Francesco TOZZA- Dalla Genesi misteriosa-e confusa- di Angelica Liddell…(Napoli Teatro Fest)


Napoli Teatro Festival

DALLA GENESI MISTERIOSA – E CONFUSA- DI ANGELICA LIDDDELL


ALLA SUBLIME RIFLESSIONE SUL TEMPO DI PAPAIOANNOU

Genesis 6, 6-7  di  Angelica Liddell  (testo, regia, scenografia e costumi  di A. L.) in coprod. con Teatros del Canal (Madrid) e  CentreDramatique National de Montpellier.  The Great Tamer ideazione e regia di Dimitris Papaioannou  con Pavlina Andriopoulou, Costas Chrisafidis, Ektor Liatsos,  Ioannis Michos, Evangelia Randou, Kalliopi Simou, Drossos Skotis, , Christos Strinopoulos, Yorgos Tsiantoulas, Alex Vangelis
Teatro Politeama, Napoli – 17/18  e 23/24 giugno

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Uno degli effetti positivi della c. d. contaminazione è stato quello di aver scardinato i troppo sottili (e inutili) distinguo fra i vari linguaggi dell’arte, contrapponendo loro più proficui confronti/incontri, intriganti scambi di esperienze e di storiche conquiste, addivenendo molte volte a risultati e testimonianze di apprezzabile creatività, cui del resto non si può approdare se non si abbracciano i percorsi della  rischiosa ma pur sempre necessaria ricerca e sperimentazione del nuovo. E’ vero, però, che la cosa fa registrare ancora qualche residuale disagio in alcuni spettatori; più spesso, adesioni acritiche o conformiste, anche nella c. d. critica ufficiale, al cui interno è talvolta evidente l’imbarazzo già nella divisione dei compiti per le recensioni o – all’opposto – l’arrogante pretesa  di “competenze specifiche” (con autoqualifiche di “esperti”): tutte da dimostrare e per nulla dimostrate, trattandosi di materie e argomenti (magari a carattere teologico e/o antropologico) in cui, peraltro, gli stessi teatranti e i loro recensori farebbero bene a procedere con i piedi di piombo.

Lo si è potuto constatare, ancora una volta, a proposito di due spettacoli, di rilievo internazionale (come si dice, e non solo per la provenienza), che sicuramente impreziosiscono una rassegna (il NapoliTeatroFestival 017), la cui abbondante offerta, non a caso, mantiene prudentemente la tradizionale scansione fra generi e sezioni, lasciando comunque libero lo spettatore (non nevrotico o nevrotizzato da inutili pretese di esaustività!) di ritagliarsi, con le sue scelte, un suo programma; esprimendo quindi, e a se stesso rivelando, un’idea di teatro, magari da approfondire nel tempo (il che, se è un progetto del curatore, non è proprio da buttar via).
Il primo dei due spettacoli in questione è Genesis 6, 6-7 di Angelica Liddell, la celebre regista catalana, dai più definita “l’estremista”, la “guastatrice del teatro europeo”, per altri la rappresentante di un “teatro iconoclastico e/o provocatorio, solo in merito alla forma, mentre risulta perfettamente in linea con i contenuti profondi trasmessi dalle fonti adottate”: giudizi – sia i primi che i secondi – perfettamente emblematici di quella “società dello spettacolo” in cui da tempo siamo immersi, propensa a vedere, e creare, nella sua ipocrisia di fondo, scandali dovunque, ma anche capace di forgiare, al tempo stesso, miti e grandezze, laddove più umili e ponderate disamine porterebbero a registrare, magari, discreti talenti, offuscati tuttavia dal fumo dell’incenso, e comunque presto logorati dalla pretesa di invadere campi della riflessione non facilmente trasferibili sul piano dei segni propri ai linguaggi artistici, quello del teatro specificamente.

A scanso di equivoci, non è qui in questione la difesa di un’artista controcorrente da anatemi di vescovi e insulse opposizioni di politici da strapazzo (che sembrano aver accompagnato un precedente spettacolo della Liddell, approdato due anni fa in Italia, in quel di Vicenza); reazioni di cui non val la pena nemmeno parlare, ma tanto meno vantarsi di non averle condivise (!). Piuttosto bisognerebbe chiedersi cosa davvero significhi essere controcorrente oggi e magari verificare il nuovo che non c’è in riflessioni mistificate o comunque condotte con strumenti e in luoghi all’uopo non proprio attrezzati.
Lo spettacolo della Liddell, dunque, a nostro avviso ovviamente (e non pretendiamo certo – noi – di offrirne l’interpretazione autentica!), più che un’analisi del Genesi e dei due versetti in particolare, cui fa riferimento il titolo, voleva essere una meditazione sulla violenza che oggi – in realtà da sempre – domina nelle società: una violenza che, sin dai primordi (e i sacri testi di un po’ tutte le religioni stanno lì a ricordarlo, cioè ad allegoricamente rappresentarlo), ha rischiato e rischia di colpire i loro stessi membri, cioè coloro che giocoforza si intendono proteggere, pena altrimenti una ineludibile estinzione.

Probabilmente l’unico modo per combatterla – la violenza – sta nell’ingannarla, deviandola in direzione di una vittima relativamente indifferente, una vittima ‘sacrificabile’; sembra, insomma, che per ingannarla non la si possa privare di ogni sfogo, ma le si debba procurare qualcosa da mettere sotto i denti: la sostituzione sacrificale, appunto, che peraltro generalmente rinvia ad un dio che reclama le vittime, ed è l’unico a godere del fumo degli olocausti, evidentemente dissimulando l’operazione e allo stesso tempo placando, nel transfert collettivo, i rapporti conflittuali.
Ancora nella Grecia del V secolo, quella dei grandi tragici, il sacrificio, non solo quello animale, continuò a comparire, e nella sua forma più selvaggia, come sostituzione di un essere umano ad un altro: la Medea di Euripide (esplicitamente tenuta presente dalla Liddell nel suo spettacolo, o forse più nelle dichiarazioni alla stampa che l’hanno accompagnato) sostituisce, all’oggetto reale del suo odio (Giasone), che peraltro le rimane fuori portata, i propri figli, in un atto – l’infanticidio – che troppo facilmente si definisce di demenza, ma non è meno suscettibile di iscriversi, non solo nelle culture arcaiche e in quelle classiche come la greca o l’ebraica, ma perfino in alcuni aspetti della cultura contemporanea, in un quadro rituale. Non a caso Medea prepara la morte dei propri figli come un sacerdote prepara un sacrificio, innanzi tutto intimando di allontanarsi a tutti coloro che con la loro presenza potrebbero compromettere il successo della cerimonia.
Medea – come sottolinea René Girard nel suo fondamentale, ancor oggi.

La violenza e il sacro del 1972, tradotto in Italia nel 1980 (esso sì tenuto presente, consapevolmente o meno, se non dalla Liddell, dai consulenti alla sua drammaturgia) – ci riporta alla verità più elementare della violenza: la quale, se non viene soddisfatta, continua ad accumularsi, producendo gli effetti più disastrosi, qualora non intervenga il ‘sacrificio’ per canalizzare la sua energia nella ‘buona’ direzione degli spostamenti e delle sostituzioni.
Certo ripugna che il sacrificio animale possa tradursi – e si sia tradotto – in sacrificio umano (in realtà, ormai, ripugna anche il primo): “non si può immolare l’uomo per salvare l’uomo” – diceva de Maistre. Ma la funzione del ‘sacrificio’, più o meno mascherato o consapevolmente dissimulato, ha continuato ad operare: prigionieri di guerra, schiavi di ieri e di oggi, individui minorati, tutti i c. d. rifiuti della società, stanno a dimostrarlo (in alcune società si è anche sacrificato il re e/o il suo buffone): si è assistito, insomma, ad un esercizio della violenza (veri e propri assassinii)  per evitare il rischio delle reazioni a catena, della vendetta perenne, per non compromettere – lo si è detto – l’esistenza stessa della società. Respingendo il sacrificio nella sua totalità fuori dal reale, il pensiero moderno tenta di misconoscere la violenza, ma – a ben riflettere – anche nel suo sistema penale non vi è alcun principio di giustizia che differisca effettivamente dal principio di vendetta. La vendetta pubblica, più che presentare una vera differenza dalla vendetta privata, serve a scongiurare il pericolo di escalation della violenza, cioè la vendetta interminabile.

Fra le religioni, forse solo la cristiana ha affrontato – con grande profondità e, al contempo, spiccato senso del tragico – questo problema del rapporto fra la violenza e il sacro, con la conseguente funzione del sacrificio rituale, prospettato nella sua dimensione più alta. In essa, a porsi come capro espiatorio, realizzando la sostituzione sacrificale, è il Cristo, il Figlio stesso di Dio, addossandosi tutte le colpe del mondo, addirittura dell’intera umanità, alla luce di una trascendenza di cui non si dissimula del tutto l’ambiguità, dal momento che essa razionalizza la vendetta, ma non cancella la sofferenza sottesa all’istituzione sacrificale (“Padre, perché mi hai abbandonato”); e la Resurrezione successiva addomestica ulteriormente, ma non cancella, la crudeltà che si è giocoforza perpetrata.

Angelica Liddell sembra essere, in proposito, più pessimista, e non credere quindi alla funzione sostitutiva di una violenza minore (qual’è quella del sacrificio rituale), rispetto alla violenza generalizzata. La violenza la ossessiona in tutte le sue forme, per cui finisce con l’imprecare simbolicamente contro la stessa procreazione: in questo senso vanno i versetti del Genesi che fanno da titolo allo spettacolo, ma anche molti dei suoi momenti (l’iniziale cortometraggio su una circoncisione fin troppo analiticamente esposta, quasi lo si dovesse presentare ad un convegno di medicina; l’incedere di due giovani donne, ricoperte da un abito rosso – quasi a nascondere incipienti maternità, forse per nulla volute – più spesso mostrate nello loro nudità, propense a impugnare, e a danzare, con rutilanti chitarre elettriche ma anche grossi kalashnikov, ecc.). Il rischio di una caduta nel pasticciaccio teologico-allegorico, comunque nel mero didascalismo, si è fatto progressivamente più marcato: il nuovo che molti si aspettavano dallo spettacolo ha finito col non esserci, anche a livello di una riflessione apparsa ai più spesso mistificante, in ogni caso accettabile solo se tradotta in effettivi segni scenici.

Fortunatamente qualcosa di più convincente, anche dal punto di vista teatrale (condivisibile o meno sul piano teorico, non importa), è apparsa nell’ultima parte: un bambino, con una corona di spine in testa (precoce segno del martirio), che sbocconcella in proscenio un pezzo di pane, segno dell’Eucarestia che istituirà da grande, prima di morire, come sacrificio del proprio corpo alla violenza degli altri, ma che il pessimismo di Angelica non riconosce, dal momento che fa imbracciare anche a lui un potente kalashnikov con il quale si balocca. Inutilità o impotenza storica dello stesso cristianesimo, in un mondo in cui perfino la sostituzione sacrificale del Cristo non appare più credibile?! E’ questa la vera provocazione di Angelica Liddell, la nuda verità di uno spettacolo che è riuscito a decollare solo quando ha rinunciato alle troppe parole, alle inutili disquisizioni sulla sostanza di Dio (!), agli eccessivi quanto sterili simbolismi, ed  è diventato scandalo della fede a cui forse solo l’assurdità della finzione scenica permette ancora di credere.

Il molto spazio che ha preso lo spettacolo della Liddell – che pensavamo addirittura di non recensire, non avendoci del tutto convinto (e invece le trappole del lògos, con i suoi incantamenti….!) – ci lascia poche righe per il secondo degli spettacoli internazionali, cui all’inizio si accennava: The Great Tamer (Il Grande Domatore) del coreografo greco Papaioannou. Ma qui, per fortuna, le parole servono poco, dal momento che hanno parlato – e straordinariamente – i corpi dei dieci (come definirli?) attori-danzatori, con il loro incedere lento, sinuoso, elegante come quello dell’astronauta che ne ha appena scoperto l’habitat: replicanti di un mondo dove domina ancora il conflitto, che tuttavia sembra anche un gioco, perché gli arti spezzati poi si ricompongono, fra incontri e nascondimenti, contorsioni inedite, attraversamenti inusuali fra membra spesso rubate alla vista; le quali, però, poi tornano ad apparire nel loro fulgore, magari confondendosi, producendo illusioni ottiche o, più concretamente, frammenti di un un’arte figurativa  (da Rembrandt, Masolino, Max Ernst, ecc.) e di una cultura in genere che sembra non potersi cancellare, in ogni tempo e in ogni luogo. Lo suggerisce, peraltro, la scena finale, in cui due danzatori abbandonano in proscenio un grande libro con sopra il teschio dello scespiriano Yorik.

Immortalità di una cultura che è anche attaccamento alla vita, bisogno di emergere continuamente dal sottosuolo, comunque rifiuto della morte, come sembra indicare già la scena iniziale, più volte ripetuta: un uomo si spoglia per quindi distendersi nudo su una delle sottili lastre che occupano il palcoscenico, un altro lo copre con un telo bianco, come a volerlo seppellire; un altro ancora, muovendo la lastra vicina, fa volar via (e con quanta precisione!) il leggero panno, quasi a rifiutare il segno di quella sepoltura; e l’iterazione del gesto produce un effetto drammatico, emozionante.
Il tutto in un teatro visivo e visionario insieme, cui qui si accompagna la versione sempre più lenta, infine quasi centellinata, di un valzer di Strauss; un teatro che certamente riflette, e fa riflettere, ma nel silenzio delle immagini che sa creare, e soprattutto nella rilevanza dei segni scenici che propone, come sostanzialmente a teatro sempre dovrebbe avvenire, nello specifico con quel segno per eccellenza che è, e resta, il corpo dell’attore.

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