Cinzia BALDAZZI – “Immagini della crisi”: il “soggetto debole” tra filosofia e letteratura (un libro a cura di L. Albanese)

 

 

Scaffale

 

IMMAGINI DELLA CRISI: IL ”SOGGETTO DEBOLE” TRA FILOSOFIA E LETTERATURA


Michel Foucault


Contro il relativismo di essere e pensiero, la missione della letteratura verso “l’oltre”. Nietzsche, Husserl, Joyce, Heidegger, Bachtin, Bataille, Foucault e Murakami nei saggi di Albanese, Bodei, D’Ugo, Fasoli, Pettorossi e Rella (edizioni Stamen, 2017)


Siccome «non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino» – spiega il sorprendente English teacher John Keating ne L’attimo fuggente, con la sceneggiatura di Tom Schulman – ma «perché siamo membri della razza umana», e «la razza umana è piena di passione», dalle metafore di una silloge succede spesso di transitare nelle figure di una differente antologia, in quanto ogni poetica occupa uno spazio e un tempo comuni, nella sostanza, a noi, all’umanità globale. In modo analogo, se leggiamo testi di pensiero per sapere e imparare a vivere, le pagine di quei volumi può accadere si colleghino, nella ragione, a diversi criteri familiari, incastrati tra di loro in un rapporto dialettico progressivo sempre nuovo.

Così, all’inizio, scorrendo i capitoli di Immagini della crisi (edizioni Stamen, 2017), ho ravvisato stimolanti affinità con L’ordine del discorso, lezione inaugurale di  Michel Foucault tenuta nel dicembre del ’70 al Collège de France: più volte, infatti, l’ho consultato tentando di rendere naturale il “proseguimento” della ricerca nel tessuto medesimo del “discorso”, di una minima orma di sicurezza soggettiva rispetto agli argomenti affermati o ascoltati qua e là, nel privato o nel pubblico. E il motivo specifico è nel provare a oltrepassare il crollo odierno (piuttosto grave) di un simile, potrei dire, conforto ontologico. Perdita di consistenza del soggetto, relatività, scetticismo: emergenza causata da chi? da cosa?

Mi ritrovo nel parere di Luciano Albanese, professore associato di Filosofia pratica all’Università di Roma, curatore di Immagini della crisi, nel rintracciare, sul «fronte esterno», tra i responsabili – degni di encomio – di tale precarietà di cogito e credo, la fenomenologia di Edmund G. A. Husserl (molto illuminanti le note dello stesso Albanese a proposito della non-univocità delle percezioni contenute in questa teoretica), scrutando sino in fondo la visione del mondo trasmessa dalla scienza moderna. Mentre il nostro Foucault, dopo Friedrich W. Nietzsche e Martin Heidegger, avrebbe piuttosto lavorato sul «fronte interno», indebolendo l’identità cartesiana-hegeliana di “essere e pensare”. È probabile l’approdo coincida – sostiene ancora Albanese – con la «soluzione simbolica» di una letteratura ponte verso il mito, allusiva di un’altra realtà.

Ricordo la mia evocativa scoperta, da ragazza, del Linguaggio e mito di Ernst Cassirer, quando il grande studioso, alla fine degli anni ’50, esordiva citando il Fedro di Platone. Il dialogo illustra l’incontro di Socrate con il giovane ateniese amante della retorica, sulle rive del fiume Illisso, nella pianura circostante la città protetta da Atena. Sdraiati all’ombra di un alto platano, discorrendo, Fedro chiede a Socrate se non sia il luogo esatto dove Borea (figlio del titano Astreo e di Eos, dèa dell’aurora, inoltre fratello di Noto, Apeliote e Zefiro), onorando il racconto tramandato, avrebbe rapito per amore Oritia (figlia del re Eretteo). Il brano avanza in forma diretta con il quesito a Socrate se reputasse vero tale “mitologema”: il padre della téchne maieutica risponde esercitando il suo metodo di ricerca della verità che, pur non credendovi a puntino, non trova però, a riguardo, alcuna difficoltà, valutando troppo oneroso il compito da svolgere per chi «a tutte queste figure meravigliose non crede molto, e vi si affatica intorno per riportare ciascuna a qualcosa di verosimile». Costoro dovranno «certamente dedicare molto del tempo, io invece non ho proprio tempo, e la ragione di ciò, mio caro, e questa: che io non sono ancora riuscito, secondo il processo delfico, a conoscer me stesso».

Quindi, dall’epoca di Platone (sofisti e retori) in poi, l’indagine sull’intelaiatura di regole formali e logiche e lo studio dell’etimologia hanno camminato di pari passo, giungendo all’invito a elaborare un mito e un’essenzialità intrinsechi, stretti tra loro in connessioni necessarie. Di conseguenza, spiega Cassirer, il discorso sarebbe «l’essenza medesima»: «il nome non soltanto designa l’essenza», ma è esso stesso «l’essenza medesima» e la sua forza è racchiusa in esso: infine, «tutto ciò rientra nei presupposti fondamentali della stessa intuizione mitica». Pertanto, è nel giusto l’insigne antropologo franco-belga Claude Lévi-Strauss allorché, intervistato da Paolo Caruso (ora in Conversazioni con Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault e Jacques Lacan, 1969), rileva: «Bisogna dar tempo al tempo e, quando si decide di dedicarsi a una ricerca di carattere autenticamente scientifico, vanno rispettate certe tappe. E noi siamo in un certo “momento” della scienza antropologica nel quale abbiamo bisogno di una descrizione sincronica e di una tipologia sistematica».

Michel de Montaigne

Nell’introduzione a Immagini della crisi, Luciano Albanese ricongiunge in chiave emblematica la suddetta criticità del soggetto con il celebre intellettuale e politico del Seicento francese Michel de Montaigne, il primo «filosofo della differenza», con riflessioni legate a tre esperienze sconvolgenti, alle origini della modernità: la rivoluzione astronomica, la Riforma protestante e la scoperta dell’America: tre avvenimenti cui si fa risalire l’apparizione del «pensiero debole» e la discutibilità di un solido sapere. Al punto che, ancora alla metà dei Sessanta, Lévi-Strauss auspicava un’eventualità dialettica in grado di diventare «un giorno la ragione in base a cui si possa giudicare qualunque fenomeno e fondare la validità stessa della ragione analitica». E afferma di essere sempre più kantiano, ossia «kantiano non tanto per il contenuto specifico della dottrina di Kant, quanto per la particolare maniera di porre il problema della conoscenza».

Una sintetica ed efficace view su «il primo e ultimo Heidegger» è offerta da Albanese in un seguente e ulteriore brano del libro, procedendo con le idee sul ritorno vivace alla genialità delle Critiche kantiane nella struttura della gnoseologia ed epistemologia della Scuola di Marburgo, della scienza storica di Wilhelm Dilthey, del divario con quella naturale di Heinrich Rickert e della socio-economia di Max Weber. Tuttavia, interpretando così di nuovo il kantismo di Lévi-Strauss, leggiamo: «La filosofia non è comunque il perno, il punto centrale della mia riflessione e, se dovessi cercarmi maestri di pensiero, probabilmente sarebbe fuori dalla filosofia che guarderei; guarderei a Rousseau, a Chateaubriand – tanto per fare dei nomi – cioè a uomini che si sono, sì, posti problemi filosofici, problemi sociologici, ma che non li hanno mai dissociati da certe preoccupazioni di ordine estetico: insomma che non hanno mai preteso che fosse possibile riflettere sull’uomo attraverso modi puramente intellettuali».

Il lungo e creativo viaggio di Immagini della crisi compiuto dai sei documentatissimi protagonisti, tra autori e intervistati, sulle tracce di Nietzsche, Husserl, Joyce, Heidegger, Bachtin, Bataille, Foucault e Murakami, per superare lo sciame pauroso e nebuloso di un percepire unico e fondamento di nessuna obbiettività, propone appunto di ricorrere proprio alla letteratura, mito o realtà eterogenea, per uscire dal relativismo assoluto dell’essere solo finalistico.

Nel saggio della studiosa e insegnante Silvia Maria Pettorossi su Foucault, Derrida: cogito e grande internamento, il dibattito è articolato su alcuni passi tratti da Storia della follia dedicati al cogito cartesiano, argomento di una conferenza del ’63 di Jacques Derrida al Collège philosophique. La Pettorossi mette in luce, sempre nell’ambito della conoscenza di eventuale attendibilità del singolo, la «differenza ontologica» tra follia e  flusso onirico in Michel Foucault: «il sognatore resta un “soggetto meditante” perché il sogno non gli impedisce di continuare a meditare, riconoscendo l’esistenza di un certo numero di cose o principi reali (come la natura del corpo e la sua estensione). La scena del sogno continua ad avere i contorni abituali della realtà: la scena della follia, al contrario, sostituisce questa realtà con un’altra, ad esempio, quella dei corpi di vetro».

Nel ‘69, nel colloquio con Paolo Caruso, in epoca di pieno strutturalismo Foucault stabilisce: «Quel che rende l’uomo possibile è, in fondo, un insieme di strutture, strutture che egli certo può pensare, può descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana”. In Immagini della crisi leggiamo: «Analoghe considerazioni vanno fatte, secondo Foucault, per l’assimilazione proposta da Derrida, del Genio maligno alla follia totale. Anche qui resta una differenza di fondo: il primo toglie realtà alle esperienze abituali, mentre la seconda assegna realtà ad esperienze eccentriche, come quella di essere fatto di vetro»: un’entità spingerebbe a non coltivare fiducia nelle cose reali, la successiva esorterebbe ad “investire” sull’irreale.

Nel capitolo Destini personali. Una conversazione tra Doriano Fasoli – uno degli autori del testo, insegnante di psicoanalisi – e Remo Bodei, docente alla UCLA, è riferito un progetto provocatorio e strumentale di risolvere la crisi con l’appello al realismo, pur dichiarando palese la tensione del moderno Kunstwollen a prediligere il simbolico (ossia, il “terzo regno” di uno dei maestri della contro-cultura, Gilles Deleuze). Allora Bodei, menzionando Nietzsche, ribadisce: «Sono lontano tanto dal dire che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”, quanto dal ritenere che la nostra mente sia uno specchio che riflette la realtà». Poi, riguardo ad Aristotele e a Nietzsche, aggiunge: «Il detto di Pindaro “Diventa quel che sei!” ha un valore soprattutto morale, come invito alla coerenza, ma verrebbe da dire che, imparando dagli altri, bisognerebbe anche diventare quel che non si è, modificarsi».

Friedrich Nietzsche

I trattati di estetica, da qualche anno, comunque, hanno «titoli fin troppo originali”: nel valutare scontata una dimensione idonea a consentire in modo agevole di affrontare problemi del costume della aìsthesis, o inattese visioni metafisiche, Fasoli in breve trova curioso come, «proprio in nome di una presa di distanza dalla vecchia metafisica e dai cosiddetti fondamenti ultimi», non si faccia altro che parlare di “Esseri tramontanti o tragici”, di “Nulla avvolgenti”, di “Mitologie fondanti”, di Dio e degli Dei. Avanza quindi l’ipotesi se ciò comporti riedificare il fraintendimento dei romantici, i quali, sebbene in un’aura caratteristica, cioè in chiave metafisica, erano fedeli alla linea critica di Immanuel Kant. Bodei conferma di sì, precisando di sentirsi circondato di «buoni argomenti (migliori, almeno, di altri proposti) e non di seduzioni e allusioni». In aggiunta, confessa: «Tali inviti al nulla e ai miti mi preoccupano, quando non vi scorgo la “serietà del negativo”, la lucidità di un Leopardi, di uno Schopenhauer o di un Michelstaedter».

Sono d’accordo con Doriano Fasoli: è giusto chiedersi, in un ambito del genere, «Che cos’è la filosofia? Una conoscenza? Un prototipo storico culturale di una ricerca sull’identità/finalità del mondo? L’oggetto stesso di una ricerca?». E la replica di Franco Rella (è stato ordinario di Estetica), presumo colpisca letteralmente nel segno: «La filosofia interroga il mondo, le cose e i soggetti che abitano il mondo per trovare un senso al mondo stesso. Questo, per esempio, è lo stile della filosofia di Leopardi, di Nietzsche, di Benjamin. Fare filosofia non è un’attività tranquilla, non deve essere un mestiere». Però, «oggi spesso lo è: la filosofia che interroga solo se stessa ottiene risposte che sono già scritte nella sua tradizione».

La «fatica rischiosa», l’obiettivo della ricerca, insomma l’andare oltre, ruolo preminente della prosa e della poesia contemporanee, vanta firme eccellenti come James Joyce, Haruki Murakami, Margaret Eleanor Atwood. Notevole, nonostante si misuri con una tematica assai esplorata, è il saggio James Joyce, Molly Bloom e madre natura dello scrittore, ricercatore comparatista e giornalista Nicola D’Ugo: del caposcuola dello stream of consciousness è rilevata «la contaminazione e l’influenza subliminale che è presente nei primi lavori di Duchamp, ma anziché astrarre gli oggetti della quotidianità dal loro valore d’uso, lo scrittore irlandese affonda le radici del pensiero nell’intrico inestricabile del linguaggio, in una semiosi tendente all’infinito, senza dar la possibilità all’ermeneuta di chiudere il suo magico cerchio del senso. O meglio: glielo permette, ma limitatamente».

L’analisi dell’autore è dettagliata nell’intreccio della Weltanschauung della poetica joyciana, nel caratteristico e sofferto «movimento degli oggetti»: nell’Ulisse, Molly simboleggia la natura alla quale l’arte è ispirata, una sorte di metafora di moderna Penelope, e corrisponde anche alla parte iniziale del nome dell’eroina omerica, la “penna” (pen in inglese). Infatti, commenta D’Ugo, «è con l’abbreviato “Pen” che Joyce si riferisce a Penelope nei suoi appunti; e sul gioco di parole tra Penelope e la penna, tra il tessere il sudario per disfarlo e il costruire la trama del romanzo, che Joyce ordisce un discorso importante su cosa significhi fare letteratura e che rapporto possa essa avere con la vita»: suppongo vera, non astrusa o in divenire, anche secondo lo straordinario Keating di Peter Weir e della sua setta dei poeti estinti.

Tali reti di connessioni interne, o sistema di espressionalità, sono capaci di promuovere una mia personale associazione con il Ludwig Wittgenstein delle Ricerche filosofiche (1930) – e non del precedente Trattato logico filosofico del 1921-22 – quando individua un linguaggio diffuso, pendant misterioso delle cose convenzionali, al pari imponderabili. Non è più un insieme di emblemi all’altezza di celare, per mezzo di canoni grammaticali ingannevoli, il reale, autentica forma logica: diviene invece autonomo e in sé significativo. Pertanto, volendo apparire completo, non sarebbe per necessità ridotto alla sfera significante solo nella misura di ottemperare alle regole di un’utopica lingua perfetta.

James Joyce

Dunque, suggerisce D’Ugo, «se la panna che Molly aggiunge al tè» nel capitolo “Calipso” esprime la sua golosità, «essa è anche il simbolo del nutrimento originario dell’uomo allo stato più puro (…) o, se si vuole, della storia che comincia con la “schiuma” da barba, le “spume” del mare, and last but not least il latte che viene bevuto al mattino dai coinquilini della Torre Martello». Inoltre, nell’episodio “Eumeo”, Joyce chiama «the galaxy of events» (“la galassia degli eventi”) «l’asse del latte o Via Lattea da cui è originata la scrittura poetica con il suo carattere di elaborazione e conservazione del passato: due caratteristiche tipiche anche della carne in scatola». Cibo prediletto dall’enigmatica Molly Bloom, con padre e madre non letterariamente concepiti per risultare identificati, malgrado siano menzionati. In sintesi, D’Ugo dichiara: «Forse perché James Joyce non riteneva importante che lo si sapesse, ma riteneva fondamentale che non lo si sapesse per certo».

Tornando a riflettere sugli aforismi wittgensteiniani delle Ricerche, e indagando sulle modalità d’impiego di un’ordinaria unità lessicale di messaggio, e sulla matrice quotidiana dei meccanismi semantici di per sé saldi, il grandissimo viennese paragona una simile attendibilità a quella di una teoretica idonea a conciliare opinioni soggettive con ampi margini di fedeltà al concreto circostante: «Come sarebbe strano se la filosofia si occupasse di un linguaggio “ideale” e non del nostro. Infatti, che cosa dovrebbe esprimere questo linguaggio ideale? Certamente ciò che ora noi esprimiamo nel nostro linguaggio comune; allora è questo linguaggio che la logica deve investigare. Oppure, qualcosa di diverso: ma come devo sapere allora ciò che esso è?».

Nel caso discusso dell’identità dei genitori joyciani appena citati, per condividere l’immaginario, costoro esigono, quindi, di rispondere a un continuum di verifica logica, realizzando per Wittgenstein, in chiave traslata, «l’analisi di qualcosa che abbiamo, non di qualcosa che non abbiamo. Essa è dunque l’analisi delle proposizioni come esse sono», non nell’arco al limite di un dovere, piuttosto entro l’orizzonte di quanto possano o potrebbero sussistere. Parola di James Joyce.



Luciano Albanese, Remo Bodei, Nicola d’Ugo, Doriano Fasoli, Silvia Maria Pettorossi, Franco Rella

Immagini della crisi

Nietzsche, Husserl, Joyce, Heidegger, Bachtin, Bataille, Foucault e Murakami

a cura di Luciano Albanese

Roma, Stamen, 2017, pp.154, € 20,00

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