Agata MOTTA – Saggistica breve. Le storie che ti vengono incontro (“Appunti per un naufragio” di D. Enia)

 

Saggistica breve

 


LE STORIE CHE TI VENGONO INCONTRO


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Davide Enia a “Una marina di libri”

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Sì, è vero, Davide Enia nel suo ultimo romanzo Appunti per un naufragio, edito da Sellerio e giunto in libreria lo scorso maggio, ci propone ancora storie di migranti e di sbarchi dopo la sbornia di spettacoli teatrali, seminari, romanzi e documentari sul tema. Sì, è vero, più si parla di qualcosa più l’argomento diventa trito e familiare e si corre il rischio di assuefazione. Sì, è vero, per dar forma e luce e concretezza a certi eventi mancano le parole: esse sguisciano via perché inadatte, talvolta vergognose oppure stanche e usurate. E allora bisogna lavorare di fino per far sì che certe immagini tradotte da parole apparentemente insufficienti rimangano impresse nelle mente come fotogrammi, come moniti, come promesse. E bisogna avere talento perché questo accada, quel talento che, senza mai tradire le aspettative, possiede Davide Enia, al quale niente è impossibile perché lui i miracoli con le parole è  sempre stato capace di compierli.

Questo romanzo, umilmente e giustamente definito “appunti”, non mira ad aggiungere informazioni a un quadro già abbastanza ampio e ricco o a fornire ulteriori dettagli che déstino compassione; l’ambizione sottesa è più alta, è la necessità di fornire e affinare strumenti utili ad affrontare la Storia, questa che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e che da decenni ormai non è più soltanto cronaca ma ha cominciato a farsi memoria. La compassione e la pietas sono naturalmente presenti, ma come attitudine, come prerequisito ineludibile in qualunque essere umano. Quella dell’autore, che ha di recente presentato il suo  romanzo a Una marina di libri, l’attesissimo appuntamento palermitano con la piccola e media editoria, non è la saggia acquisizione dello storico o l’urgenza del giornalista – sebbene a tratti si possano attribuire al suo lavoro caratteristiche di entrambe le categorie – la sua è un’esigenza tutta interiore, quasi intima, perché tra le storie dei migranti emerge prepotente e bellissima la propria storia personale, quella del quarantenne Davide che si confronta con i propri affetti reali, con il non detto e con i silenzi che sempre costellano le relazioni familiari, specie quelle più intense e vere.

Così abbiamo da una parte lo sguardo attonito sui salvataggi, con il loro carico di sgomento, fatica, rabbia, sudore, svenimenti, cadaveri galleggianti alla ricerca di un camposanto, gravidanze che sono per lo più il frutto di stupri sistematici e continuativi, dall’altra l’opera indefessa della Guardia Costiera con i recuperi mirabolanti e misericordiosi, l’azione dei volontari che porgono aiuto materiale, frasi di accoglienza, calore umano, e degli stessi isolani che offrono cibo e vestiario, che prendono atto della trasformazione del loro luogo d’appartenenza, prima solo eden turistico e adesso lembo estremo d’Italia con i riflettori puntati addosso a partire dalla tragedia del 3 ottobre 2013, spartiacque tra un prima (comunque presente e drammatico) e un dopo trasformato in occasione di commemorazione.

Ma tra le pagine, indissolubilmente intrecciate a costituire un unico blocco narrativo, emergono il padre, cardiologo in pensione con l’hobby nascente della fotografia attraverso il quale continuare a posare uno sguardo diagnostico su oggetti e persone; lo zio Beppe, medico anche lui e pertanto terribilmente consapevole dell’avanzata di un linfoma che ne divora le carni ma non la voglia di lottare e Silvia, la paziente compagna che sa sorridere e porgere una carezza mentre solleva gli occhi da una poesia di Rilke, saldo approdo per l’autore che, grato, le dedica il romanzo. E poi, preziosi e levigati dagli anni trascorsi, svettano i ricordi d’infanzia, quelli più limpidi e puri: un padre che insegna a nuotare al proprio fiducioso bambino reprimendo l’impulso di sottrarlo alle bracciate frenetiche e alle sorsate di acqua salata; una zio che scivola tra i sassi dopo aver raccomandato ai piccoli di fare attenzione sul sentiero impervio o che impartisce perle di saggezza come quella relativa al “momento del polpo”, scaturita durante una mitica battuta di caccia alll’animale. Lo zio Beppe spiega al bambino deluso per non essere riuscito ad acchiappare il polpo a lui vicinissimo che “una storia, se vuole, ti viene incontro, e non c’è bisogno di trafiggerla o di scagliarcisi contro”.

Nulla di più illuminante per il bambino inconsapevole Davide che sarebbe diventato scrittore. E gli spiega anche, durante un’epica partita di calcio in cui i piedi goffi e impreparati dello zio castigano quelli generalmente portentosi del nipote, che si può perdere ma non per questo risultare meno uomini.

Chiunque abbia seguito e amato il percorso fertile e trasversale di Davide Enia, fatto di teatro, programmi radio, romanzi, non può non notare un’incrinatura, una ferita aperta, una sofferenza che, se trattenuta, avrebbe potuto implodere e devastare. Si era già notata la stessa crepa in Così in terra, ma qui appare più profonda, perché la realtà  guardata e raccontata rivendica una porzione maggiore di dolore, un pedaggio altissimo da pagare: lo scavo interiore nella propria vita in un momento critico incontra il recupero corale di tante altre storie che cominciano a scorrergli accanto, la commozione e la pietà per i propri morti si sostanziano della commozione e della pietà per altri morti che appartengono a tutti proprio perché non possono essere più restituiti a nessuno.

Così l’arte lo prende ancora per mano e gli indica saggiamente la strada, gli suggerisce di affidare, naufrago anch’egli tra i tanti, la propria frustrazione da testimone impotente alla potenza catartica della scrittura. E come sempre, la scintilla che scocca tra chi scrive e chi legge si accende e brucia e diventa fuoco: gli amici Paola e Melo, proprietari di un b&b e impegnati in prima persona nell’accoglienza, diventano i nostri amici, il tragico dilemma dell’enorme sommozzatore diventa il nostro dilemma, lo strazio del samurai, Comandante della Guardia Costiera che protegge col silenzio la propria famiglia, è lo stesso di quanti, dopo aver visto, non possono più dimenticare o imprimere una direzione “normale” alla propria vita. La sofferenza da stress post-traumatico non dà tregua, l’aver visto non consente la dolcezza dell’oblio. “Se hai davanti tre persone che stanno per annegare e cinque metri più avanti una madre giovanissima con un bambino in braccio, che fai? Verso chi ti dirigi? Puoi solo calcolare, è una questione matematica: tre vite sono più di due”. Questa la scelta lancinante del sub, anzi le scelte, perché situazioni di questo genere sono all’ordine del giorno. E nessuno vorrebbe trovarsi nei suoi panni.

E allora eccoci al punto iniziale. Si possono leggere statistiche e dossier, si possono vedere quintali di documentari, ma esserci è cosa diversa, esserci comporta l’obbligo di dare un senso nuovo alla propria esistenza, esserci significa semplicemente scegliere tra due reatà confinanti: la vita o la morte. Ogni questione o ogni polemica sui numeri biblici di questi esodi, sulla difficoltà di accogliere dignitosamente chi fugge, sulla possibilità reale di un’integrazione lavorativa si riducono a questo, la scelta tra concedere la vita – e quindi salvare, accogliere, accettare – o girare le spalle ad una morte che riguarda loro, gli altri, quelli dei barconi. “In un universo in cui tutto è sempre stato in movimento, dalle zolle continentali ai pianeti, si possono fermare gli essere umani?” chiede Enia al suo numeroso e attentissimo pubblico, e continua con il mito di Europa, la ragazza fenicia fuggita sul dorso di un toro bianco, un mito che è la nostra origine. “Siamo figli di una traversata in barca” conclude.

Ci sono amarezza, stupore e rabbia in questo romanzo di Enia, tante da spegnergli sul nascere la sorniona ironia che gli avevamo conosciuto negli anni in cui da ragazzo-prodigio sbancava ai botteghini, ma c’è anche la bellezza degli affetti sussurati e riconquistati, del pianto trattenuto a stento, di “parole che aprono spiragli sull’abisso”, di un obbligo morale che si spera possa scuotere l’abitudine al dolore che ormai accomuna buoni e cattivi, indignati e indifferenti.

E allora ci piace scegliere tra le proposte etimologiche suggerite dallo stesso autore per Lampedusa – l’isola che poggia sulla piattaforma africana ma che è Sicilia sotto il profilo amministrativo e culturale – e illuderci che il significato non sia lepas, lo scoglio eroso dalla furia degli elementi che scortica, quanto piuttosto lampas, la fiaccola che risplende nel buio, la luce che sconfigge lo scuro. Lo scuro delle partenze, dei distacchi, degli abbandoni, della morte.

Author: admin

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