Luisa SANFILIPPO – “Ragazza in metro” (racconto breve)


Io scrivo

 


RAGAZZA IN METRO

°°°°

Cammino, mi soffermo e guardo furtivamente l’andatura  differenziata della gente, i volti soprattutto, per osservare, cercare di intuire o, meglio, immaginare in ogni minima espressione facciale o gestuale eventuali storie di vita vissuta.

Ogni passante è certo un’incognita.

Mi avvio verso la metro. Appena trovato posto, cerco di ascoltare e non vedere nulla, solo voci, rumori, la voce che annuncia la fermata successiva… voci, rumori… Ma non sfugge all’attenzione un ragazzo  vestito di nero, jeans attillatissimi, maglietta con scritta hardcore, testa rasata ai lati, mentre in alto spiccano dritti come chiodi i rimanenti variopinti capelli.  Accanto a lui un altro giovane con  i capelli bianchi  che girano alti… sembrano lana di pecora a forma di cresta di gallo.  E una  donna spilungona, labbra rosso- fiammante, con uno spolverino che scopre un coordinato  elegante miniabito tutto di pizzo nero.

Cosa indosserà la sera?

La metro si ferma, gente che spinge per scendere o salire. Tra la folla  una coppia di fidanzatini con capigliature pazze, piercing e tatuaggi; e un ragazzino che molleggia e mastica patatine con aria serafica, cuffia alle orecchie color giallo mostarda e trolley in groppa. Tante insolite figure in mezzo a tanta gente comune.

Continuo a scrutare questa umanità così varia e stimolante; e subito mi viene in mente la grande coreografa, regista e danzatrice Pina Bausch, il cui progetto artistico si era da sempre differenziato dal balletto e dalla danza moderna in quanto, oltre alle installazioni d’arte, includeva l’uso della gestualità  teatrale e della parola. Lei riusciva a creare i vari personaggi  prendendo spunto anche dalla vita stessa dei suoi danzatori,  diversificando i loro caratteri in una infinita orchestrazione di gesti minimali.

Penso a lei perché si  ispirava  anche ad una umanità sconosciuta, fatta di gente comune che lei andava a cercare ovunque, anche nelle aree di periferia o nelle metropolitane: frammenti di esistenza, coloriture umane che l’artista trasfigurava superbamente in danza.

Ricordo qualche sua riflessione:

“Certe cose di possono dire con le parole, altre con la gestualità.

Ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più cosa fare.

A questo punto comincia la danza”.

E a questo punto anche i miei pensieri diventano fluttuanti.  La danza della memoria, dove le suggestive immagini della Bausch si proiettano, dileguandosi tra le immagini reali dei passeggeri.

La metro si ferma. Così pure le mie visioni.

Tra la folla riesce a farsi avanti una giovane donna, dai lineamenti delicati, molto diversa dalle presenze viste finora. Trova posto poco distante da me. Ha un aspetto aristocratico, capelli chiari con riflessi dorati, una gonna con una bella fantasia floreale in bianco e nero. Anch’io dovrei comprarne una simile, manca nel mio guardaroba. E quel modello di scarpe bianche dal tacco alto? Anche quelle mi mancano. Come mai questa estate non ho comprato un paio di sandali bianchi? Il golfino nero appena attillato le sta proprio bene con la gonna a fiori. Devo trovare una gonna morbida  e ampia come quella, perché non ingrassa, sono sicura che non ingrassa, ogni volta scelgo male: o troppo riccia e ingombrante,  o troppo stretta che mi accentua i fianchi… basta, siamo alle solite. Lo speaker mi informa che la prossima fermata è San Giovanni in Laterano.

Si è liberato un posto. La ragazza si sposta leggermente, si siede. Non avevo notato, data la distanza, ma anche per problemi di vista, il suo viso stanco, se pur ravvivato con un po’ di fard e rossetto rosato quasi naturale. Ora si sta rivolgendo a una signora seduta accanto a lei. Devo aguzzare l’udito per capire cosa sta per dirle. Inizia a parlare e mi accorgo della sua inflessione dialettale siciliana.

“Scusi,  un’informazione. Devo scendere a Piazzale Flaminio per andare a Prima Porta?”.

“Dovrebbe scendere alla fermata Flaminio e proprio sul piazzale c’è la stazioncina per Prima Porta”.

“La ringrazio, non ho sbagliato! È che non sono mai stata da quelle parti. Vado a trovare degli amici, ma ho poco tempo, devo fare presto”.

“Presto? E perché? Scusi se glielo chiedo”.

“Sa… lavoro in  una trattoria…”

“Ma allora  è contenta, va tutto bene”.

“No, signora, non va bene. Sono quattro anni che lavoro là. Sono libera solo il lunedì.”.

“Lavora tanto! Dove sta dunque il problema? C’è tanta gente che sta libera tutti i giorni. Mio figlio ad esempio. Magari fosse occupato tutti i giorni”.

“Io sono contenta di lavorare. Solo che mi fanno lavorare troppo,  mi  deve credere, signora”.

“Certo che ti credo.  Ma ragazza mia, non ci sono dei turni?  Potrebbe venire qualcuno ad aiutarla”.

“Sì, è vero, è vero, Io glielo dico sempre al proprietario, ma lui non mi ascolta. Dice che non ci sono soldi abbastanza per un altro stipendio, minaccia addirittura di licenziarmi se non mi accontento… io mi ammazzo di lavoro, non posso continuare così, ho ventitré anni, la mia vita è venduta”.

Ventitré anni, considero, e già così provata, così nevrotizzata dalle fatiche del lavoro.

In effetti, osservandola più attentamente, mi sembra poco più grande della sua età. Il suo viso stanco diventa malinconico proseguendo nel parlare: “ Mi devo decidere, lavoro fino a mezzanotte, capisce? Mi devo decidere…”

“Certo, certo, deve prendere una decisione al più presto… stia tranquilla, qualcosa cambierà”.

Solite parole confortevoli di circostanza.

La ragazza prende il sopravvento sul dialogo, manifestando sempre più una tensione finora trattenuta.

“Sa… prima lavoravo giù in Sicilia. Poi la Sicilia mi stava troppo stretta e mi sono trasferita a Roma. Ma ora ho intenzione di trasferirmi nuovamente.  Anche Roma mi comincia a stare stretta. Chissà, forse potrei trovare altre occasioni…”.

“Cosa dice… stretta, stretta… piuttosto si  tenga stretto questo lavoro – replica l’altra – Dove si vuole trasferire, dove va! Con tutta questa disoccupazione che c’è in giro, dove va! Coraggio. La soluzione si troverà, non si preoccupi. Nel frattempo, cerchi di convincere i proprietari con le buone parole”.

La giovane continua irremovibile ad elaborare i suoi pensieri per approfondire  meglio le sue esigenze.

“Se non riesco a risolvere il problema, preferisco trasferirmi, veramente, è cosa decisa, decisa”.

“Il problema lo risolverà – la tranquillizza la signora – Mi potrebbe dare, intanto,  l’indirizzo della trattoria? Sa, per mio figlio che è disoccupato… magari il proprietario cambia idea… non ha detto che lei vorrebbe un aiuto?”

A questa repentina richiesta l’imbarazzo della ragazza si fa più evidente.

“Un aiuto… l’indirizzo… non lo so, signora… le potrei dare il numero di telefono della trattoria… aspetti che lo cerco… non lo trovo… eccolo… forse potrei risolvere il problema, potrebbe cambiare la mia situazione, devo parlare al proprietario…”

Appena pronunciata quest’ultima parola  appare subito meno vulnerabile, come se improvvisamente le affiorassero alla mente situazioni finora  insospettate e inaspettate, sia per me che per la signora che le sta accanto. Riprende a parlare, ma questa volta  con una istintività disarmante, come se si volesse liberare da un peso opprimente.

“Il proprietario si deve dare una calmata.  La verità è che lui… mi tocca, mi tocca. Quando siamo soli lui si vuole sempre approfittare di me, io non voglio e lui si arrabbia e mi fa lavorare troppo… mi tocca, capisce? Io ho bisogno di lavorare… questo lavoro mi piace… ma non so che fare… non lo so, non lo so…”.

La metro comincia a rallentare la sua corsa, e quando si ferma la passeggera scende inaspettatamente lanciandole un veloce “mi raccomando e a presto!” e lasciando la ragazza  bloccata in un’espressione smarrita, confusa, con il gesto della mano che accenna al saluto. Ma… non doveva scendere a Piazzale Flaminio? E ora che farà? Siamo oltre quella zona. A questo punto vado subito da lei e le dò delle indicazioni. Per un istante il suo viso si illumina, ma solo per un istante, perché dopo l’espressione del suo viso è di nuovo amareggiata in quanto, probabilmente, le avrà fatto molto male aver svelato ad una sconosciuta di transito fatti così intimi e personali.

Mi sarebbe piaciuto ascoltare ancora la ragazza, capire più a fondo la sua situazione,  ma non faccio in tempo. La metro si ferma e lei deve scendere. La saluto cordialmente. Dopo qualche minuto scendo alla fermata Ottaviano.

Sulle scale mobili aspetto di respirare l’atmosfera e la vitalità del via-vai delle persone e dei turisti della zona vicino al Vaticano.

La figura di quella giovane donna cresciuta troppo in fretta si sovrappone continuamente alle numerose immagini in corsa che offre la città. Lei per qualche attimo aveva volato con la mente verso chissà quali altri orizzonti, tra desiderio di fuggire da una situazione molto imbarazzante, fatta di continue molestie, costrizioni… e la necessità di mantenere il posto di lavoro, indispensabile alla sua sopravvivenza. Stralcio di una esistenza precaria  balzata fuori, ma che si è subito dispersa in quanto sospesa e indefinita.

Il mio passo è sempre più frettoloso, lo sguardo meno  vagante, ed io cerco di distoglierlo da quel movimento incessante, da quella fuga del tempo.

E intanto continuo a pensare alla grande Pina Bausch, chiedendomi  come avrebbe realizzato e trasfigurato teatralmente la storia di questa ragazza vestita di bianco e nero: i suoi sogni, le molestie subite, il suo bisogno d’amore, o di evasione verso una mèta desiderata. Condizione sociale di  un lavoro insoddisfacente e disagevole che io ho soltanto intuito e raccontato.

Pina non intuiva solamente le precarietà esistenziali, ma riusciva ad elaborarle in storie ricche di umanità.

Con semplicità, essenzialità, armonia. Sapeva guardare nell’animo della gente. Trasfigurare le varie sfaccettature della vita in un gioco scenico emozionale, in una danza suggestiva ed appassionante, fortemente evocativa.


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