: il “conciabrocche” (impratichito negli anni prima con i salvadanai, quindi con gli otri), introdotto nel recipiente per aggiungere «i punti» pretesi da don Lolò, vi resta imprigionato dentro.

Lo biasimano di non aver misurato in via precauzionale la spazialità residua, ma non è la gobba («L’intoppo è nelle spalle») a impedirne l’uscita. In realtà, ha riparato un esemplare con la pancia «troppo grossa» e la bocca «troppo stretta». Per metà della commedia, solo il capo dell’attore fuoriesce dal collo del contenitore. Annota Nino Borsellino: «Per evitare lo scacco, per ingannare la morte, l’istrione adopera tutte le sue risorse: esaspera il gioco, come Zì Dima segregato nella giara come in un involucro difensivo, quasi una pattumiera beckettiana»: il riferimento è al Finale di partita di Samuel Beckett che, trascorsi quattro decenni, inserirà gli anziani genitori Nagg e Nell in due bidoni da cui emergono il viso e le braccia.

Nell’operazione testuale e scenica di Guglielmo Ferro, lo scambio ontologico e ideologico accadrebbe nella fisionomia palese alla collettività, altresì nell’iter dell’opinione ufficiale attribuita a ciascuno, in contrasto con l’interiorità ingabbiata nel mascheramento. In una simile chiave, l’individuo assolve a ruoli richiesti dalle strutture, organici ad adattarsi al contesto ed espletarne una socialità precisa: in grado di indurre, ad esempio ne La Patente, il Chiarchiàro (un Guarneri sfaccettato ed enigmatico), vittima del pregiudizio di possedere un’identità da menagramo, ad esigerne un placet canonico e operativo.

Nondimeno, quando la Persona scivola in un progressivo annullarsi tout-court dell’Ego, il rischio, per sventura, risulta una completa e grave prevaricazione coincidente con l’adempiere a un rango previsto dal sistema. L’aggiustatore di giare, spaccandola di nuovo per poterne uscire, sarebbe obbligato ad onorare il dovere di risarcire i danni per il diritto di sopravvivere? E Don Lolò, investito del dovere di salvaguardare la vita dell’artigiano, dovrebbe porre in secondo piano il diritto di tutelare l’integrità economica della merce acquistata? Mentre per Jung l’esito di un siffatto processo consiste nel produrre disparate nevrosi, per Pirandello apre un baratro con l’occasione di svanire e altrimenti rinascere.

Nel saggio L’umorismo, lodava la filosofia idealista settecentesca del neokantiano tedesco Johann G. Fichte: «L’universo è creato dallo spirito, dall’“Io”, che è anche una divinità, l’anima dell’essenza del mondo che genera tutto ed è impersonale, che è volontà infaticabile, la quale racchiude in sé ragione, libertà, moralità»: quasi parlasse di entità e utopie agli antipodi di uno dei suoi futuri “giganti della montagna”. Subito dopo, ridicolizzando con clemenza «il piccolo “io” strambo» del caposcuola romantico «signor» Friedrich von Schlegel, lo ritrae «con un cannellino e un po’ d’acqua saponata», a «gonfiare allegramente bolle di sapone: vane, parvenze d’universo, mondi; e a soffiarci su. E questo era il gioco». Uno specchio dialettico del gioco delle parti, presagio della figura del Mago nelle battute: «Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… Tutto l’infinito che è negli uomini».

Terminate le recite, agli attori rinfrancati Cotrone conferma: «Siete arrivati alla vostra mèta. Da anni aspettavo qua gente come voi per far vivere altri fantasmi che ho in mente». Poi corregge: «Attori, non attori. Non fa alcuna differenza. Noi qui facciamo festa con le stelle. Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà maravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza», concludendo: «Allora sì che non avremo più bisogno di chiedere nulla a nessuno».

Agli spettatori è ormai evidente quanto, al di là delle maschere del nostro autore, sia stato svelato un insieme circostante ambiguo, solcato da molteplici livelli non intercomunicanti: fenomeni materiali e fantasia godono dell’ipotesi di gestire una coesistenza, dove le regole del meccanismo vitale sono comunque campo di continui dispersivi ribaltamenti. Gli Scalognati, Milordino (Mario Opinato), Quaqueo (Vincenzo Volo), Sgricia (Pietro Barbaro), Doccia (Giovanni Fontanarosa) e l’impalpabile e visionaria ballerina Mara-Mara (Francesca Annunziata), riusciranno a vincere la disputa tra il vivere e l’essere semplici spettri? Odiando gli uomini falsi, sfioreranno obiettivi concreti?

Pirandello, con Guglielmo Ferro, sospende la risposta per i destinatari, non esaudendola nemmeno per sé: di conseguenza, l’atto di legarsi e consegnarsi al volto sociale sarebbe un modesto, angoscioso e straziante approccio ad evitare l’oppressione dell’amarezza sfibrante del sapere assai poco di noi stessi. Sigmund Freud, del resto, descriveva l’area della coscienza con la metafora della punta di un iceberg, con lo spazio maggiore della psiche sommerso e refrattario a ogni indirizzo di conoscenza razionale e normativa.

Gli attori decidono di rimanere alla Villa: «Il giorno è abbagliato; la notte è dei sogni e solo i crepuscoli sono chiaroveggenti per gli uomini. L’alba, per l’avvenire; il tramonto, per il passato». Per chi esce, invece, dalla sala del Quirino, è in attesa – nella consueta alternanza di luci e ombre – una lotta quotidiana contro mistificazioni e condizionamenti antagonisti.

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.

Maschere. “La giara” e “La patente”

di Luigi Pirandello

con Enrico Guarneri (Cotrone / Rosario Chiàrchiaro / Zì Dima), Rosario Minardi (Capocomico / giudice D’Andrea / m’pari Pe’), Vincenzo Volo (Quaqueo / Marranga / Don Lolò), Rosario Marco Amato (Attore / Giudice / avvocato Scimè), Nadia De Luca (Rosinella / contadina), Turi Giordano (Attore / Giudice / Fillicò), Mario Opinato (Milordino / Mulattiere), Pietro Barbaro (Sgricia / Giudice / Taraarà), Francesca Annunziata (Maria / contadina), Giovanni Fontanarosa (Doccia)

consulenza musicale Massimiliano Pace – costumi Dora Argento – scene Salvo Manciagli

regia Guglielmo Ferro

produzione Associazione Culturale ABC

Le foto de La patente sono di Nicola de Fino.

Author: Redazionale

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