Io scrivo
DUNE
Una lunga distesa d’erba che declinava sulle dune sabbiose ornate dalla macchia mediterranea. Avevo lasciato la casa dei miei ospiti, per una passeggiata dissi, in realtà vagavo alla ventura in luoghi sconosciuti. Nessuno mi aveva accompagnato ma, in fondo, era meglio così; le preoccupazioni si addensavano nella testa, scenari diversi si accavallavano l’uno scacciando l’altro e nessuno risultava soddisfacente.
L’avevo fatta grossa questa volta ed ero stato messo di fronte al fatto compiuto. Ero stato messo, di colpo, di fronte a me stesso. Perché se mi fossi ritenuto estraneo ai fatti o, peggio, vittima (del fato o sua) avrei fatto un grave errore. Quell’epilogo, in realtà, l’avevo voluto nel mio profondo, io quanto lei. Certo la ragione aveva lottato con tutte le sue forze ma nulla aveva potuto.
Noi che della ragione abbiamo fatto un mito, che è il nostro fondamentale strumento di lavoro, tendiamo a sottovalutare la spinta insopprimibile velata alla coscienza. C’è una razionalità nascosta che non si nutre di sillogismi o, forse, se ne nutre da diverse premesse, primarie, istintuali. Cozzano con il buon senso, con le convenzioni che noi uomini, organizzati socialmente, ci siamo fatti.
Ma sono una spinta potente, appunto, sottovalutata, e piuttosto spesso si prende la rivincita su quella parte di noi che vorrebbe farla tacere. Si vorrebbe si risvegliasse, per un po’, nell’estasi amorosa, nell’azione creatrice, per poi tornare a sopire, là in fondo, imbrigliata da forze soverchianti.
Non è così che va, alla mia età dovrei saperlo. Ancora un peccato di presunzione, la convinzione di poter dominare i propri istinti, le cose, gli altri. Una deformazione professionale di chi è abituato a dirigere, organizzare; di chi ha potere su chi da lui dipende. Ma varcata la porta della palazzina degli uffici, salutato con un cenno l’usciere, si riazzera tutto, game over, le mie prerogative scompaiono e gioco alla pari con gli altri attori della mia vita: non dirigo nulla a prescindere. Sì, mi atteggio da grand’uomo, faccio e disfo, decido io il più delle volte ed ho l’illusione di controllare tutto. Arriva il momento in cui cozzo con la realtà. Non controllo tutto e sono nei guai.
Ho due maniere di uscirne: dare ascolto alla parte razionale e prudente o a quella incosciente. Un dato certo c’è in tutta questa vicenda, io non ero contento della mia vita, un matrimonio stanco, senza figli, che non mi apparteneva più. Ma non è nella mia indole far male a qualcuno e continuavo a sentirmi legato a una consuetudine, a sopportare stancamente abitudini consolidate in anni, sempre più distanti dal mio sentire. Non è una storia particolarmente originale, è come se a un tratto le cose avessero cominciato lentamente a scivolare e, istante dopo istante, diventasse sempre più difficile trattenerle, dargli forma, mantenerle in un qualche simulacro di alveo.
L’istinto aveva preso il sopravvento, anche se continuavo a negarlo a me stesso e, ad un certo punto, mi avrebbe presentato il conto. Era un insulto alla mia intelligenza credere che fossi completamente inconsapevole, ma la presunzione di controllare tutto impediva di accettare l’evidenza. E così le cose continuavano lentamente a scivolare, e della discesa, calma e inesorabile, non si vedevano i contorni né la fine.
Io pure scivolavo insieme alle cose e mi beavo di quella ritrovata felicità, dei sensi rinnovati, della parola gentile, della risata grassa, libera, della leggerezza. Le convenzioni stanche di una vita borghese mi pesavano sempre di più: le rimpatriate dei vecchi amici, il poker del sabato notte, le cene da noi, ormai consumate nei soliti stanchi giochi delle parti. Non mi sentivo più rassicurato da questo, era sempre più lontano dalle mie esigenze, ma non volevo ammetterlo. D’altronde che altro avrei potuto fare da quelle premesse? Anche quella era stata una lenta deriva dal momento del fidanzamento, poi del matrimonio, spendendosi nelle giornate regolate dalle convenzioni sociali.
Era quella insoddisfazione, in contrasto con la gioia che mi dava incontrarla e fare con lei anche la più insignificante delle cose, che mi aveva fatto scivolare in una storia sempre più importante ed ora coronata dal sogno più bello, quello che mi portavo appresso da una vita e nascondevo a me stesso, ma che da dentro premeva e chiedeva ragione.
Avevamo concepito un nuovo essere che chiedeva rispetto, amore, abnegazione. Dovevo mettere a posto molte cose prima che venisse al mondo. Non potevo negare di essere felice, preoccupato ma felice. Ed ero fortunato, me lo potevo permettere.