Anteprime
LE STAGIONI DI JEANNE
“Una vita” di Stéphane Brizé tratto dal romanzo di Guy de Maupassant presentato alla Sala Sacher di Roma
distribuzione Academy Two
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«Allora hai visto il film “Una vita” di Stéphane Brizé?» chiede la coordinatrice di “InScena-Scénario”, all’altro capo del telefono.
Lu.Mar. (io) risponde: «Prima conferenza stampa all’ “Anica”, poi al “Nuovo Sacher”, dove Nanni Moretti lo ha presentato in anteprima insieme al regista…“Una Vita” è un magnifico esempio di realismo poetico.».
«Come sai, Lu.Mar, Academy Two distribuisce film scegliendo sempre opere non facili per impedire al cinema di morire o di affondare nella mediocrità.»
«La storia si svolge sulle corde della malinconia», dirà Stéphane Brizé: «… un sentimento che fa parte del mio vissuto e mi accompagna a livello esistenziale in ogni mio film… tutti nella vita abbiamo tradito qualcosa dei nostri sogni e ognuno prima o poi deve affrontare il momento della fine dell’illusione… ho scoperto il romanzo di Guy de Maupassant “Une Vie” tramite Florence Vignon, con cui poi ho scritto la sceneggiatura … ho impiegato venti anni prima di osare di fare il film… ho sempre sentito un’attrazione mentale, una sorta di fratellanza con Jeanne, la protagonista, per il suo forte idealismo e la sua difficoltà di diventare adulta. E’ incapace di abbandonare il suo sguardo da bambina in cui tutto è bello e buono… ha un’idea molto alta degli esseri umani e conosce il senso del perdono… la sua mente è priva di secondi fini. Jeanne non sa mentire, è questo il suo fascino. E’ una giovane donna che, appena uscita dal convento, all’età di vent’ anni sposa, siamo nella Normandia del 1819, Julien de Lamare, un visconte locale aggressivo e infedele.»
Stéphane Brizé, incantato dal mondo interiore di Jeanne, osserva la realtà che la circonda, immersa nell’arco di trent’anni, unicamente dal suo punto di vista per rendere la narrazione più tesa e drammatica. Abbandona le scene descrittive della vecchia e polverosa nobiltà della Normandia del XIX secolo, presenti nel romanzo, di cui ha profondo rispetto sul piano narrativo ed insegue un andamento drammaturgico affidato alla memoria emotiva, che non si sviluppa in modo cronologico. Passato e presente s’intrecciano in continui ‘flashback’ e ‘flashforward’ sull’ellissi del non tempo. La narrazione è costruita con un montaggio che lascia spazio all’immaginario di ognuno, sono mostrate più le conseguenze degli atti che l’esecuzione degli stessi, con i personaggi inquadrati al centro della scena per dare rilievo al loro spessore psicologico. Jeanne è spesso davanti a una finestra chiusa, su cui si riflette a specchio la sua anima, mentre con il corpo dondola su se stessa quasi a cullarsi per calmare quella sensazione di freddo costante che l’attraversa.
«Infatti» aggiungerà Nanni Moretti, durante la presentazione, «non ci sono totali, campi lunghi, la macchina da presa è sempre addosso a Jeanne.»
Brizé: « …per me l’uso della camera a mano esprime i battiti della vita interiore di Jeanne, come pure l’inquadratura in formato 1.33, quasi quadrata, che si usava sessant’anni fa, crea una cornice di contenimento, un contesto claustrofobico, da cui è difficile o impossibile fuggire.»
Il direttore della fotografia, Antoine Héberlé alla terza collaborazione con il regista francese, è sintonizzato con il respiro degli attori e corregge continuamente la messa a fuoco per registrare ogni palpito emotivo. Questo tipo di inquadratura, inoltre, stimola lo spettatore a vedere oltre, lo spinge a guardare dentro le pieghe del personaggio. Invece in cinemascope, allargandosi il campo di visualizzazione, l’inquadratura sarebbe risultata di maniera andando contro la ricerca del reale che anima Brizé, e l’universo sonoro costituito dal ritmo della natura: raffiche di vento, pioggia battente, cinguettii, che caratterizza il film, sarebbe stato illustrativo mentre vuole solo suggerire paesaggi e dinamiche esistenziali.
E’ chiaro che non è un film sulla condizione femminile nel XIX secolo, ma è la risonanza intima del sentire di questa donna che non vuole elaborare il lutto della separazione fra l’infanzia e la giovinezza. La grandezza di Guy de Maupassant sta nel fatto che i suoi personaggi hanno un carattere universale e senza tempo perché rappresentati nella loro vita privata, scollegati dal contesto politico. E Brizé con le sue scelte registiche riesce ad andare oltre la letteratura, trovando un linguaggio fortemente cinematografico.
Il sonoro esclusivamente in mono e non stereo scandisce lo scorrere delle stagioni attraverso i paesaggi aspri e dolci della Normandia, le sue indomite scogliere sferzate dall’oceano in cui infuriano le correnti e i suoi prati fioriti, a cui s’ispirarono i grandi pittori dell’impressionismo, da Monet a Sisley e a Pisarro. La natura e le sue metamorfosi, nel film di Brizé, sono rappresentate da inquadrature volutamente lontane dalle citazioni pittoriche per evitare l’iconografia del cinema d’epoca e il loro risuono è sempre alto, al centro della scena; ad eccezione di alcuni momenti di struggente ricordo in cui scompare per dare voce al desiderio di Jeanne di fermare il tempo felice trascorso nel giardino della sua infanzia, quando correva intrepida dietro il volo delle farfalle per carpirne la bellezza e poi liberarle.«La vita non è mai così bella o così brutta come si immagina» è la didascalia con cui si chiude il film.
« Nei cinquanta giorni di riprese, afferma Brizé, ho dovuto lottare contro lo staff degli addetti ai costumi e al trucco e parrucco per evitare che gli abiti dei personaggi sembrassero usciti dalla tintoria mentre gli orli delle gonne dovevano essere sporchi di terra e le acconciature dei protagonisti imperfette, non leziose e finte come quando si esce dal parrucchiere. Altimenti non c’è vita…ci vuole rispetto per la realtà delle cose…».
La scelta degli attori è stata fondamentale per il successo di questo film che ha partecipato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016, è vincitore del Premio Fipresci, ha ricevuto la Menzione d’Onore al Festival France Odeon 2016- Firenze. Direi determinante l’intensità interpretativa di Judith Chemla (Jeanne), di Jean-Pierre Darroussin (il barone suo padre) e di Yolande Moreau (la baronessa sua madre), sottolineata dalle musiche originali di Olivier Baumont che ha suonato un pianoforte antico, simile al clavicembalo, creando un clima di suggestive vibrazioni. I costumi raffinati e delicati di Madeline Fontaine, insieme alle scenografie di Valérie Saradjian, hanno completato la percezione dell’ambiente in cui si avvicendano gli accadimenti.
A proposito del rapporto con i suoi attori, Brizé ha precisato che la sua attività si snoda mediante un documentario su di loro, in cui filma la loro relazione con il mondo, la loro ricettività ad esplorare gli spazi psichici più oscuri, la loro disponibilità ad offrire accesso ai loro intimi segreti sovrapponendoli al personaggio da interpretare.
In questo senso l’incontro con Judith Chemla è stato eccezionale:«Il suo talento come attrice – un talento che toglie il fiato – è la sua capacità di essere straordinariamente libera e di riuscire a rivelare la parte invisibile di Jeanne. »
Un’anticipazione sul prossimo lavoro di Stéphane Brizé: un’indagine d’impegno sociale in cui ritorna a collaborare con Vincent Lindon, protagonista del suo penultimo film “La legge del mercato”, che si è aggiudicato il premio per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes 2015.