Francesco TOZZA- Fabre non entusiasma (ultimi fuochi al Napoli Teatro Fest)

 

Napoli  Teatro Festival



 

FABRE NON ENTUSIASMA

belgian rules

ULTIMI FUOCHI DI UNA GENEROSA RASSEGNA

“Belgian Rules/Belgium Rules”  testo di Johan  De Boose  regia di Jan Fabre  (anteprima mondiale)  Teatro Politeama, NTF 017,  1-2  luglio. “Concerto per Amleto” (T. San Carlo, 26 giugno)  drammaturgia e voce di F. Gifuni  Orchestra Sinfonica Abruzzese  Dir. Rino Marrone. “Parrucuttia” da I. Buttitta (Palazzo Cellamare, 4/5 luglio)  con Ilenia Maccarone,  Giovanni Moschella, Marina Sorrenti.  Gilda Butta (pianoforte), Gianluca Scorziello (percussioni)

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Come ormai sanno i nostri venticinque lettori (notoriamente siamo ottimisti….!), la contaminazione – minimo (o massimo?!) comun denominatore delle esperienze teatrali dei nostri giorni – non gode sempre delle nostre simpatie, se non altro per l’uso/abuso che se ne fa e il modesto tasso di creatività che da parte dei suoi fautori a volte manifesta. Bisogna dar atto a Jan Fabre di essere stato fra i primi a praticarla (già sulla soglia degli anni ’80), accompagnandola peraltro ad una drammaturgia del corpo, anche nella sua più schietta fisicità, già propria ai maggiori esponenti del teatro del secondo Novecento (con evidenti ascendenze artaudiane), ma in lui caratterizzata quasi da una magnifica ossessione, che lo ha portato a fare spesso del palcoscenico un laboratorio per testare i sensi e gli istinti.

Del corpo, peraltro, egli ha esaltato, ed esalta, anche il cervello (emblematica una delle mostre apertesi a Napoli – alludiamo a quella allo studio Trisorio – in contemporanea allo spettacolo in scena al Politeama, che qui recensiamo: una teoria di sculture, riproducenti appunto il cervello umano, con i thinking models realizzati in silicone, per offrirli il più fedelmente possibile). Alla riflessione, infatti, di cui quell’organo è il motore, Fabre non vuol proprio rinunciare, ne avverte l’importanza, ma anche tutto il fascino (fino alla sua recente dichiarazione sul cervello come l’organo più sexy del corpo!); e la cosa non può che far piacere, in tempi di assai modesto entusiasmo per l’attività pensante in genere!

Il problema resta però (lo abbiamo osservato già a proposito della Liddell, per il suo recente spettacolo, anche questo al NapoliTeatroFestival pochi giorni fa) come, e con quali, strumenti pensare sulle tavole del palcoscenico, certo senza che per questo, da parte nostra, si invochino grammatiche e sintassi irrinunciabili per il  pensiero, ma non dimenticando certo le ragioni del teatro. Alle quali giova ancora, nonostante anatemi vecchi e nuovi da parte delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie, la parola: strumento principe se non altro per comunicarlo, il pensiero, ma nel teatro (e non solo) sempre più avvertito come insufficiente; anche se Fabre ne fa in questo suo ultimo spettacolo largo uso, forse eccessivo, caricandolo fortunatamente di un’ampia dose di ironia, anche per evitare le secche di una scontata narratività, indubbiamente estranea al suo come a gran parte del teatro contemporaneo.

Se la parola, dunque, può (non deve per forza!) restare necessaria o venire utile, a teatro occorre comunque dell’altro: il comportamento scenico innanzitutto; e qui il corpo la fa ancora da padrone, non più residuo osceno (ob-scaena), tenuto cioè al margine della scena, ma suo vero protagonista, magari per esplicitare ciò che la coscienza rinnega, relegandolo nel rimosso. Faber continua a privilegiare l’uso del corpo, come più sopra si è accennato, coinvolgendo i suoi danzatori/attori (i “guerrieri della bellezza” come ama definirli) in un miscuglio esplosivo di libertà e mimetismo, spesso in un vero e proprio esercizio di Sisifo, sottoponendo i gesti fisici alla durata e all’usura del tempo. Il momento della riflessione segue subito dopo, o in ogni caso accompagna, la messa in scena delle azioni, che spesso durano indefinitamente, procedendo per accumulo e ripetizioni, non disdegnando la celebrazione anche rituale, quando non addirittura carnevalesca, del corpo dell’attore.

Spesso le azioni sceniche si traducono, a loro volta, in un incontro/dialogo fra diversi registri linguistici; fu questo il caso della performance/videoistallazione offerta nel Prologo alle future edizioni del NapoliTeatroFestival, alla Mostra d’Oltremare nel settembre del 2005: in uno spazio costituito da quattro grandi pareti, all’interno del quale era collocato uno strabocchevole pubblico, la danzatrice croata Ivana Jozic, seminuda al centro di quel quadrilatero, interagiva con le parole e i gesti del celebre coreografo americano William Forsythe, che a sua volta danzava, e recitava – dallo schermo – un testo di Fabre (L’ange de la mort, che peraltro dava il titolo all’intero spettacolo) fra le teche di una piccola galleria degli orrori, nel Museo di Anatomia di Montpellier, mentre quasi strisciando furtivo lungo le pareti della sala, il compositore Eric  Sleichim offriva le sonorità del suo sassofono alla complessiva performance. Esempio efficace  di contaminazione, piuttosto originale e convincente, fra i linguaggi dell’arte.

In modo assai meno conciso (per non dire davvero prolisso) e con una più scontata forma di contaminazione fra vecchi generi teatrali (rivista, musical, balletto) più che autonomi linguaggi artistici, l’ultimo Fabre ha offerto una meditazione sul suo Belgio, terra di antichi conflitti e continue contraddizioni (come del resto l’intera Europa di cui è ormai l’emblematico microcosmo); culla di grandi artisti come Ensor e Magritte (per ricordare i più citati dalle immagini montate nel corso dello spettacolo), ma anche luogo con il più alto consumo di birra e patatine; metafora per eccellenza di un po’ tutta la società contemporanea, con i suoi tic, le sue crudeltà. Il Belgio – sembra dire Fabre – siamo tutti noi; e lo dice non per offrire alibi alla sua terra d’origine, ma per sottolineare la portata universale del problema nell’universale omologazione.

E’ un pensiero, ovviamente, del tutto condivisibile; un po’ meno – lo si è capito – è il modo, non sempre teatralmente efficace, con cui è espresso sul palcoscenico. L’ironia alleggerisce certo il discorso, ma tuttavia non riesce a mascherare l’eccessiva pervasività della parola, davvero inconsueta e pertanto meno tollerata in un tipo di teatro che, se non sempre visivo o visionario, è tuttavia tutt’altro che predicatorio, tanto meno politico alla vecchia maniera. Un teatro che mette forte l’accento su una fisicità intensa, fino all’incandescenza, non può poggiare su percorsi di accumulo che, privati di adeguato ritmo, rallentano, quando non azzerano, la voluta empatia con il pubblico.

Ovviamente non mancano tracce di sicura, ancora sorprendente teatralità: basterà citare, in un disegno coreografico però troppo spesso semplicistico (fra abili sbandieratori che si vedono ormai in ogni contrada che celebri il suo passato storico, e datate danze del ventre che sostituiscono, alla celebre cintura di banane della ormai dimenticata Joséphine Baker, il più rumoroso perizoma con piccole bottiglie di birra) la breve danza della coppia che ha fra le gambe turiboli d’incenso che gettano il loro fumo alla volta dei rispettivi sessi: ironica immagine di un paese – ma ormai di tutta un’epoca – che sembra invano aver tentato di desacralizzare, e quindi liberare effettivamente, l’eros.

E ancora, per finire, la recita a mo’ di litanie delle regole (cui allude il titolo stesso dello spettacolo) di un Belgio che ormai appare chiaramente l’inverno del nostro scontento: recita reiterata dai quindici attori, in fila e scalpitanti, messi a dura prova dal movimento defatigante impresso ai loro corpi (vero esercizio di Sisifo, cui più sopra si accennava), fino a crollare sul bordo del palcoscenico, non senza privarsi dell’ennesima tavoletta di cioccolata nera, prodotto tipico del loro paese.

“Il resto è silenzio”? Non proprio. Tanto per rimanere nella metafora scespiriana, gli ultimi fuochi di una rassegna, generosa con i suoi fruitori ma anche con gli artisti ospitati (espressione delle più disparate forme di teatro, tanto per non scontentare nessuno!), hanno consentito l’approdo ad acque meno inquiete perché già conosciute ed amate; proprio al castello di Helsinore, per esempio, grazie ad un “Concerto per Amleto”, offerto nella fresca sala del San Carlo, in cui si sono potute riascoltare le belle musiche di Šostakovič, composte per due famose edizioni della celebre tragedia, una delle quali, cinematografica, con la regia del russo Kozinčev e l’adattamento di Boris Pasternak, si sarebbe da parte nostra rivista assai volentieri, anziché assistere alla lettura antologica del pur sempre bravo Gifuni, qui forse un po’ troppo sofferente in un’immedesimazione leggermente ostentata.

E felice anche l’approdo in uno dei luoghi più belli di Napoli, sapientemente illuminato, palazzo Cellamare, per afferrare – fra sonorità tardo impressionistiche e lancinanti colpi di percussioni – lo splendido siciliano di Ignazio Buttitta, qui donato – quasi soffiato – dalla voce dei tre interpreti (Marina Sorrenti, Ilenia Maccarone, Giovanni Moschella) a spettatori ammaliati da quella misteriosa atmosfera più che dalla violenta protesta, ancora una volta inascoltata, forse non solo simbolicamente inascoltabile, di quei versi.

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