Cinzia BALDAZZI – “Tito Andronico” o del teatro patologico (Dario D’Ambrosi e i disabili psichici al T. Argentina, Roma)


Il mestiere del critico



TITO ANDRONICO O DEL TEATRO PATOLOGICO



Dario D’Ambrosi sceglie il plot della violentissima tragedia shakespeariana per proseguire il progetto di teatro-terapia effettuata sui ragazzi con disabilità psichiche – Al Teatro Argentina, Roma


Non ci sarà mai nessuna scienza che potrà stabilire
fino a che punto il tuo cervello reggerà.
Dario D’Ambrosi

«Posso solo suggerire che chi vuole combattere la falsa coscienza e destare la gente ai suoi veri interessi ha molto da fare, perché il sonno è molto profondo», scriveva nel 1969 il sociologo canadese Erving Goffman: «Ed io non intendo fornire una ninna-nanna, ma semplicemente entrare furtivamente e osservare il modo in cui la gente russa». Nessuno russa, se così vogliamo idealizzare, immerso nell’alterità di un’aura convenuta della coscienza umana, privata e pubblica, nel Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi, da tempo impegnato in un progetto terapeutico della disabilità provocata dall’ansia e dal tormento psichico. Ne La vita quotidiana come rappresentazione, Goffman era convinto di quanto considerassimo sintomo di turbamenti psichici proprio  il violare le regole cerimoniali della quotidianità: il concetto è condivisibile a patto che si inseriscano, in tali trasgressioni, esclusivamente quelle in grado di non mettere in pericolo la sopravvivenza singola e interpersonale.

Dario D’Ambrosi, artista di lungo corso (è il sadico flagellatore nel film La Passione di Cristo di Mel Gibson e, in uno scorcio differente, l’ispettore Canton in Romanzo Criminale), nel 1992 ha costituito il Teatro Patologico, riorganizzando poi i locali abbandonati del XX municipio romano in via Cassia 472 in un luogo adibito a una pratica vicina alla “dramma-terapia”: con l’aiuto di medici specializzati e assistenti sociali, giovani e adulti schizofrenici, autistici, portatori della sindrome di Down e altri severi disturbi, calcano le scene, dando corpo a vari spettacoli.

L’ultimo esito di un simile durissimo training è l’allestimento, al Teatro Argentina di Roma, di una versione particolare del Tito Andronico di William Shakespeare: «Un lavoro al limite dell’impossibile», racconta sempre D’Ambrosi, con il quale ho avuto una breve incisiva intervista, precisando: «Sono riuscito a trasformare in attori sessanta ragazzi malati che, grazie alle lezioni teatrali, sono migliorati in modo eclatante nello stato clinico. La malattia mentale genera drammi. C’erano giovani che picchiavano i genitori. Ora grazie alle mie lezioni, a volte piene di sofferenza, questi ragazzi piano piano trovano la loro identità, una consapevolezza di se stessi sino ad ora inesistente».

Nel 2009, D’Ambrosi apre la Prima Scuola Europea di Formazione Teatrale per disabili nella psiche, con l’intento principale di stimolare, in ordine dialettico, la libertà creativa dei malati coinvolti, evitando però, nella didattica, di influenzarne la fantasia e il sentire: lo scopo è favorire ognuno a rinvenire un proprio slancio fisico idoneo nell’area proficua di una prossemica ben utilizzata, sorretta da discipline di origine semiotica dedicata ai gesti, all’atteggiamento, al rispetto di spazi e distanze in un comunicare verbale e non. Il tutto nel dominio allargato della drammaturgia e nei vari appositi ambiti, traslati poi – si spera agevolandoli – nella sfera della realtà.

In effetti, un programma di trattamento sul palcoscenico (magari presunto) nei confronti di disagi del genere è piuttosto coerente con la psicoterapia, fondata sul rapporto tra soggetti, ponendo in gioco risorse emotive e comportamentali, non soltanto intellettuali. Personalità eminenti nel campo, al pari dello psichiatra austriaco Jacob Levi Moreno e del tedesco naturalizzato statunitense Fritz Perls, hanno messo in luce il legame intercorrente tra la pratica terapeutica diffusa nel settore e una funzionalità archetipica, iniziando da prassi e riti radicati della civiltà antica: il “fare teatro”, l’assumere un’identità distinta dal convenzionale. Intraprendendo, quindi, un tragitto nel baratro e nel dolore dell’anima e del pensiero, D’Ambrosi ha vinto una scommessa assai rischiosa: ossia, dotare di dignità pazienti gravi o gravissimi tramite il fertile e curativo strumento della recitazione.

Nella storia delle attività anteriori al recentissimo Tito Andronico appena ospitato all’Argentina di Roma, tra i numerosi allestimenti del Teatro Patologico ricordiamo il tour de force emotivo di una concentrata Medea nel 2013, seguita da L’ora della falsa vergogna di Sabrina Scatà nel giugno del 2017, nella complessa dimensione femminile resa nel mix di arti visive e performative, orientata a segnare eventuali passi avanti nel superamento di un abuso.

Ma è Tito Andronico uno dei punti di approdo di un simile lavoro sui ragazzi-allievi. Componimento d’esordio, scritto tra il 1589 ed il 1593, è il più sanguinoso del repertorio shakespeariano, spesso ignorato a causa della violenza pulp, altrove giudicato bambinesco e infantile, se non addirittura realizzato solo in vista di un facile guadagno. Nei cinque atti, lo scontro tra i protagonisti procede tra assassini efferati, stupri, mani amputate e lingua tagliata, morti offerti in cibo alle bestie, nemici condannati alla fame e alla sete, con un macabro banchetto in cui il perfido Aronne è costretto a sua insaputa a mangiare un pasticcio composto con la carne dei figli.

Dei profili anche terapeutici del teatro, giustamente D’Ambrosi avrà decifrato – in qualche misura – significative tracce di necessità lungo l’intero percorso della cultura e delle tradizioni: l’elemento della catarsi (dal greco kátharsis, derivato da katháirein, “purificare”) fu introdotto da Aristotele per esprimere il peculiare afflato liberatorio, dalle spinte antagoniste alla natura originaria dell’uomo, posseduta dalla tragoidía classica per gli spettatori. L’illustre filosofo scrive: «Tragedia dunque è mìmesis di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno, a suo luogo, nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto quello di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni».

Nel workshop “patologico”, e in questo Tito Andronico, i disabili psichici, pertanto, “recitando” davvero, coordinano, nel fingere, il loro ruolo realistico nella vita, imparando a indirizzarlo, arginandolo senza subirne l’annientamento autoritario. Con tali presupposti, è così maturato un grande laboratorio, stimolante spazio di scambi di iniziative, desideri, sentimentalità e tendenze, culminate in emozionanti serate sperimentate ed evocate in un acting sui generis, in opere firmate dagli studenti con scenografie e costumi allestiti ad hoc.

Nella performance di Tito Andronico, dramma “classico” ambientato in un Impero Romano ormai costretto a difendersi dalle invasioni, D’Ambrosi accompagna gli interpreti in un poderoso e commovente viaggio nel male, quasi un pioniere degli odierni film slasher hollywoodiani: una trama-intreccio attuale, sebbene sia ageé, per un duplice motivo. È all’altezza di parlare al pubblico di oggi, addestrato o rassegnato alla violenza nei lungometraggi e nelle fiction televisive: l’individuo che, ignaro, mangia i propri cari rivive nella figura del critico Meredith Merridew di Oscar insanguinato, cui viene servito un pudding cucinato con l’ingrediente principale dei cadaveri dei fedeli cani, giungendo all’episodio del Trono di Spade quando Arya vendica la morte di fratello e madre facendo ingerire all’assassino una pietanza con le membra dei figli dentro. D’altronde, malgrado le atrocità del terrorismo, potremmo continuare a valutare assurda la crudeltà delle vicende rappresentate, non essendo abituati ad assistere a impiccagioni e squartamenti accettati, invece, nell’epoca elisabettiana.

Il Teatro Patologico reputa fondamentale, per il successo dei progetti, la convergenza di docenti, allievi, social workers e famigliari: ha girato il mondo da Parigi a Barcellona, Amsterdam, Praga, Madrid, Monaco, Londra. Negli Stati Uniti ha avuto occasione di far conoscere la personale metodologia perfino in ambienti accademici (New York University, l’Akron di Cleveland, l’Haward di San Francisco), in aule dove le ricerche non sono tuttora concluse.

Azzardando un salto di circa un paio di millenni da Aristotele, ecco il marchese De Sade, il quale, in èra napoleonica, dal 1801 al 1814, visse tra le mura del manicomio di Charenton, un ricovero per gente implicata in problemi nella sfera dell’Io noto per il trattamento estremamente umano, all’avanguardia, impartito ai pazienti. Nel 1964, il drammaturgo tedesco Peter Weiss ipotizzò che Sade allestisse una pièce sull’omicidio di Jean-Paul Marat ingaggiando gli interpreti tra gli internati. Del famosissimo Marat/Sade, l’inglese Peter Brook realizzò subito una versione sui palcoscenici londinesi traendone, in seguito, il plot dell’omonimo film. Immaginario e incisivo antesignano della teatroterapia fu, quindi, Donatien-Alphonse De Sade, anche se l’autentico precursore di un processo parallelo, posteriore di un secolo e mezzo, è stato Jacob Levi Moreno, il creatore dello Psicodramma, medico di matrice freudiana, stravagante ed eclettico, il quale già dal 1908 aveva incrementato esperienze di tipo sociale inaugurando un primo esplicito studio operativo di intervento nelle situazioni di margine: l’obiettivo era incentrato nella mise en scene, in gruppo, presso un parco della periferia di Vienna con ragazzini “difficili”.

Il vero incrocio, comunque, tra ribalta e psicologia avviene intorno al 1960, favorito da alcune ulteriori risonanze: la nascita dei laboratori tra le quinte, la struttura di un nuovo training ideato per recitare, l’antropologia teatrale, una modalità rinnovata di concepire il setting e la scoperta di qualificanti teorie della psicoanalisi. Di conseguenza, il teatro in progress inizia a coltivare i messaggi dell’autocoscienza introspettiva nella soggettività della pratica artistica (Jerzy Grotowski, Peter Brook, Eugenio Barba) e, nel dettaglio, scaturisce una dinamica inedita dall’avant-garde storica, con le radicali alternative da loro offerte (nella propedeutica al ruolo dell’attore, nell’incarico collettivo dello show complessivo) emergendo solidale, nella seconda metà del Novecento, uno slittamento di interesse non più focalizzato sul prodotto finale, ma sullo sviluppo inerente.

In Italia, un orizzonte ispirativo del genere trova sostegno nel 1975 in Matti da slegare, documentario di Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia, Stefano Rulli. Girato insieme agli ospiti del nosocomio di Colorno, nasce con l’intento di avvalorare le tesi di Franco Basaglia sulla psicopatia, contribuendo al suo disegno politico civile impegnato a superare la logica di reclusione. Poco dopo, nel ‘78, un simile approccio di superamento dei frenocomi si materializza sul lato istituzionale promulgando la celebre legge di riforma ospedaliera e territoriale: «Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse», commentava Basaglia: «Noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione, anche senza la costrizione».

All’incirca nel medesimo periodo, il diciottenne Dario D’Ambrosi, già affascinato del meccanismo drammatico e del pari stimolato dallo studio sulle insanità della dimensione interiore, riesce (una sorta di novello McMurphy di Qualcuno volò sul nido del cuculo) a trascorrere novanta giorni nell’istituto psichiatrico Paolo Pini di Milano per osservare da vicino il comportamento degli internati. Dalle due passioni acquista energia lo schema del teatro denominato “patologico” da uno dei critici “giunto” sino allo spazio di via Ramazzini, a Roma, per assistere a tali esordi: sono spettacoli pensati in chiave strumentale per indagare sulla disabilità psichica, la reale nemica dei pazienti in scena, allo scopo di ridare, citando l’autore, «dignità al matto».

In un’atmosfera analoga, diviene urgente il disporre di un “laboratorio”: interpreti e registi intervengono complementari sul training dell’exhibition proposta come setting per approfondire stile, psicologia e scelte semantiche.  Nel 1979 la British Association for Dramatherapists dichiara: «La drammaterapia aiuta a comprendere e alleviare i problemi sociali e psicologici, inclusi le malattie mentali e l’handicap; facilita l’espressione simbolica attraverso la quale l’individuo (sia da solo che in gruppo) entra in contatto con se stesso, per mezzo di attività creative strutturate che coinvolgono la comunicazione verbale e fisica».

Alla soglia degli anni Settanta, Grotowski aveva spiegato: «Il teatro, grazie alla tecnica dell’attore, quest’arte in cui un organismo vivo lotta per motivi superiori, presenta una occasione di quel che potremmo definire integrazione, il rifiuto delle maschere, il palesamento della vera essenza: una totalità di reazioni fisico-mentali. Questa possibilità deve essere utilizzata in maniera disciplinata, con una piena consapevolezza delle responsabilità che essa implica». Inoltre, precisa: «È in questo che possiamo scorgere la funzione terapeutica del teatro per l’umanità nella civiltà attuale».

Decenni dopo, Dario D’Ambrosi in ampia libertà accoglie l’istanza, anche grotowskiana, nel suo Tito Andronico, con un traguardo però – ha sottolineato nel nostro colloquio – del tutto originale e svincolato dal resto già accertato.

 

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.


Tito Andronico

liberamente tratto da La tragedia di Tito Andronico di William Shakespeare

adattamento e regia Dario D’Ambrosi

assistente alla regia Samantha Biferale

interpretato dagli attori diversamente abili del corso universitario di “Teatro Integrato dell’Emozione”

musiche originali Francesco Santalucia – scene Sergio Maria Minelli – costumi Annamaria Porcell – coreografie Claudia Vegliante

Produzione Teatro Patologico in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”


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