Francesco TOZZA- SantagataDostoewskij fra i dannati della terra (Napoli Teatro Fest)
Napoli Teatro Festival
SANTAGATA\ DOSTOEVSKIJ FRA I DANNATI DELLA TERRA
Foto di Monica Jacopini
“Malvagi” da Dostoevskij
ideazione e regia di Alfonso Santagata con Sandra Ceccarelli, Carla Colavolpe, Massimiliano Poli, Alfonso Santagata, Tommaso Taddei, Giancarlo Viaro
Palazzo Reale-Cortile d’onore 7/8 giugno
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“Penso a un teatro immediato e rozzo” – aveva detto Alfonso Santagata nel programma di sala di uno degli spettacoli del Katzenmamacher (la sua Compagnia teatrale), negli ormai lontani anni ’90: parole che, anche se decontestualizzate (nello specifico si trattava di uno spettacolo su Petito e le sue celebri parodie, dove il gioco dello “stravisamento”, caro a Santagata come a tanta sperimentazione a lui contemporanea, aveva forse una più facile ragion d’essere), mantengono – se efficacemente penetrate – il loro carattere esplicativo, rivelatore di un modo di fare teatro tutt’altro che ingenuo o semplicistico.
L’immediatezza traduce il rifiuto di sovrastrutture concettuali, che appesantiscono il risultato scenico, se ad esso non approdano, tutt’al più preparandolo; l’approccio rozzo indica una scelta di campo che si potrebbe definire da teatro povero, facente leva, a suo modo certo, quasi esclusivamente sul corpo degli attori, compreso quello dell’autore-attore-regista, con funzione però soprattutto straniante, quasi per un intimo bisogno di ricordare a se stessi, oltre che agli spettatori, i limiti imprescindibili della pur necessaria finzione scenica.
Nel che, a nostro avviso, é la cifra stilistica del teatro di Santagata, il suo peculiare modo di offrire quella che nei suoi spettacoli resta – e non vuole apparire diversamente – una drammaturgia derivata, non importa se da Shakespeare, Pinter, Beckett o da Petito e, più di recente, Eduardo. Drammaturgia – se solo ci si riflette a sufficienza – che è sempre derivata quando approda sulle tavole del palcoscenico; che poi qui si invochino impossibili quanto inutili scrupoli filologici, o letture paradossalmente oggettive dei testi avvicinati, diventa a questo punto mera petizione di principio o sterile pregiudizio.
C’è tuttavia un però, anche per quelle pratiche di teatro che, pur all’interno di una sperimentazione, sostanzialmente mantenuta tale (del resto ogni teatro o forma d’arte, che non voglia condannarsi alla ripetizione dell’identico, è giocoforza sperimentale), continuano – evitando temute derive o troppo coraggiosi salti mortali in una sorta di nichilismo teatrale… – a ripassare la tradizione, ad accarezzarla.
Che resta da fare oggi? – si chiedono, del resto, in molti, e non a torto, manifestando una forma di rispetto verso la sacralità del testo, riconosciuta ormai anche da chi non disconosce il diritto all’interpretazione; la quale, se non è mai, e non può essere, autentica, non dovrebbe comunque prescindere dal suo pur dichiarato termine di riferimento. Torna in ballo, insomma, la legittimità dell’inevitabile tradimento, il duello fra due forme di creatività, in più o meno implicito contrasto.
Ciò che ci piace in Santagata è la consapevolezza di una tale contraddizione, del rischio che l’accompagna, affrontato anche con una piccola dose di autoironia; rischio tanto più forte quanto più grandi (magari perché concettualmente più complessi) sono gli autori avvicinati, come nel caso di questo Dostoevskij, portato al NapoliTeatroFestival. Un ritorno per giunta: avevamo dimenticato l’Omsk d’inizio anni ’90, già allora un riferimento al terribile penitenziario della Siberia, in cui il grande scrittore russo ambientò la sua parziale autobiografia di condannato a morte (per opposizione al regime zarista), solo in extremis mandato, per commutazione della pena, in quell’inferno per lavoratori forzati.
In uno scenario più nudo ed essenziale rispetto a quello (più affastellato, se ricordiamo bene) del precedente spettacolo, l’alter ego dell’Autore, di nuovo in cappotto scuro di foggia russa, colbacco in testa e un abat-jour acceso in mano (tocco straniante di quasi ironica leggerezza in tanta oscurità dell’animo umano!) funge da guida fra le crudeli storie dell’universo dostoevskijano (davvero memorie di una casa di morti, ma non solo), che a tratti sembrano diventare le visioni dello stesso regista, forse le ossessioni degli stessi spettatori, cadenzati da una lancinante colonna sonora.
Certo, resta un senso di incompiutezza alla fine dello spettacolo. Ma non a caso quelli della generazione di Santagata chiamavano “studi” il parto della loro fantasia, a sottolinearne non solo la precarietà (per diversi motivi, anche organizzativi, magari sottaciuti!), ma anche la deliberata imperfezione, il “non finito” di esperienze alle quali prima o poi ci si augurava di tornare, per rifletterci nuovamente, in percorsi teatrali che a questo poi miravano, essenzialmente.